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giovedì 30 aprile 2020

Le parole dell'astronomia: Galassie peculiari

Circa il 90% delle galassie dell'Universo appartiene a due grandi famiglie: le ellittiche, dalla forma sferoidale e in generale priva di strutture, e le spirali, le meravigliose girandole cosmiche che sicuramente abbiamo visto in moltissime foto su internet. A seconda di come le guardiamo, le galassie a spirale possono mostrare la tipica struttura, se viste "di faccia", o apparire come degli oggetti molto allungati con un rigonfiamento centrale, di solito tagliati da una banda oscura, se viste "di taglio". Sebbene l'aspetto sembri differente, anche questi "dischi volanti cosmici" appartengono sempre alla categoria delle spirali.
La galassia di Hoag fotografata dal telescopio spaziale Hubble

Ci sono circa il 5-10% delle galassie, tuttavia, che non mostrano una forma definita. Per questo motivo, e con moltissima fantasia, sono state chiamate irregolari. 
Una classe quasi complementare alle irregolari è contraddistinta dalle galassie peculiari. Molto spesso si utilizza alternativamente il termine galassia peculiare per indicare una galassia irregolare ma le due definizioni non sono proprio identiche. Le galassie peculiari sono oggetti che possiedono qualche peculiarità, qualcosa di differente rispetto alle altre che non riguarda solo la forma ma anche la composizione chimica, la distribuzione delle stelle, la presenza di gas o getti che escono dal nucleo o di grandi quantità di polveri deformate dalla forza di gravità. Molto spesso le galassie peculiari sono oggetti disturbati gravitazionalmente da altre galassie. L'interazione può essere in corso oppure essere avvenuta in tempi recenti (centinaia di milioni di anni fa). Una famosissima coppia di galassie peculiari sono le galassie con le Antenne. Le galassie peculiari, quindi, rappresentano una classe di oggetti colti in uno dei rari momenti in cui non si trovano in equilibrio. Disturbati da collisioni o interazioni in corso, la loro struttura sta mutando in conseguenza dello sconvolgimento gravitazionale che hanno subito.
 Un altro meraviglioso esempio di galassia peculiare è la galassia di Hoag, un oggetto raro formato da un nucleo giallastro e un immenso anello dal diametro di decine di migliaia di anni luce, popolato da giovani stelle azzurre. 

Le galassie peculiari in ogni caso sono oggetti di transizione. Anche se non è sufficiente tutta la storia dell'uomo per vederle cambiare, nel corso di centinaia di milioni di anni la loro forma subirà grandi sconvolgimenti. Prima o poi l'evento che le rende tanto peculiari terminerà e tutte troveranno il loro equilibrio. 

venerdì 17 novembre 2017

Un nuovo libro di astronomia: I colori dell'Universo

E' disponibile in mio trentaquattresimo (sì, 34!) libro di astronomia, un lavoro del quale vado piuttosto fiero perché frutto di molti anni di osservazione e fotografia del cielo.

L’Universo è pieno di colori, anche se i nostri occhi non hanno la sensibilità sufficiente per vederli. Dopo migliaia di anni di visione monocromatica, la fotografia astronomica ha reso accessibile al genere umano gli straordinari colori dei pianeti, delle stelle, delle nebulose, delle galassie, fino ai confini del Cosmo. 

In questo libro presento 110 spettacolari immagini dell’Universo, a colori e in alta risoluzione, ottenute con la mia strumentazione in venti anni di carriera da astrofotografo. Oltre 400 ore di esposizione complessiva e viaggi avventurosi attraverso tutti i continenti, alla ricerca degli spettacoli più elusivi: dalle aurore boreali alle eclissi totali di Sole, fino allo straordinario cielo australe, per assemblare una delle raccolte di fotografie astronomiche più completa in circolazione. 

Rimarremo stupiti di quante meravigliose tonalità si nascondono nel buio del cielo e di come ogni sfumatura, anche la più piccola, trasporti informazioni sulle incredibili proprietà dei mastodontici corpi celesti dell’Universo. Quei preziosissimi e rarissimi fotoni, messaggeri di meraviglia, giungono sui nostri sensori digitali dopo un viaggio interminabile e contribuiscono a costruire l’immagine del luogo più colorato e straordinario che potremmo mai vedere nelle nostre vite.

Si può acquistare in formato cartaceo a colori, o in formato ebook

lunedì 6 febbraio 2017

La scoperta dell'Universo, parte 2: la vera natura delle "nebulose spiraliformi"


Osserviamo questa foto e proviamo ad andare oltre la mera bellezza. Stiamo ammirando la nebulosa di Andromeda, che copre nel cielo un’area 12 volte superiore a quella della Luna piena vista a occhio nudo ed è un ottimo rappresentante di quella classe di nebulose spiraliformi che fino agli anni ’20 del ‘900 facevano discutere molto gli astronomi circa la loro natura. In questa immagine scattata con un piccolo telescopio da 70 mm di diametro possiamo indagare meglio la struttura di questi strani oggetti.

Il colore, intanto, si conferma differente da quello che ci aspetteremmo da una distesa di gas rarefatto di una vera nebulosa. Se potessimo scomporre la sua luce con una specie di prisma noteremmo molto bene che la luce si estende su una grande varietà di colori, o lunghezze d’onda, al contrario dell’emissione a righe strette e molto rade delle nebulose. Sembra proprio di stare osservando un oggetto che ha proprietà più simili alle stelle, ma non a un singolo astro, piuttosto a un gruppo molto eterogeneo. A proposito di stelle, uno sguardo d’insieme ci dà l’impressione che nei pressi della porzione di colore azzurro il loro numero aumenti. Abbiamo trovato il modo di capire la natura di quest’oggetto misterioso? Se riuscissimo a trovare degli astri particolari, come le Cefeidi, ed essere sicuri che appartengano alla nebulosa di Andromeda, potremmo misurarne la distanza senza grossi problemi.

Eccoci allora arrivati a quello che sembra uno dei due grossi colpi di fortuna della storia dell’astronomia contemporanea citati nel post precedente. Nel 1917 gli Americani, da sempre fautori di opere esagerate, inaugurarono il telescopio più grosso del mondo sulla cima del monte Wilson. Il telescopio Hooker, così era stato chiamato, aveva un diametro di 100 pollici, ben 2,54 metri. Ecco quindi l’avanzamento tecnologico che avrebbe permesso di dirimere la questione sulle nebulose spiraliformi una volta per tutte. A questo punto la fortuna scelse “il chi”, ovvero il personaggio che avrebbe scritto la storia. Era un signore laureato in legge per volere del padre e uno sportivo di ottimo livello, che poi non riuscì a resistere alla passione di una vita e prese un dottorato in astronomia proprio nel 1917. Si chiamava Edwin Hubble e la sua tesi di dottorato sull’investigazione fotografica delle nebulose deboli era l’argomento perfetto per venir approfondito attraverso il telescopio più grande del mondo. Il fondatore, George Hale, lo volle infatti nel suo staff e Hubble divenne a quel tempo uno degli astronomi più invidiati al mondo. Per il come, invece, la sorte scelse una nebulosa famosa e una classe di oggetti appena caratterizzata: la nebulosa di Andromeda e le Cefeidi di Henrietta Leavitt.

Hubble ottenne quelle che al tempo erano le fotografie più dettagliate e profonde che essere umano avesse mai scattato all’Universo e cercando su quelle lastre traccia di stelle particolari notò quella che presto identificò come una variabile Cefeide. Era debolissima, molto più debole di quelle che Ejnar Hertzsprung aveva utilizzato per misurare la distanza delle varie zone della Via Lattea.
Applicando la relazione periodo-luminosità Hubble scoprì che quella debolissima stellina doveva trovarsi molto oltre i confini stimati della Via Lattea. Se quella stella apparteneva alla nebulosa di Andromeda, non poteva trattarsi di una mera distesa di gas dalle proprietà ancora sconosciute, ma di un sistema esteso almeno quanto la Via Lattea e a questo punto contenente miliardi di stelle.

Hubble aveva appena risolto un dilemma che aveva assunto i contorni di un grosso mistero, ma aveva anche lasciato in eredità un fardello difficile da digerire per tutte le generazioni a venire. La cupola protettiva si era sollevata del tutto: l’Universo era cresciuto in dimensioni ben oltre la nostra immaginazione. Da allora niente sarebbe stato lo stesso e tutto, di nuovo, sarebbe stato da scoprire. Quell’insignificante dettaglio che era l’unico dubbio a una conoscenza perfetta di un Universo statico, immobile e dominato dalla Via Lattea quale unica galassia, era stato il cavallo di troia che distrusse le certezze di un’intera generazione di astronomi e aprì le porte alla più grande rivoluzione culturale e scientifica della storia.



Oggi basta un telescopio 10 volte più piccolo di quello utilizzato da Edwin Hubble per ottenere un’immagine 10 volte più dettagliata di quella che gli ha permesso di scoprire la natura extragalattica della nebulosa di Andromeda e non avere più dubbi di alcun tipo, sebbene la nostra mente continuerà a faticare per tutta la vita ad accettare tutto questo.


venerdì 3 febbraio 2017

Quante galassie ci sono nell'Universo? Una nuova, incredibile, stima



Il bello della scienza, sia per chi la fa che per chi ne segue l’evoluzione da spettatore interessato, è il fatto di non essere mai noiosa perché le nostre conoscenze sono in continua evoluzione e si avvicinano sempre di più alla descrizione della realtà che ci circonda. Questo è vero in modo particolare quando vogliamo rispondere alle più importanti domande che riguardano il funzionamento e le proprietà dell’Universo. In un ambiente tanto vasto e complesso, sono molti i campi in cui le nostre conoscenze rappresentano solo un’approssimazione della descrizione della realtà. E’ qui che la scienza deve indagare più a fondo per arrivare a delle risposte quanto più possibile precise.

Molto tempo fa, su questo stesso blog, avevo tentato di rispondere a una domanda che molti curiosi si fanno: quante galassie ci sono nell’Universo? La risposta l’avevamo data osservando la più profonda immagine ottica mai scattata dal telescopio spaziale Hubble, dove in una zona di cielo casuale, non disturbata da gas e polveri della nostra galassia, avevamo contato circa 10 mila remote galassie. Da lì il gioco fu semplice: bastava moltiplicare quel numero per tutta l’estensione del cielo, supponendo (a ragione) che le galassie sono distribuite in modo uniforme nello spazio. Il risultato era un numero incredibile: dalle 200 alle 300 miliardi di isole di stelle.
 
Ora si è scoperto che quel valore potrebbe essere sottostimato persino di un fattore 10. Come mai? La domanda che dobbiamo porci per avvicinarci al numero reale di galassie nel nostro Universo è semplice, non prevede una laurea in astrofisica ed è la seguente: riusciamo a osservare tutte le galassie da qui agli albori dell’Universo? Ovvero: ci possono essere, sempre in quell’immagine, galassie tanto deboli e piccole da essere sfuggite all’occhio di Hubble?

L'Hubble Ultra Deep Field: la base di partenza per fare una nuova stima del numero di galassie nell'Universo

Se per farci domande non serve una laurea, per cercare una risposta sì: se non abbiamo le capacità di fare una seria ricerca che possa darci una risposta in modo oggettivo, oltre ogni ragionevole dubbio, dobbiamo affidarci al lavoro di altre persone che lo fanno con serietà e professionalità.
Nel nostro caso uno studio guidato da Christopher Conselice della University of Nottingham, U.K, sembra gettare nuova luce sulla nostra conoscenza delle grandi scale dell’Universo. Conselice e i colleghi si sono infatti guardati intorno e si sono fatti un paio di domande. L’immagine ultra profonda di Hubble mostra tantissime galassie, molte delle quali con una massa simile a quella della Via Lattea. Ma se guardiamo nel nostro “giardino”, ovvero nelle vicinanze della Via Lattea, che tipo di galassie troviamo? Il gruppo a cui appartiene la Via Lattea è composto da 3 galassie di grandi dimensioni (Via Lattea, Andromeda, galassia del Triangolo) e da almeno 40-50 piccole galassie nane di forma ellittica o irregolare, molte delle quali sono tanto deboli da risultare quasi invisibili con i grandi telescopi, nonostante la vicinanza (non più di qualche milione di anni luce). È qui il segreto per capire quante galassie potrebbero esserci nell’Universo e la domanda delle domande è: come sono distribuite in massa le galassie? Quante galassie nane, quasi invisibili, ci sono per ogni isola grande e luminosa come la Via Lattea, Andromeda o la galassia del triangolo? Quante galassie nane, invisibili, ci sono per ogni punto luminoso dell’immagine ultra profonda di Hubble? Probabilmente molte. Se non abbiamo la presunzione di credere che lo spazio locale in cui viviamo sia in realtà un sistema privilegiato dove vigono regole eccezionali, allora è lecito supporre che la proporzione tra galassie brillanti e deboli sia la stessa in ogni altro punto dello spazio. 

Le domande successive non sono meno importanti: come evolvono le galassie con il tempo? Ovvero, 13 miliardi di anni fa, agli albori dell’Universo, quante galassie c’erano e quante se ne dovevano ancora formare? La proporzione tra galassie luminose e brillanti era la stessa o è variata nel tempo? La questione è importante perché in ogni foto profonda, come quella di Hubble, noi stiamo osservando uno spaccato tridimensionale del cielo, la cui profondità contiene tempi diversi: gli oggetti più distanti appartengono a un Universo molto più giovane di quello che compete alle galassie più vicine. Capire come varia il numero di galassie in funzione dell’età dell’Universo è quindi fondamentale per riuscire a contarle tutte. 

C'è ancora un'altra domanda che dobbiamo porci, per avere ben chiara la situazione e procedere, con consapevolezza, alla nuova stima del numero delle galassie e deve tenere conto dell'espansione dell'Universo. L'immagine di Hubble è stata ottenuta alle lunghezze d'onda visibili, dove le galassie emettono la maggior parte della radiazione elettromagnetica. Tuttavia più lontano guardiamo nello spazio e più vediamo la luce spostata verso il rosso. A oltre dieci miliardi di anni luce di distanza lo spostamento verso il rosso è tanto pronunciato che quello che noi pensiamo di osservare nel visibile appartiene invece alla parte ultravioletta dello spettro emesso da quella remota galassia. La domanda è quindi la seguente: quante galassie ha mancato il campo ultraprofondo di Hubble a causa dello spostamento verso il rosso, che ha spostato la banda visibile verso le regioni infrarosse dello spettro per gli oggetti più distanti? Per dare risposta a quest'effetto particolare, che potrebbe regalarci una rappresentazione sballata dell'Universo, bisogna effettuare fotografie altrettanto profonde anche in altre bande, come l'infrarosso.

Il team di Conselice ha quindi cercato di tenere conto di queste variabili e grazie a un modello computerizzato è arrivato a ricostruire una versione 3D di questa straordinaria immagine di Hubble, che contiene il numero di galassie che ci si aspetta in un tale volume di spazio. Non sono più 10 mila, ma circa 100 mila, sebbene il 90% non sia visibile. A questo punto, moltiplicando per tutta l’estensione del cielo si arriva a una nuova, incredibile, stima del numero di galassie nell’Universo osservabile: circa 2 mila miliardi, ovvero 2 trilioni. Questo non vuol dire che l’Universo è un ambiente più massiccio di quanto pensavamo, anzi. Fino a questo momento il conteggio di galassie sulla base di quelle visibili dall'immagine profonda di Hubble portava a un deficit di massa visibile rispetto a quella calcolata stimando la densità di materia nell'Universo locale. Ora le cose sembrano tornare e l'apparenza inganna, di nuovo: non è detto che ciò che è appariscente rappresenti la maggioranza di una classe di oggetti. È un comportamento, questo, molto simile a quello seguito dalle stelle: gli oggetti di piccola massa sono molto più numerosi di quelli di grande massa, sebbene quest’ultimi si facciano notare molto meglio perché milioni di volte più luminosi. A quanto pare l’Universo ama replicare su scale diverse le cose ben riuscite e noi dovremmo aver imparato la lezione, anche nella vita reale: mai giudicare una situazione dalle apparenze.

Due mila miliardi è quindi la migliore stima che abbiamo delle galassie dell’Universo osservabile. Ricordiamoci, però, qual è il significato dell’aggettivo “osservabile”: la porzione di spazio a noi accessibile. Questa non è limitata dalle nostre capacità tecnologiche, ma dalla velocità finita della luce. Poiché l’Universo ha quasi 14 miliardi di anni, noi non possiamo vedere oltre una sfera dal raggio di circa 14 miliardi di anni luce. Secondo le attuali conoscenze, tuttavia, l’Universo sarebbe un posto molto più grande, almeno miliardi di miliardi di miliardi di volte più esteso. Com’è possibile tutto questo? Alla base c’è un’interessante teoria chiamata inflazione, che agli albori dell’Universo lo ha fatto espandere, per un tempo brevissimo, molto più rapidamente della velocità della luce. Ma questo è un argomento che esula dal nostro post.

Prima di tuffarci verso nuove domande, prendiamoci un momento di riposo per trasformare i meri numeri in emozioni. Siamo consapevoli di quello che abbiamo appena letto? Viviamo in uno spazio in cui ci sono 2 mila miliardi di galassie, tanto immense da contenere centinaia di miliardi di stelle ciascuna, ma talmente lontane le une dalle altre che anche con i più potenti telescopi possiamo osservarne appena il 10%. Riuscite a immaginare l’immensità dello spazio intorno a noi, il numero di stelle totale e quanti pianeti potrebbero esserci solo nella porzione a noi accessibile dell’Universo? Riuscite a comprendere quanto siamo insignificanti, noi e il nostro ego smisurato, per l’Universo? Nessuno riesce a comprendere in fondo queste grandezze, ma è sufficiente avvicinarsi alla consapevolezza quel tanto che basta da provare un lungo brivido sulla schiena. Se riuscissimo ad arrivare a questo punto, avremmo già compreso molto, incluso il modo per rendere migliore questa nostra società, che ha dimenticato del tutto l’ambiente in cui vive e l’Universo immenso che la circonda.


mercoledì 1 febbraio 2017

La scoperta dell'Universo, parte 1: i primi del '900 e le Cefeidi di Henrietta Leavitt

 Questo rappresenta il primo di una serie di post, estratti dal mio libro "La straordinaria bellezza dell'Universo", in cui si caratterizzano le sorprendenti proprietà dell'Universo a grande scala: dalla scoperta di alcune stelle particolari che hanno consentito rivelare la vera natura delle "nebulose spiraliformi" alla sorprendente espansione dell'Universo, fino alla caratterizzazione del Big Bang e delle prove osservative arrivate nel corso degli anni. Si tratta di poco più di un secolo di astronomia moderna che ha rivoluzionato la nostra idea dell'Universo, della scienza, della fisica e persino del nostro posto nel Cosmo. Una rivoluzione scientifica e culturale che, forse, non ha conosciuto eguali in tutta la nostra storia. 


A partire dalla seconda metà del diciannovesimo secolo, fino agli anni 20 del novecento, l'astronomia si trasformò rapidamente in astrofisica: dallo studio della posizione dei corpi celesti (astronomia) si iniziò a indagare con sempre maggiore dettaglio la loro natura e le loro proprietà (astrofisica). Grazie a telescopi sempre più potenti, alla nascita della spettroscopia che permetteva di scomporre la luce degli oggetti celesti e della fotografia, che forniva uno straordinario e oggettivo strumento di misurazione e confronto tra diversi osservatori, l'Universo divenne in breve tempo un ambiente sempre meno sconosciuto.

Se la seconda metà del diciannovesimo secolo aveva fornito le basi tecnologiche per la seconda rivoluzione astronomica della nostra storia, il nuovo secolo fu caratterizzato da un personaggio eccezionale: Albert Einstein. Nel 1905 diede una risposta definitiva al bizzarro comportamento dell'effetto fotoelettricoo, lo stesso alla base del funzionamento di tutti i sensori digitali, che aprì la strada alla meccanica quantistica. Nello stesso anno (anzi, nella stessa pubblicazione!) espose la teoria della relatività ristretta, rivoluzionando i concetti di spazio e tempo. Nel 1916 descrisse più in dettaglio le straordinarie proprietà dello spazio-tempo e raccontò di un Universo statico, che probabilmente era sempre esistito. Sir Arthur Eddington utilizzò a stretto giro le scoperte di Einstein per teorizzare e provare la struttura delle stelle, il loro ciclo vitale, la loro composizione chimica e la fonte della loro energia. In questo contesto la spiegazione dei diversi tipi di nebulose divenne una logica conseguenza dei modelli di evoluzione stellare. Era l’età d’oro dell’astronomia: la nebbia su quel cielo oscuro si era diradata in modo spettacolare e con una velocità esponenziale.

Restavano due punti delicati, che sembravano solo dettagli in attesa di essere chiariti da lì a breve con migliori osservazioni, che non avrebbero comunque messo in pericolo tutto l’apparato di conoscenze che si era creato.
Il primo punto era un cruccio di Einstein, chiamata costante cosmologica. Tra tutta l’eleganza e l’ineccepibile apparato fisico e matematico della teoria della relatività generale, quel parametro, identificato come Lambda (Λ), stonava un po’ perché appariva più come un atto di fede che una grandezza con un fondamento fisico. L’atto di fede, consapevole o meno, era la convinzione più forte che l’uomo si era mai creato, ancora più vigorosa dell’immutabilità dello spazio e del tempo: la certezza di un Universo immobile.
Le equazioni della relatività di Einstein dimostravano, invece, che in un Universo dominato dalla forza di gravità, capace di alterare spazio e tempo, non era previsto il concetto di staticità. Tutta la struttura dello spazio e del tempo avrebbe dovuto variare in dimensioni con il passare del tempo, come se tutto l’Universo fosse una rete elastica che poteva allungarsi e accorciarsi. Impossibile anche solo concepire una cosa del genere! Sarebbe come dire che lo spazio che separa me e tutte le altre persone è destinato a cambiare nel corso del tempo, che un giorno l’Universo potrebbe disintegrarsi e che un tempo lontano non doveva nemmeno esistere! Così Einstein introdusse il parametro di costante cosmologica, assegnandogli il giusto valore per convalidare la propria convinzione e quella di tutta l’umanità: l’Universo non si stava né contraendo né espandendo e aveva quindi vita infinita.

Il secondo punto delicato riguarda una questione puramente osservativa. In effetti fino a questo momento ci siamo concentrati a cercare oggetti peculiari come ammassi stellari e nebulose diffuse lungo la porzione più evidente della Via Lattea, là dove si concentra la grandissima parte delle stelle della Galassia. Tuttavia, puntando il telescopio lontano dalle zone più affollate scopriamo che il numero di stelle diminuisce in modo drastico, come ci si aspetta, ma non accade la stessa cosa agli oggetti diffusi. Lontano dalla Via Lattea si trovano ancora migliaia di nebulose, solo che hanno un aspetto molto particolare e in qualche modo differente rispetto a quelle finora classificate. Di cosa si tratta? Che tipo di nebulose sono? Perché si trovano dove le stelle, gli ammassi e tutte le nebulose conosciute diminuiscono in numero? E perché non ne vediamo di forme simili lungo la Via Lattea? Forse già sappiamo la risposta a queste domande, ma per rendere giustizia agli sforzi di generazioni di astronomi che hanno impegnato la loro vita per dare risposte che a noi sembrano scontate, ma che non lo erano affatto solo 100 anni fa, ripercorriamo in modo sintetico il percorso che deve fare la scienza per fornire prove oltre ogni ragionevole dubbio della realtà che vogliamo descrivere.

Henrietta Swan Leavitt
La storia che ha portato alla classificazione della classe di nebulose spiraliformi si intreccia in modo inevitabile con le vicende umane di quel periodo e riguarda personaggi e situazioni che ora ci sembrano lontanissimi dal nostro modo di pensare.
Presso l’osservatorio di Harward, il direttore Pickering era un amante delle donne, giudicate piacevoli da guardare, di basso costo e molto brave nello svolgere mansioni noiose e ripetitive. Era la fine dell’800 e in attesa dei primi computer digitali ci si accontentava dei cosiddetti calcolatori manuali: le donne. Il loro compito era molto semplice ma piuttosto noioso: elaborare e catalogare i dati fotometrici e spettroscopici di migliaia e migliaia di stelle attraverso l’attenta analisi di grosse lastre fotografiche. La più famosa calcolatrice umana è di sicuro Annie Jump Cannon, il computer più potente del mondo che riusciva a classificare e archiviare fino a 3 spettri stellari al minuto. Nella sua vita si dice che abbia classificato più di mezzo milione di stelle.
Ma questa storia non riguarda lo straordinario lavoro o la proverbiale pazienza di Miss Cannon, piuttosto le vicende di un’altra calcolatrice umana di umili origini, con una famiglia da sfamare e per di più sorda: Henrietta Leavitt. Il suo compito era catalogare e calcolare la luminosità apparente delle stelle delle Nubi di Magellano. Con una lente di ingrandimento e pochi altri strumenti rudimentali, annotava la posizione degli astri ripresi sulle lastre fotografiche, ne stimava la luminosità apparente e si curava di vedere se questa fosse variata da una fotografia all’altra.

Questo lavoro lungo e noioso, che avrebbe messo a dura prova la sanità mentale di molte persone, venne ripagato con una straordinaria scoperta: alcune stelle cambiavano la propria luminosità in modo regolare, con un periodo legato alla magnitudine apparente media. Stelle più brillanti impiegavano più tempo per variare luminosità e tornare allo splendore iniziale, mentre quelle meno potenti compivano il percorso in un tempo minore. Poiché le stelle che stava osservando si trovavano tutte alla stessa distanza dalla Terra, in una piccola galassia satellite distante qualche centinaio di migliaia di anni luce, queste differenze in luminosità non erano dovute a differenti distanze, ma a variazioni reali della struttura delle stelle, a cambiamenti nella quantità di potenza emessa. Fu la svolta: Henrietta Leavitt aveva appena scoperto su scala cosmica un meccanismo simile a quello che nelle fredde serate di Dicembre fa variare la luminosità delle luci dell’albero di Natale, con la fondamentale proprietà che nell’Universo le luci più potenti hanno un periodo di pulsazione più lungo di quelle meno potenti.

Queste stelle vennero chiamate Cefeidi e rappresentano ancora oggi uno straordinario strumento per misurare la distanza degli oggetti. Una volta calibrata quella che viene chiamata relazione periodo-luminosità, ovvero una volta che si ha un campione di Cefeidi di distanza conosciuta a cui associare una potenza reale e non più una luminosità apparente che dipende dalla distanza, possiamo usare questi astri come se fossero i cartelli che sulle nostre strade segnano i chilometri percorsi. Questa è infatti un’altra spettacolare e inaspettata legge dell’Universo: tutte le Cefeidi si comportano allo stesso modo, senza eccezioni. Tutte le Cefeidi dell’Universo possono quindi essere utilizzate per stimare la distanza in modo piuttosto preciso, annotando semplicemente il periodo che impiegano a compiere un’intera pulsazione. Il metodo è potentissimo e straccia tutti gli altri, molto limitati, che erano fino a quel tempo serviti per misurare in modo piuttosto rozzo la distanza degli oggetti celesti. Per di più le Cefeidi sono tra le stelle più luminose dell’Universo, quindi visibili anche a enormi distanze.





Questa nuova scoperta diede un forte impulso all’astronomia, che stava cercando con enorme fatica un modo per determinare con facilità le distanze degli oggetti che in cielo, a noi, sembrano purtroppo tutti proiettati sulla stessa cupola di cristallo.
Cosa c’entra il metodo di misura delle distanze attraverso le Cefeidi con la natura di quelle misteriose nebulose spiraliformi e con la struttura dell'Universo? Se il caso nel funzionamento dell’Universo non esiste, molte delle vicende umane legate alla sua comprensione sembrano invece caratterizzate da eventi fortuiti; quei colpi di fortuna che nessuno si aspetta e che di punto in bianco rivoluzionano la nostra conoscenza delle cose. Nell’astronomia dell’ultimo secolo sono stati due i colpi di fortuna più spettacolari. Uno lo vedremo nel prossimo post; per l’altro dovremo aspettare un po' di più. Prestissimo, però, capiremo che, a un certo punto del nostro percorso di indagine di un fenomeno, la fortuna si limiterà a scegliere il chi e il come, ma raramente determinerà il se. In altre parole: quello che sembra un colpo di fortuna spesso è solo la naturale conseguenza di un processo di avanzamento tecnologico e mentale che non può più evitarci quella scoperta.

venerdì 4 dicembre 2015

La materia oscura è anche intorno a noi!

La materia oscura è uno dei più grandi misteri dell'astrofisica. Tutto quello che possiamo osservare con i nostri telescopi, infatti, appartiene alla cosiddetta materia luminosa o, in gergo, barionica. Tuttavia, sono ormai diversi decenni in cui ci si è accorti che questa rappresenta una piccola percentuale della materia effettivamente presente nell'Universo. Il resto è qualcosa che nessuno ha la più pallida idea di cosa sia, da qui il nome di materia oscura.

Quasi nessuno ormai mette in discussione l'esistenza della materia oscura perché le prove indirette della sua esistenza sono enormi e senza di essa addirittura no esisterebbe nemmeno l'Universo come lo conosciamo. Questa, infatti, se è del tutto invisibile ai nostri telescopi non lo è per l'Universo. In particolare, pur non interagendo con la controparte visibile, anche la materia oscura produce e sente la forza di gravità ed è in questo modo che l'abbiamo dapprima ipotizzata e poi addirittura mappata, in certi ambienti dell'Universo.

La materia oscura è necessaria per spiegare moltissime cose: la velocità di rotazione delle stelle attorno alle galassie a spirale è troppo elevata se consideriamo la gravità generata dalla materia visibile, ovvero stelle, polveri e gas. Persino il nostro Sole, che orbita attorno al centro a circa 200 km/s, sarebbe stato espulso dalla Galassia se fosse stata fatta solo della materia che possiamo vedere.
Gli ammassi di galassie, oggetti gravitazionalmente legati tra di loro, si muovono anch'essi troppo velocemente se la forza di gravità fosse generata solo dalla materia visibile. Ancora, ci sono fenomeni di lensing gravitazionale che prevedono l'esistenza di una grandissima quantità di materia che non possiamo vedere. Quest'ultimi sono molto importanti per mappare la sua distribuzione.

Il fenomeno di lensing gravitazionale è in linea di principio quasi facile da capire. La presenza di una grande quantità di massa che produce un'enorme forza di gravità ha la spettacolare proprietà di distorcere lo spazio-tempo. In parole povere, una grande concentrazione di materia riesce a deviare la luce di una sorgente lontana come se formasse una gigantesca lente cosmica, di una quantità legata alla massa che distorce quella porzione di cielo. Attraverso l'osservazione di questi fenomeni di lente gravitazionale, quindi, è possibile stimare con ottima precisione la massa necessaria a deviare la luce della sorgente lontana della quantità osservata.

La materia oscura non è solo necessaria per giustificare il comportamento delle strutture cosmiche attuali ma anche per gustificare la loro stessa esistenza: un Universo costituito solo di materia visibile, nella percentuale che osserviamo, non avrebbe sviluppato ammassi di galassie, galassie e forse persino stelle, di certo non nel modo in cui possiamo vedere oggi. 

Se quindi la materia oscura sembra esistere, nessuno sa al momento di cosa sia fatta. Qualcuno tempo fa aveva ipotizzato fosse composta da neutrini, particelle sfuggenti che vengono emesse da ogni processo nucleare e che in effetti sono quasi impossibili da rivelare. Tuttavia, i neutrini da soli non bastano perché hanno masse troppo piccole e velocità troppo grandi. Non si sa quindi ancora di quali particelle esotiche sia composta l'85% della materia dell'intero Universo (questa è la percentuale della materia oscura!), ma sappiamo che è ovunque, persino nei dintorni della Terra. Ed è questa la scoperta più recente e sorprendente, anche se in realtà non è proprio una scoperta effettuata con delle misure, ma il risultato di una simulazione.

Non c'è infatti alcun modo razionale per pensare che la materia oscura sia confinata solo nelle periferie di galassie e ammassi, anzi, questa è presente ovunque nell'Universo, persino nel Sistema Solare. Ebbene, considerando le sue bizzarre proprietà, in particolare il fatto che è in grado di attraversare un pianeta come la Terra come se non ci fosse (già!), ma di sentire la forza di gravità come la materia normale, Gary Prézeau, del Jet Propulsion Laboratory della NASA ha portato avanti un'interessante simulazione di come la materia oscura risponda all'interazione gravitazionale con corpi celesti piccoli e relativamente compatti come i pianeti. Il risultato è incredibile: attorno ai pianeti, al Sole e quindi anche alla Terra, la materia oscura assume i contorni di sottili e lunghissimi filamenti che si estendono fino a qualche milione di chilometri di distanza. La Terra, quindi, sarebbe circondata da una serie di lunghissimi capelli, o peli, di materia oscura, che non riusciamo a vedere ma che con qualche futura missione potremo indagare in un modo impensabile fino a poco tempo fa.

Se i risultati di questa simulazione sono corretti (e sembrerebbe proprio di sì), allora potremo infatti studiare direttamente la materia oscura mandando una sonda dove dovrebbero trovarsi questi filamenti, invece di limitarci a indagarla da lontanissimo negli aloni galattici e degli ammassi di galassie; questo, considerando la non interazione elettromagnetica, è infatti il metoto più inefficiente per capire di cosa sia fatta questa stranissima materia.
Non sappiamo ancora come poter rivelare particelle così debolmente interagenti, ma se ce l'abbiamo fatta con i neutrini, l'emblema dell'evanescenza, basterà trovare dei luoghi molto densi di materia oscura e in qualche modo riusciremo finalmente a capire da cosa è composta.

Naturalmente tra l'ipotizzare e il provare con le misure passeranno diversi anni, ma abbiamo costruito un altro piccolo pezzetto della rappresentazione dell'Universo per come è e non per come noi e i nostri limitati strumenti lo osservano. D'ora in poi, quindi, proviamo a immaginare di osservare la reale distribuzione di tutta la materia dell'Universo e sovrascriviamo la nostra poetica immagine mentale del pianeta azzurro immerso nel nero del cosmo con quella di un piccolo corpo celeste circondato da oscuri e lunghissimi filamenti di particelle che permeano tutto l'Universo e che anche in questo momento, con ogni probabilità, stanno attraversando il nostro corpo a migliaia ogni secondo.  Impressionante, vero?

Per approfondire: https://www.nasa.gov/feature/jpl/earth-might-have-hairy-dark-matter







lunedì 7 settembre 2015

Quante stelle si possono osservare nel cielo?



La domanda ha molte possibili risposte.
Se ci riferiamo al numero di stelle effettivamente osservabili nel cielo, dobbiamo fare i conti con una forma di inquinamento poco conosciuta, ma altrettanto dannosa: l’inquinamento luminoso.
Ogni stella, anche la più splendente, a causa dell’enorme distanza appare estremamente più debole di qualsiasi lampadina. Di conseguenza, l’elevatissima quantità di luci artificiali spegne letteralmente il cielo, facendolo somigliare a un luogo noioso e ben diverso dallo spettacolo che in realtà si dimostra essere.

L’inquinamento luminoso è il testimone più evidente dell’enorme spreco energetico della nostra società: tutta la luce diretta verso il cielo, infatti, oltre a spegnere le stelle, si perde nello spazio, non illuminando assolutamente nulla, se non l’aria.
L’Italia in questo ambito detiene un triste primato: è la nazione al mondo, probabilmente a pari merito con il Belgio, che spreca maggiori risorse per illuminare il cielo.
Uno sguardo dalla stazione spaziale internazionale ci rivela in modo molto evidente come il nostro Paese sia di gran lunga il più illuminato.
La conseguenza più grave è sorprendente quanto deprimente: in Italia non esiste più un luogo dal quale ammirare un cielo non disturbato dalle luci artificiali.

Il numero di stelle effettivamente visibili a occhio nudo, quindi, varia tra le poche decine dei grandi centri abitati, alle poche migliaia dei luoghi più scuri, ma che non saranno mai perfettamente bui.
Da un cielo non contaminato dalle luci artificiali, il numero di stelle che è possibile vedere a occhio nudo può superare le 5000.
Con un piccolo telescopio, il valore aumenta esponenzialmente, superando abbondantemente il milione.
Se questo numero sembra astronomico è ben poca cosa rispetto alla quantità di stelle effettivamente presenti nella nostra isola di stelle, la Via Lattea.
Recenti studi affermano che il numero di astri possa essere compreso tra 200 e 400 miliardi.
Ogni galassia dell’Universo possiede in media circa 100 miliardi di stelle. Quale sarebbe il numero di stelle di tutte le galassie esistenti?

domenica 23 agosto 2015

Oltre 1000 mie fotografie astronomiche

Ho finito di organizzare e caricare qui tutte le mie fotografie astronomiche scattate nel corso di circa 12 anni di osservazioni del cielo. E' stato un lavoro enorme perché mi sono accorto di aver ripreso oltre 1000 immagini astronomiche(!). Ci sono tutte le mie fotografie digitali (quasi tutte, alcune mancano all'appello ma cercherò di ritrovarle e caricarle), a partire dai primi, goffi e brutti, tentativi fino alle più recenti riprese di questi giorni.

Guardando velocemente la gallery si può capire in modo spettacolare perché l'astronomia, anche contemplativa, non stanca mai: oltre 1000 immagini tutte diverse le une dalle altre e ancora decine di migliaia di soggetti e fenomeni da immortalare. Non basterà una vita per esplorare tutta quella piccola porzione di Universo accessibile a un telescopio amatoriale; non basterà una vita intera per smettere di meravigliarsi di questo incredibile Universo!

venerdì 12 giugno 2015

Le meraviglie dell'Universo in uno strumento gigante

Questo post è stato estratto dal mio ultimo libro: "Vent'anni sotto il cielo stellato", disponibile in formato cartaceo ed ebook.



L'osservazione del cielo stellato diventa sempre più bella mano a mano che il cielo è scuro ma, soprattutto, all'aumentare della potenza del telescopio. Nell'ambito astronomico, potenza significa diametro dello strumento: maggiore è la sua apertura, più deboli e dettagliati appariranno gli oggetti celesti.

Gli strumenti che di solito possiamo permetterci ci danno ottime visioni dei pianeti e della Luna e discrete immagini dei cosiddetti oggetti del profondo cielo, vale a dire ammassi stellari, nebulose e lontane galassie.

Nel corso degli anni sono stato assalito dall’irrefrenabile voglia di avvicinarmi sempre di più alle perfette visioni fotografiche con i miei occhi, stregato dal contatto diretto con l'Universo profondo. Le mie povere tasche da studente universitario non mi hanno però permesso di andare oltre uno strumento da 36 centimetri di diametro, che peraltro consente già di avere ottime visioni degli oggetti del cielo profondo.
Nulla però in confronto a quanto ho potuto provare, per ben due volte, grazie a un amico che ha potuto realizzare in modo spettacolare un grande sogno: costruirsi un telescopio, anzi, un enorme binocolo, così grande da permettere ai nostri occhi di vedere dettagli molto simili a quelli delle fotografie astronomiche (colore escluso). E grazie alla sua estrema cordialità, l'Universo diventa alla portata di tutti. L'unica cosa richiesta? Voglia di meravigliarsi. Nient’altro.

La prima volta che vidi il leggendario binodobson di Andrea Boldrini, un mega strumento composto da due telescopi di ben 60 centimetri di diametro l’uno, era l'estate del 2012 dal rifugio di ogni appassionato di astronomia del centro Italia: Forca Canapine.
Rimasi esterrefatto di fronte alla mole dello strumento, alto circa tre metri e largo quanto una piccola utilitaria. Mi avvicinai timido e intimorito, e mentre cercavo di trovare il coraggio di chiedergli se avessi potuto metterci gli occhi dentro, fu lui ad anticiparmi e a invitarmi alla vera festa delle stelle che si stava svolgendo proprio lì.
Salii un po' spaventato sulla scala che portava fino verso la cabina di pilotaggio di quella potente astronave cosmica. Dopo le indispensabili indicazioni del comandante potei volare libero verso il cielo sconfinato. Fu l'inizio di un nuovo amore per l'Universo, perché lì dentro, non so davvero come dirlo, c'erano cose che pochi umani avevano visto. Al centro del grande campo si stagliava nitida la sagoma inconfondibile della nebulosa Velo, ciò che resta di un'antica esplosione di una stella molto più grande del Sole. È uno degli oggetti più fotografati ma poco osservati, perché richiede cieli scuri, telescopi di buon diametro e una discreta dose di immaginazione per tracciare gli indistinti contorni di quei filamenti gassosi dispersi nello spazio. È così evanescente che spesso richiede filtri particolari, e in ogni libro di astronomia pratica è sottolineato quanto sia difficile osservare la sua tenue immagine.
Niente di tutto questo mi aspettava all'oculare e niente poteva prepararmi a quello che stavo per vedere. Fluttuanti nello spazio aperto si stagliavano delicati ma contrastati i deboli filamenti di gas interstellare, i pezzi di quell'antica stella, meglio di qualsiasi fotografia. E quando il comandante mi consegnò la console di controllo dell'astronave e mi disse: “Navigaci” mi sentii la persona più felice di questo mondo perché stavo davvero esplorando una magnifica zona cosmica che a ogni movimento mi rivelava sempre nuovi dettagli, nuove sfumature, nuove emozioni.
Ricordo e ricorderò per sempre quell'osservazione dell’ammasso di Ercole, che mi regalò la visione di tutte le circa 500 mila stelle che lo popolano; la tenue sagoma della nebulosa ad anello, una fotografia di come sarà il nostro Sole tra poco più di 5 miliardi di anni. Passai di fianco alle distese gassose della nebulosa planetaria M27, mi imbattei nelle intricate trame che mai avrei pensato di vedere della nebulosa Crescent. E cosa dire di M17, la nebulosa Cigno (o Omega)? Non potevo non assistere al miracolo della nascita di migliaia di stelle da un’immensa distesa di gas, tanto luminosa e contrastata che mi sembrava di vederla in tre dimensioni.


Ok, questa è una foto che ho scattato con il mio telescopio, ma sono pronto a giurare che M13, nel binodobson di Andrea Boldrini, si vedesse proprio così. E chi ha bisogno, allora, di fare fotografie?

 Spesso ho sognato quella fantastica serata ma impegni universitari e lavorativi mi hanno tenuto lontano da quel cielo e dal mastodontico binodobson per più tempo di quanto fossi disposto ad aspettare.
Poi, per caso, la sera del 19 Dicembre 2014 le previsioni meteo erano buone e un paio di amici della mia associazione mi convinsero a tornare sotto quel cielo scuro. Mai, però, mi sarei aspettato che sul piazzale freddo e deserto ci fosse anche Andrea e il suo incredibile binodobson. Avrei potuto realizzare qualcosa che mi frullava per la testa sin da quella lontana serata: osservare con quel gigante la galassia di Andromeda e la nebulosa di Orione, due oggetti già spettacolari con piccoli telescopi e che avrebbero riservato chissà quale sublime visione attraverso quella stupenda astronave.
Fu in questo modo che una serata improvvisata all’ultimo momento si trasformò in una nuova, appassionante festa delle stelle, nella quale condividere le emozioni del cielo, sia quello, bello, a occhio nudo ma soprattutto quello che avremmo potuto osservare a bordo del binodobson.

Andrea ben sapeva che la star della serata, la grande nebulosa di Orione, ci avrebbe rapito, così come rapì lui che non poteva più fare a meno di osservarla ogni volta che la vedeva sopra l'orizzonte. Questa, però, 
era ancora troppo bassa sull'orizzonte e sarebbe stata la parte finale di un tour che iniziò dagli oggetti estivi ormai al tramonto, come la già vista nebulosa Velo, e gli ammassi globulari M15 e M13 (di Ercole) tutti spettacolari, proprio come me li ricordavo.

Il primo grande e nuovo sussultò arrivò dalla galassia a spirale M33, famosa per essere molto estesa (più della Luna piena) ma al contempo troppo debole e avara di dettagli. Bene, in quell'astronave mi fece restare a bocca aperta e con me tutti i compagni di avventura. Ben evidenti i tenui bracci di spirale su cui spiccavano ogni tanto delle condensazioni di forma sferica. Incredibile ma vero, stavo osservando nebulose di un'altra galassia, a 2,5 milioni di anni luce da noi. Stavo vivendo, in quel momento, uno spettacolare viaggio attraverso un Universo che per la prima volta potevo riuscire a comprendere quanto fosse vasto.
Quei tenui bracci di spirale, quasi tridimensionali nel buio del cielo, potevano sembrare una tipica opera di pittura astratta, ma quando si ha la consapevolezza che sono un disegno cosmico immenso, costituito da decine di miliardi di stelle poste così lontano da non poter immaginare, allora tutto cambia e dentro esplodono sensazioni ineguagliabili. Sarei restato per ore su quella girandola cosmica. L'unico modo per farmi scendere dalla scala e lasciare le redini dell'astronave al comandante fu la promessa di puntare la galassia di Andromeda, che si preannunciava ancora più spettacolare.


M33 al telescopio si mostrava per quella che era: una stupenda galassia a spirale ricca di stelle giovani e gigantesche nebulose. Mai vista così!
 
Pochi minuti di viaggio, giusto per permettere all’esperto comandante di fare le delicate manovre di avvicinamento, poi egli ci avvertì dell'arrivo nei pressi di quell’isola di stelle. Non con uno sterile comunicato come quello dei comandanti di un aereo, ma attraverso un’esplosione di aggettivi che tentavano di descrivere la bellezza del panorama che stava osservando.
Bellezza che riuscii a comprendere solo quando misi gli occhi agli oculari. Il nucleo della galassia di Andromeda era lì, brillante come mai l'avevo visto. Ma non era questa la caratteristica che cercavo. Estesa ben oltre il campo inquadrato dallo strumento, cominciai a spostarmi navigando con prudenza alla ricerca di quei dettagli che la fotografia cattura con estrema facilità, ma che nessun telescopio di noi comuni appassionati ci ha mai mostrato. Ed ecco che laddove tutti i telescopi usati mostravano nient’altro che il nero del cielo, quell’astronave mi portò vicino al punto da riuscire a farmi vedere quello che cercavo: i bracci di spirale. Zone più chiare e più scure, mescolate in modo perfetto, sembravano non terminare più. Le due galassie satelliti erano così grandi ed evidenti che per un attimo scambiai una di queste (M110) per il nucleo di Andromeda.
Viaggiando ben più veloce della luce verso periferie della galassia, ecco che nel braccio più esterno comparve quella che sembrava una nuvola indistinta, ma che a uno sguardo più attento rivelava centinaia di deboli stelline: si trattava dell'ammasso aperto NGC206, situato in uno dei bracci di Andromeda e che non solo era evidente, ma mostrava le singole stelle.
Un momento di silenzio, perché quella era una visione memorabile: stavo osservando la luce di centinaia di stelle distanti 2,3 milioni di anni luce, qualcosa come 23000000000000000000 chilometri! Non solo, ma la luce che stavo osservando era vecchia di 2,3 milioni di anni e lasciò la galassia di Andromeda quando qui sulla Terra non esisteva ancora quasi nessuna traccia degli esseri umani.
Molti di quegli astri che stavo osservando non esistevano più, ma per noi sulla Terra erano e sono tutt'ora reali. E allora è meraviglioso pensare che tutto quello che facciamo, anche nelle più piccole cose, viaggerà nell'Universo alla velocità della luce e per qualcuno, anche milioni o miliardi di anni dopo che sarà accaduto, si fonderà con il presente. Le nostre vite e le nostre azioni vengono registrate su un lungo nastro che alla velocità della luce percorrerà tutto l'Universo, senza mai perdere memoria di quello che è stato, chissà quanto tempo prima.


A sinistra, il frastagliato centro di Andromeda, a destra l’ammasso aperto osservato in uno dei suoi bracci. Al binodobson si vedevano così!
Perso come un ragazzino che per la prima volta si sentiva innamorato alla follia, non mi resi conto di quanto tempo passai fantasticando su quella splendida galassia, al punto che il comandante mi comunicò che il momento tanto atteso era forse arrivato: potevamo andare sulla nebulosa di Orione. “Ma ti avverto” disse con aria divertita e orgogliosa, “Se la galassia di Andromeda ti è piaciuta così tanto, preparati a quello che vedrai sulla nebulosa di Orione. Non puoi immaginare, è qualcosa che toglie il respiro”.
Non ricordo molto bene il momento tra questa sua frase e l’attimo in cui i miei occhi hanno visto la cosa più bella di sempre. Ho dei flash che ogni tanto compaiono un po’ sconclusionati. Ad esempio, ricordo che per primi osservarono Federico e Giovanni e che rimasero senza parole. Increduli, nonostante ormai decine di serate osservative, nonostante aver visto la nebulosa di Orione tante volte con strumenti più piccoli, nonostante in cuor loro sapessero che avrebbero assistito a uno spettacolo mai visto. Eppure, come sempre dovrebbe accadere, non si è mai preparati a qualcosa che non si è mai visto né vissuto. Ed è proprio questo il segreto per vivere al massimo la vita e tutte le belle sorprese che da essa possiamo trarre. Perché se tutto fosse prevedibile e ogni cosa potessimo immaginarla già prima di affrontarla, sarebbe davvero una noia mortale. E invece, le emozioni più belle sono quelle che non si possono immaginare prima di viverle.
Quando venne il mio turno, il cuore mi batteva forse più forte della mia prima cotta, più che il giorno della laurea, più che in ogni altra situazione. Anche perché stavo per vivere emozioni ben al di fuori del confine piccolo e protettivo di questo mondo; stavo per affrontare sensazioni che avrebbero disgregato il limite terreno e si sarebbero scatenate nel luogo più vasto e meraviglioso che esista: l’Universo.
Afferrate le aperture del super telescopio e messi gli occhi agli oculari, non vidi subito la nebulosa. La tecnica, suggerita da Andrea, era infatti quella di spostare lo strumento di poco e navigare poi a vista verso di essa, scoprendola poco a poco.
Così al comando di quell’astronave cominciai a viaggiare velocissimo tra le numerose stelle nel campo, cercando la rotta per la nebulosa. A un certo punto un lieve bagliore mi suggerì che c’ero vicino. Mi fermai, feci un gran respiro e mi spostai veloce in quella direzione per far entrare la sua luce prepotente nel campo, fino a riempirlo tutto. E fu l’apoteosi. Persino ora, mentre sto scrivendo queste righe, non vedo le parole scorrere ma riesco ad accarezzare quelle delicate e dettagliate regioni soffici come la seta. Molto meglio di qualsiasi fotografia, perché gli occhi hanno maggiore dinamica, quindi consentono di avere una visione inarrivabile da qualsiasi altro dispositivo.
Al centro il trapezio luminoso ma non sovraesposto, era contornato da una nebulosa estesa quanto le migliori foto, ma con la delicatezza unica che solo l’occhio umano può restituire. Era senza alcun dubbio la visione più bella di sempre, non solo riguardo all’astronomia, ma rispetto a tutto quello che avevo visto e che, forse, mai vedrò. Mi persi con l’immaginazione tra le piccole nuvolette simili a tante pecorelle della zona centrale. Mi spostai lungo le ali, che proprio come avevo teorizzato in un articolo sui colori delle nebulose, apparivano rosate a causa del contrasto con la regione centrale verdina. In realtà erano grigie, ma il colore, di fronte a quei chiaroscuri così reali e vicini, era l’ultima cosa che mi interessava.
Avevo davanti a me un’immagine statica, ma nella mia mente non lo era affatto. Stava a me farla muovere, viaggiando con la fantasia e l’immaginazione. E al contrario della televisione, che ci dice quali sono le immagini che dobbiamo vedere senza darci l’opportunità di pensare, qui, Signori, siamo noi a comandare il gioco e a rendere una tale bellezza il Ricordo da non dimenticare mai più nella vita.
Quella sera restai più di dieci minuti a volare sopra Orione e non mi sarei mai stancato di farlo. Quella fucina di stelle ha un fascino unico, quasi stregato, del quale non si può più fare a meno. E tornato a casa, con il cuore pieno di gioia, iniziai a contare i minuti che mi separavano dalla successiva osservazione.

 

Ci ho messo un po’, ma alla fine credo di esserci riuscito. Ho manipolato una delle mie immagini della nebulosa di Orione e questo è l’aspetto più vicino a ciò che ho visto all’oculare del binodobson, con il vantaggio di avere un ingrandimento maggiore di quello della foto.

Quel telescopio dovrebbe essere patrimonio dell’umanità; è una finestra migliore di qualsiasi astronave, che può farci capire davvero quale sia il nostro posto nell’Universo, quali sono le grandezze, le priorità, i veri problemi in gioco e quanto stupide e superficiali siano condotte a volte le nostre vite. Viviamo troppo poco per poterci permettere di perdere tempo in cose effimere. Ma come fare a capire se qualcosa per noi è effimero o no? È semplice e forse l’ho già detto: se il suo ricordo sopravvive immutato per mesi e addirittura anni, allora avremmo vissuto un’esperienza unica, altrimenti la nostra mente, ben più furba della parte che usiamo per sopravvivere, ce l’avrà già fatto dimenticare già pochi giorni dopo.
Le vere emozioni si possono provare anche solo una volta nella vita, non importa: è il loro ricordo a durare per sempre e a renderci felici e appagati per questa straordinaria esistenza.

venerdì 18 luglio 2014

Di che colore sono le galassie?

Questo post è un estratto del mio libro: 125 Domande e curiosità sull'astronomia, disponibile in formato ebook e in cartaceo.


Questa domanda ha implicazioni davvero profonde e ci permette di capire meglio le proprietà delle galassie.
Il colore globale di una galassia è determinato dal colore predominante delle centinaia di miliardi di stelle di cui sono formate. Gas e nebulose contribuiscono molto poco al colore di una galassia.
Le galassie ellittiche di grandi dimensioni hanno un colore tendente al giallo.
Le ellittiche piccole, dette nane, hanno una tonalità tendente all’azzurro.
Le galassie a spirale hanno una tripla colorazione. I bracci sono nettamente azzurri, mentre il nucleo tende in modo evidente al giallo. Infine, le regioni tra i bracci di spirale appaiono bianche o al limite leggermente giallastre.
Le irregolari, infine, sono quasi tutte estremamente blu. 

I diversi colori delle galassie
Perché colori così diversi?
Semplice, quanto affascinante.
Il colore delle stelle, se ben ricordiamo, dipende dalla temperatura, la quale dipende (almeno nella grande maggioranza dei casi) dalla massa. Ma stelle più massicce hanno una vita sensibilmente più breve degli astri più snelli.
Di conseguenza le galassie con un colore tendente all’azzurro sono ricche di giovani e calde stelle blu, quindi sono oggetti ancora attivi e presumibilmente piuttosto giovani.
Al contrario, le galassie con una tonalità gialla sono oggetti composti esclusivamente di stelle molto antiche, per i quali la nascita di nuove stelle non è più attiva. 

Per le galassie a spirale, i diversi colori ci permettono di dire altre cose. La zona rigonfia nei pressi del centro è composta da stelle gialle e rosse, quindi è vecchia e priva di processi di formazione stellare.
La tonalità nettamente azzurra dei bracci di spirale conferma il modello secondo cui i processi di formazione stellare si sviluppino in queste fondamentali regioni e sono tuttora attivi.
Le zone del disco al di fuori dei bracci appaiono tendenti al bianco/giallo, indice che si tratta di regioni più vecchie perché povere di astri molto blu, ma più giovani del nucleo perché contengono ancora alcune componenti bianco/azzurre formatesi qualche decine di milioni di anni prima, quando si trovavano su uno dei bracci.

lunedì 19 maggio 2014

Cosa sono i quasar?



Questo post è un estratto del mio libro: 125 Domande e curiosità sull'astronomia, disponibile in formato ebook e in cartaceo.
 
A cominciare dagli anni cinquanta del 900, gli astronomi hanno cominciato a scoprire degli oggetti peculiari, in breve tempo diventati una delle classi più misteriose dell’intero Universo.
All’osservazione telescopica apparivano come delle deboli stelle di colore rosso, niente di sorprendente. Ma contrariamente alle stelle, questi astri emettono grandi quantità di radiazioni elettromagnetiche su quasi tutto lo spettro, dagli intensi raggi x alle innocue onde radio.
Incuriositi da questa particolare proprietà mai osservata, gli astronomi cercarono di ottenere degli spettri nel visibile, per capire qualcosa di più sulla loro composizione chimica.

Rappresentazione artistica di un quasar
Dopo aver esaminato gli spettri di molte sorgenti, si accorsero che questi erano spostati tutti verso il rosso, mostravano, cioè, alti redshift.
In breve tempo la spiegazione cosmologica del redshift si rivelò l’unica ipotesi plausibile: non facevano parte di oggetti estesi in rotazione, né potevano essere astri dotati di elevato moto proprio, perché tutti sembravano spostarsi in una sola direzione, a prescindere da dove li si osservi nel cielo.
Ma se il redshift associato era interpretato come l’impronta dell’espansione dell’universo, questi deboli punti luminosi dovevano essere qualcosa di tremendamente energetico e terribilmente molto più esotico rispetto a tutti i fenomeni dell’Universo fino a quel momento osservati.

Questi punti arrossati dall’espansione dell’Universo vennero chiamati quasar, abbreviazione dei termini inglesi QUASi-stellAR radio source, ovvero sorgenti radio dall’aspetto quasi stellare.
Il termine “quasi” è fondamentale, perché la stima della distanza attraverso l’interpretazione del redshift cosmologico diede risultati incredibili.
Tutti i quasar si trovavano a distanze di diversi miliardi di anni luce. Non ne esiste nessuno entro un raggio di 2 miliardi di anni luce dalla Via Lattea.

Ma le sorprese non sono finite, perché dalla stima della distanza e della luminosità apparente, agli astronomi apparve subito chiaro che non poteva trattarsi di stelle, visto che un quasar medio emette in un secondo l’energia che il Sole produce in oltre 100.000 anni!
Tutti i quasar, oltre a trovarsi a distanze enormi, sono centinaia di miliardi di volte più luminosi di qualsiasi stella.
Ci vollero moltissime osservazioni di ottima qualità e le menti più brillanti per comprendere la natura di questi misteriosissimi oggetti.

Attualmente si crede, con una buona probabilità, che i quasar non siano altro che nuclei particolarmente brillanti di antiche galassie.
Proprio come le galassie a noi vicine, anche queste possiedono al centro dei grandi buchi neri, milioni o miliardi di volte più massicci del Sole.
Ma contrariamente agli oggetti recenti, i buchi neri delle galassie lontane sono attivi, ovvero stanno fagocitando una grandissima quantità di materia.
Il disco di accrescimento che si forma ha dimensioni di diversi anni luce; il gas riscaldato a milioni di gradi, prima di venire inghiottito, può trasformare circa metà della sua massa in energia, secondo la relazione di Einstein E = mc^2. L’efficienza dell’emissione è elevatissima; basti pensare che la grande energia proveniente dalla fusione nucleare nelle stelle deriva solamente dalla trasformazione dello 0,7% della massa delle particelle coinvolte in energia.
In questo modo il buco nero centrale comincia a emettere quantità spaventose di energia visibile fino ai confini dell’Universo.