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giovedì 9 febbraio 2017

La scoperta dell'Universo, parte 3: l'espansione dello spazio

Quando Edwin Hubble dimostrò che le nebulose spiraliformi, e in generale tutti gli oggetti diffusi dal colore e dallo spettro simile a quello delle stelle, erano delle galassie come la Via Lattea e molto, molto lontane, si aprì la caccia a quella che in breve tempo sarebbe diventata una popolazione di milioni di nuovi oggetti celesti.
Il padre delle galassie diede naturalmente il suo fondamentale contributo, classificandole dapprima secondo la forma in tre grandi classi: ellittiche, spirali e irregolari. Oggi sappiamo che alla base di questa divisione, che era puramente osservativa, ci sono differenze morfologiche e fisiche molto importanti.

Il secondo studio che fece Hubble fu analizzare l’intensità della luce in funzione della lunghezza d’onda, in altre parole lo spettro. Cosa sperava di trovare scomponendo la luce delle galassie con un prisma? Non lo sapeva neanche lui, ma è uno dei pochi modi per sperare di carpire i segreti dell’Universo a distanze così incolmabili.
Grazie al metodo di misura della distanza delle Cefeidi, che stava diventando sempre più preciso, il terzo studio che si poteva fare era quello di scovare queste stelle e determinare poi la distanza. Quanto erano dense le galassie nell’Universo? Quale la loro distanza media? C’era qualche proprietà poi che dipendeva da quanto fossero lontane nello spazio e nel tempo? La sfida era affascinante e grazie al fatto che l’Universo è una spettacolare macchina del tempo si poteva rispondere di certo a una domanda molto interessante: come cambiano le galassie con gli anni? Quelle che vediamo lontane centinaia di milioni di anni luce sono simili alla nostra o mostrano segni di una qualche evoluzione? Quando nella scienza si hanno delle aspettative, molte volte vengono disattese e non è raro che la realtà possa superarle di milioni di volte. Quello che stiamo per vedere è uno dei casi più emblematici.

Già prima che Hubble aveva dimostrato la natura extragalattica di queste nebulose, molti astronomi si erano accorti di una cosa un po’ particolare: gli spettri di quelle che all’epoca erano le più deboli sembravano essere tutti spostati verso la regione rossa. La questione era intrigante, ma solo dopo che erano disponibili stime della distanza poté assumere la portata devastante che nascondeva.
Hubble e i suoi colleghi si accorsero che tutte le galassie, a esclusione di qualche rara eccezione come Andromeda, mostravano uno spettro spostato verso il rosso. Cosa significa questo? Che, ad esempio, le regioni di formazione stellare HII, che brillano principalmente a causa dell’emissione della riga alpha dell’idrogeno, a 656,3 nm, mostravano questa riga spostata verso le porzioni più rosse, a 670, 680 o più nm e con essa tutto lo spettro era traslato. Non era però questo il fenomeno che gettò le basi per una nuova branca dell’astronomia e costrinse molti scienziati autorevoli a fare mea culpa. Un comportamento del genere non era infatti sconosciuto: non si tratta di qualche bizzarro e imprevedibile scherzo della Natura, ma di una caratteristica chiamata effetto Doppler.

L’effetto Doppler è il responsabile di quel bizzarro cambio di tonalità quando la sirena di un veicolo ci sfreccia di fronte a grande velocità. Mentre è in avvicinamento le onde sonore, che viaggiano nell’aria a velocità fissa, vengono compresse dal movimento. Il risultato è un accorciamento della loro lunghezza e un aumento della frequenza sentita. Quando la sirena ci sorpassa e si allontana le onde sonore vengono stirate, aumentandone la lunghezza e diminuendo la frequenza sentita.
Con la radiazione elettromagnetica accade la stessa cosa: un oggetto che si avvicina a noi mostra uno spettro spostato verso le lunghezze d’onda più corte, quindi verso il blu. Un corpo celeste che si allontana mostra tutto lo spettro delle onde elettromagnetiche di cui è composto più “stirato”, quindi spostato verso la parte rossa. Le osservazioni di Hubble mostravano spettri di galassie spostati tutti verso lunghezze d’onda più lunghe (verso il rosso), quindi la conclusione era scontata: tutte le galassie, in ogni parte di cielo si guardi, si allontanano da noi. Ma com’è possibile? Le nostre antenne si sono drizzate: qui c’è puzza di paradosso!
Il problema delle osservazioni di Hubble era legato proprio all’interpretazione di questa conclusione paradossale. Com’era possibile che tutte le galassie del cielo, in ogni parte lo si guardi, si allontanassero dalla nostra? Com’è possibile, poi, che la velocità con cui si allontanano è direttamente proporzionale alla distanza? Perché le galassie più lontane si muovono con velocità maggiori da noi rispetto a quelle più vicine? Stiamo impazzendo? Stiamo sbagliando qualcosa nelle nostre misure? O siamo di fronte al segreto più grande del nostro Universo?

Hubble, in preda a tutti questi dubbi, ripeté, ricontrollò e migliorò le osservazioni, ma nulla cambiò nel risultato: le galassie dell’Universo si allontanano dalla Via Lattea con una velocità proporzionale alla distanza, non c’è alternativa a questo punto fermo. La costante di proporzionalità per trasformare la distanza in velocità sarebbe ben presto stata conosciuta come costante di Hubble. Il suo significato racchiude in un numero e un’unità di misura, con l’eleganza unica della fisica, quello che le parole descriverebbero a fatica in una o più pagine.

Quando tutte le soluzioni possibili sono da scartare, nella scienza non resta che ammettere quello che era considerato impossibile, o quasi. Non è infatti sensato pensare che tutte le galassie dell’Universo evitino la Via Lattea come se fosse portatrice di una brutta malattia, per di più con una velocità tanto maggiore quanto più sono distanti. Non è neanche possibile spiegare come in un Universo statico e immobile tutte le galassie a una certa distanza, in ogni parte del cielo, debbano avere la medesima velocità di allontanamento. Come avrebbero fatto a mettersi d’accordo, separate da miliardi di anni luce di spazio?

L'Universo si espande come un palloncino che si gonfia
L’unica spiegazione, per quanto assurda, fuori da ogni esperienza, dalle conseguenze non ben comprensibili e dalla portata sicuramente distruttiva su quanto credevamo di conoscere dell’Universo, era in realtà semplice. In tre parole possiamo spiegare benissimo tutto, senza eccezioni alle nostre osservazioni: Universo in espansione. Sì, l’Universo non può essere statico come si pensava, non è possibile. E d’altra parte anche la teoria della relatività generale di Einstein aveva dimostrato quello che grazie ad Hubble era diventata una palese prova osservativa. Il problema è che a quel tempo l’idea di un Universo in evoluzione non era per niente facile da accettare, ecco perché il padre della relatività si inventò quel parametro chiamato costante cosmologica per sistemare, ai suoi occhi, una teoria che in realtà aveva previsto tutto prima che Hubble la provasse con le osservazioni.

Einstein, il grande genio che aveva rivoluzionato la fisica e l’astrofisica, questa volta aveva sbagliato. Fu lui stesso a riconoscerlo, dicendo che quel parametro era stato l’errore più grande della sua vita. Questa lezione di umiltà testimonia ancora una volta a cosa dovrebbe ambire un ottimo scienziato e un bravo essere umano ben integrato nella società. Tutti possiamo sbagliare, anzi, l’errore spesso è il modo migliore per progredire. Mettiamo da parte la rabbia e l’orgoglio e concentriamoci piuttosto sul lavoro che dobbiamo fare prima per riconoscerlo, poi per accettarlo e infine per cambiare idea. Non è concepibile continuare a difendere le proprie convinzioni contro tutte le prove contrarie, arrivando persino a screditare chi le ha scoperte. È questa la differenza tra un uomo intelligente e uno stupido.

mercoledì 1 febbraio 2017

La scoperta dell'Universo, parte 1: i primi del '900 e le Cefeidi di Henrietta Leavitt

 Questo rappresenta il primo di una serie di post, estratti dal mio libro "La straordinaria bellezza dell'Universo", in cui si caratterizzano le sorprendenti proprietà dell'Universo a grande scala: dalla scoperta di alcune stelle particolari che hanno consentito rivelare la vera natura delle "nebulose spiraliformi" alla sorprendente espansione dell'Universo, fino alla caratterizzazione del Big Bang e delle prove osservative arrivate nel corso degli anni. Si tratta di poco più di un secolo di astronomia moderna che ha rivoluzionato la nostra idea dell'Universo, della scienza, della fisica e persino del nostro posto nel Cosmo. Una rivoluzione scientifica e culturale che, forse, non ha conosciuto eguali in tutta la nostra storia. 


A partire dalla seconda metà del diciannovesimo secolo, fino agli anni 20 del novecento, l'astronomia si trasformò rapidamente in astrofisica: dallo studio della posizione dei corpi celesti (astronomia) si iniziò a indagare con sempre maggiore dettaglio la loro natura e le loro proprietà (astrofisica). Grazie a telescopi sempre più potenti, alla nascita della spettroscopia che permetteva di scomporre la luce degli oggetti celesti e della fotografia, che forniva uno straordinario e oggettivo strumento di misurazione e confronto tra diversi osservatori, l'Universo divenne in breve tempo un ambiente sempre meno sconosciuto.

Se la seconda metà del diciannovesimo secolo aveva fornito le basi tecnologiche per la seconda rivoluzione astronomica della nostra storia, il nuovo secolo fu caratterizzato da un personaggio eccezionale: Albert Einstein. Nel 1905 diede una risposta definitiva al bizzarro comportamento dell'effetto fotoelettricoo, lo stesso alla base del funzionamento di tutti i sensori digitali, che aprì la strada alla meccanica quantistica. Nello stesso anno (anzi, nella stessa pubblicazione!) espose la teoria della relatività ristretta, rivoluzionando i concetti di spazio e tempo. Nel 1916 descrisse più in dettaglio le straordinarie proprietà dello spazio-tempo e raccontò di un Universo statico, che probabilmente era sempre esistito. Sir Arthur Eddington utilizzò a stretto giro le scoperte di Einstein per teorizzare e provare la struttura delle stelle, il loro ciclo vitale, la loro composizione chimica e la fonte della loro energia. In questo contesto la spiegazione dei diversi tipi di nebulose divenne una logica conseguenza dei modelli di evoluzione stellare. Era l’età d’oro dell’astronomia: la nebbia su quel cielo oscuro si era diradata in modo spettacolare e con una velocità esponenziale.

Restavano due punti delicati, che sembravano solo dettagli in attesa di essere chiariti da lì a breve con migliori osservazioni, che non avrebbero comunque messo in pericolo tutto l’apparato di conoscenze che si era creato.
Il primo punto era un cruccio di Einstein, chiamata costante cosmologica. Tra tutta l’eleganza e l’ineccepibile apparato fisico e matematico della teoria della relatività generale, quel parametro, identificato come Lambda (Λ), stonava un po’ perché appariva più come un atto di fede che una grandezza con un fondamento fisico. L’atto di fede, consapevole o meno, era la convinzione più forte che l’uomo si era mai creato, ancora più vigorosa dell’immutabilità dello spazio e del tempo: la certezza di un Universo immobile.
Le equazioni della relatività di Einstein dimostravano, invece, che in un Universo dominato dalla forza di gravità, capace di alterare spazio e tempo, non era previsto il concetto di staticità. Tutta la struttura dello spazio e del tempo avrebbe dovuto variare in dimensioni con il passare del tempo, come se tutto l’Universo fosse una rete elastica che poteva allungarsi e accorciarsi. Impossibile anche solo concepire una cosa del genere! Sarebbe come dire che lo spazio che separa me e tutte le altre persone è destinato a cambiare nel corso del tempo, che un giorno l’Universo potrebbe disintegrarsi e che un tempo lontano non doveva nemmeno esistere! Così Einstein introdusse il parametro di costante cosmologica, assegnandogli il giusto valore per convalidare la propria convinzione e quella di tutta l’umanità: l’Universo non si stava né contraendo né espandendo e aveva quindi vita infinita.

Il secondo punto delicato riguarda una questione puramente osservativa. In effetti fino a questo momento ci siamo concentrati a cercare oggetti peculiari come ammassi stellari e nebulose diffuse lungo la porzione più evidente della Via Lattea, là dove si concentra la grandissima parte delle stelle della Galassia. Tuttavia, puntando il telescopio lontano dalle zone più affollate scopriamo che il numero di stelle diminuisce in modo drastico, come ci si aspetta, ma non accade la stessa cosa agli oggetti diffusi. Lontano dalla Via Lattea si trovano ancora migliaia di nebulose, solo che hanno un aspetto molto particolare e in qualche modo differente rispetto a quelle finora classificate. Di cosa si tratta? Che tipo di nebulose sono? Perché si trovano dove le stelle, gli ammassi e tutte le nebulose conosciute diminuiscono in numero? E perché non ne vediamo di forme simili lungo la Via Lattea? Forse già sappiamo la risposta a queste domande, ma per rendere giustizia agli sforzi di generazioni di astronomi che hanno impegnato la loro vita per dare risposte che a noi sembrano scontate, ma che non lo erano affatto solo 100 anni fa, ripercorriamo in modo sintetico il percorso che deve fare la scienza per fornire prove oltre ogni ragionevole dubbio della realtà che vogliamo descrivere.

Henrietta Swan Leavitt
La storia che ha portato alla classificazione della classe di nebulose spiraliformi si intreccia in modo inevitabile con le vicende umane di quel periodo e riguarda personaggi e situazioni che ora ci sembrano lontanissimi dal nostro modo di pensare.
Presso l’osservatorio di Harward, il direttore Pickering era un amante delle donne, giudicate piacevoli da guardare, di basso costo e molto brave nello svolgere mansioni noiose e ripetitive. Era la fine dell’800 e in attesa dei primi computer digitali ci si accontentava dei cosiddetti calcolatori manuali: le donne. Il loro compito era molto semplice ma piuttosto noioso: elaborare e catalogare i dati fotometrici e spettroscopici di migliaia e migliaia di stelle attraverso l’attenta analisi di grosse lastre fotografiche. La più famosa calcolatrice umana è di sicuro Annie Jump Cannon, il computer più potente del mondo che riusciva a classificare e archiviare fino a 3 spettri stellari al minuto. Nella sua vita si dice che abbia classificato più di mezzo milione di stelle.
Ma questa storia non riguarda lo straordinario lavoro o la proverbiale pazienza di Miss Cannon, piuttosto le vicende di un’altra calcolatrice umana di umili origini, con una famiglia da sfamare e per di più sorda: Henrietta Leavitt. Il suo compito era catalogare e calcolare la luminosità apparente delle stelle delle Nubi di Magellano. Con una lente di ingrandimento e pochi altri strumenti rudimentali, annotava la posizione degli astri ripresi sulle lastre fotografiche, ne stimava la luminosità apparente e si curava di vedere se questa fosse variata da una fotografia all’altra.

Questo lavoro lungo e noioso, che avrebbe messo a dura prova la sanità mentale di molte persone, venne ripagato con una straordinaria scoperta: alcune stelle cambiavano la propria luminosità in modo regolare, con un periodo legato alla magnitudine apparente media. Stelle più brillanti impiegavano più tempo per variare luminosità e tornare allo splendore iniziale, mentre quelle meno potenti compivano il percorso in un tempo minore. Poiché le stelle che stava osservando si trovavano tutte alla stessa distanza dalla Terra, in una piccola galassia satellite distante qualche centinaio di migliaia di anni luce, queste differenze in luminosità non erano dovute a differenti distanze, ma a variazioni reali della struttura delle stelle, a cambiamenti nella quantità di potenza emessa. Fu la svolta: Henrietta Leavitt aveva appena scoperto su scala cosmica un meccanismo simile a quello che nelle fredde serate di Dicembre fa variare la luminosità delle luci dell’albero di Natale, con la fondamentale proprietà che nell’Universo le luci più potenti hanno un periodo di pulsazione più lungo di quelle meno potenti.

Queste stelle vennero chiamate Cefeidi e rappresentano ancora oggi uno straordinario strumento per misurare la distanza degli oggetti. Una volta calibrata quella che viene chiamata relazione periodo-luminosità, ovvero una volta che si ha un campione di Cefeidi di distanza conosciuta a cui associare una potenza reale e non più una luminosità apparente che dipende dalla distanza, possiamo usare questi astri come se fossero i cartelli che sulle nostre strade segnano i chilometri percorsi. Questa è infatti un’altra spettacolare e inaspettata legge dell’Universo: tutte le Cefeidi si comportano allo stesso modo, senza eccezioni. Tutte le Cefeidi dell’Universo possono quindi essere utilizzate per stimare la distanza in modo piuttosto preciso, annotando semplicemente il periodo che impiegano a compiere un’intera pulsazione. Il metodo è potentissimo e straccia tutti gli altri, molto limitati, che erano fino a quel tempo serviti per misurare in modo piuttosto rozzo la distanza degli oggetti celesti. Per di più le Cefeidi sono tra le stelle più luminose dell’Universo, quindi visibili anche a enormi distanze.





Questa nuova scoperta diede un forte impulso all’astronomia, che stava cercando con enorme fatica un modo per determinare con facilità le distanze degli oggetti che in cielo, a noi, sembrano purtroppo tutti proiettati sulla stessa cupola di cristallo.
Cosa c’entra il metodo di misura delle distanze attraverso le Cefeidi con la natura di quelle misteriose nebulose spiraliformi e con la struttura dell'Universo? Se il caso nel funzionamento dell’Universo non esiste, molte delle vicende umane legate alla sua comprensione sembrano invece caratterizzate da eventi fortuiti; quei colpi di fortuna che nessuno si aspetta e che di punto in bianco rivoluzionano la nostra conoscenza delle cose. Nell’astronomia dell’ultimo secolo sono stati due i colpi di fortuna più spettacolari. Uno lo vedremo nel prossimo post; per l’altro dovremo aspettare un po' di più. Prestissimo, però, capiremo che, a un certo punto del nostro percorso di indagine di un fenomeno, la fortuna si limiterà a scegliere il chi e il come, ma raramente determinerà il se. In altre parole: quello che sembra un colpo di fortuna spesso è solo la naturale conseguenza di un processo di avanzamento tecnologico e mentale che non può più evitarci quella scoperta.

martedì 3 giugno 2014

Proviamo a far chiarezza sul redshift



Il redshift, letteralmente spostamento verso il rosso (di cosa? un attimo di pazienza!), è un punto chiave nel capire e spiegare alcuni importanti fenomeni dell’Universo. In questo post cerco di chiarire meglio il suo significato alla luce delle attuali conoscenze.
Con il termine redshift si intende, nel significato più generale, qualsiasi effetto di spostamento verso frequenze minori di una generica onda, dal suono alla luce.
Nel caso della luce, e in generale della radiazione elettromagnetica, che è quello che ci interessa, con il termine redshift (o blueshift) si identifica una generica osservazione di uno spostamento verso il rosso (o il blu) dello spettro emesso (e conosciuto con precisione) di una certa sorgente rispetto allo stesso spettro visto in una posizione di quiete (o in laboratorio).

Capire la causa fisica di questo spostamento a partire dall’osservazione dell’effetto e a quali grandezze fisiche è legato è un altro paio di maniche e richiede lo sviluppo di una teoria fisica in grado di interpretare correttamente i dati a disposizione. Senza un numero di indizi sufficientemente ampio, l’interpretazione fisica può non essere univoca, come accade proprio per il redshift cosmologico (lo vedremo tra poco). 
Innanzitutto dobbiamo capire che qualsiasi spostamento di frequenza di una certa onda elettromagnetica è il prodotto di un cambiamento dell’energia dei fotoni a essa associati. Un’onda elettromagnetica può infatti essere vista come un flusso di particelle, i fotoni, che possiedono una ben determinata energia: E = hν, dove h = costante di Planck, ν = frequenza. Ogni fotone, quindi, può considerarsi come la minima quantità di energia trasportata da una qualsiasi onda elettromagnetica. Non esistono fotoni con energia frazionaria. 
Il redshift o blueshift prevede uno spostamento della frequenza associata a una qualsiasi onda elettromagnetica, ergo, una variazione dell’energia che possiede ogni fotone. 
Cosa provoca la variazione dell’energia dei fotoni emessi da una certa sorgente? Perché essi, pur essendo stati emessi con una determinata energia, a un osservatore possono apparire di energia completamente diversa? Cosa provoca, quindi, lo spostamento verso il rosso o il blu dello spettro elettromagnetico?
Ci sono varie cause responsabili del redshift
Andiamo per gradi e formalizziamo meglio quanto detto con le parole, iniziando proprio dalla base. Possiamo innanzitutto definire il generico spostamento verso il rosso (o il blu, ma in astronomia avremo quasi sempre a che fare con il redshift) come la differente posizione di una determinata riga di emissione e/o assorbimento rispetto a una stessa sorgente o campione di laboratorio, che si trova in condizioni di quiete rispetto all’osservatore. 

Redshift e blueshift

 Matematicamente quanto detto si riassume nella seguente relazione: 
 z = Δλ/λ = (λoss - λ0)/λ0
La grandezza z che leggiamo ci dà lo spostamento dello spettro ma non ha ancora interpretazioni fisiche.
Cosa causa questo spostamento, osservato in molte regioni e oggetti dell’Universo? Ovvero: come legare il valore misurato di z a quantità fisiche?
Le cause responsabili dello spostamento sono molteplici, vediamo di analizzarle brevemente:

·                     Spostamento a causa dell’effetto doppler. È il fenomeno più conosciuto. Il redshift o il blueshift risultanti sono legati esclusivamente al moto relativo dell’osservatore e della sorgente. Lo spostamento interpretato come effetto doppler è quello che possiamo osservare analizzando il moto delle stelle di una galassia, del gas che ruota intorno a un buco nero, della superficie del nostro Sole e di tutti gli oggetti in rotazione. Tutti i corpi celesti che si muovono rispetto a noi su un percorso non perfettamente perpendicolare alla nostra linea di vista manifestano uno spostamento dello spettro verso il rosso se si allontanano, verso il blu se si avvicinano.
Capito quindi il meccanismo fisico alla base, possiamo legare il valore z alle quantità fisiche individuate e fargli assumere un significato un po’ più profondo.
Lo spostamento misurato dello spettro è direttamente proporzionale alla componente della velocità lungo la linea di vista, detta anche velocità radiale. Per velocità relative basse, minori del 30% di quelle della luce, la formula che lega z alla velocità radiale è allora la seguente: 
 z = Δλ/λ = (λoss - λ0)/λ0 = vr/c
Conoscendo quindi z, in tutte le situazioni astronomiche in cui gli spostamenti dello spettro sono interpretabili solo come effetto doppler, risaliamo alla velocità radiale dell’oggetto a prescindere dalla distanza alla quale si trova: un gran bel colpo!
Questa misura ci consente di fare luce su un'enorme quantità di fenomeni: possiamo capire a quale velocità ruotano le stelle in qualsiasi galassia, costruire il periodo di rotazione delle stelle, persino individuare la traccia di pianeti extrasolari analizzando le piccole perturbazioni nella velocità delle stelle.

Dopo aver fatto un bello sforzo mentale per comprendere la relazione vista e le conseguenze, ci vuole un po' di coraggio da parte mia nel dirvi che la formula è, in parte, sbagliata. La relazione vista (ma non le conseguenze!) che lega il redshift z alla velocità radiale è valida solamente per basse velocità. Quando le velocità in gioco sono paragonabili a quelle della luce (a cominciare da circa il 30%), bisogna utilizzare la teoria della relatività ristretta di Einstein, che afferma che la velocità della luce è un valore limite che non può essere né superato, né addirittura raggiunto da un corpo dotato di massa.
Per velocità elevate, superiori a qualche migliaio di chilometri al secondo, la formula appena vista non è corretta: essa infatti ammette, teoricamente, ogni valore per la velocità radiale, cosa che invece non è possibile.
La formula relativistica si ottiene imponendo semplicemente che la velocità della luce sia costante per ogni sistema di riferimento inerziale ed è la seguente:
z = Δλ/λ = (λoss - λ0)/λ0 = √[(1+vr/c)/(1-vr/c)].
Non voglio che la impariate (non la conosco nemmeno io a memoria!), ma che capiate, ancora una volta, che bisogna considerare tutte le variabili e che semplificare troppo nella scienza (nella ricerca e nella divulgazione) può portare a errori e pericolosi fraintendimenti. Per il momento, però, basta capire che lo spostamento dello spettro interpretato come effetto doppler lo lega alla velocità relativa tra sorgente e osservatore.
Purtroppo questo non è l'unico effetto fisico che produce lo spostamento dello spettro luminoso dei corpi celesti. Un altro, fondamentale, è il seguente:

·                     Spostamento a causa dell’espansione dell’Universo. In questo caso lo spostamento è solamente verso il rosso. Il parametro z adesso non identifica più moti di stelle o galassie, ma un concetto fisico diverso, il redshift cosmologico, che non è più l’effetto del moto relativo della sorgente e dell’osservatore, ma dell’espansione dell’Universo stesso. La creazione di nuovo spazio tra sorgente e osservatore, meglio, un suo stiramento, produce come effetto un apparente moto di allontanamento che si manifesta con uno spostamento verso il rosso dello spettro elettromagnetico della sorgente. Sebbene la misura sia la medesima dello spostamento causato dall’effetto doppler, il legame a quantità fisiche è ora totalmente diverso (almeno concettualmente) rispetto alla formula che spiega l’effetto doppler. Il redshift cosmologico e quello per effetto doppler si manifestano allo stesso modo ma descrivono grandezze fisiche diverse.
Il redshift cosmologico è direttamente legato alla cosiddetta velocità di recessione (non più a quella radiale quindi), alla velocità con la quale un oggetto, a causa dell’espansione dell’Universo, sembra allontanarsi da noi.
Sebbene in apparenza l’effetto dell’espansione dello spazio sia analogo a quello di un moto proprio, ora la relazione che contiene questo tipo di redshift non può più contenere la velocità radiale del corpo celeste, ma quella (apparente) di recessione.
Per piccoli valori, inferiori a 1, il redshift cosmologico è interpretato ancora come effetto doppler, ma la velocità radiale ora diventa velocità di recessione, e questa è legata alla famosa legge di Hubble
v = H0D:
z = Δλ/λ = (λoss - λ0)/λ0 = vrec/c = H0D /c
dove D = distanza in parsec (1 parsec = 3,26 anni luce), c = velocità della luce.
In questa situazione il redshift cosmologico è funzione della distanza, contrariamente a quello prodotto dai moti propri. Questa è una legge molto potente, perché ci consente di conoscere la distanza di un oggetto (a patto che sia più lontano di qualche milione di anni luce) a partire dalla misura di z. Tuttavia, è bene ricordarsi il limite di z per cui abbiamo ricavato la relazione. In effetti, proviamo a calcolare la distanza di una delle galassie con maggiore redshift mai scoperte (z = 6,96) o la stessa radiazione cosmica di fondo, z ≈ 1300 e vediamo se i risultati che ne escono hanno senso.
Nel caso della galassia si ottiene 29 miliardi di parsec, quindi 94,5 miliardi di anni luce. Nel caso della radiazione cosmica di fondo addirittura 1,76∙1013 anni luce!
Questi valori, se assumiamo che l’Universo ha 13,7 miliardi di anni e che la luce ha potuto percorrere in questo tempo al massimo questa distanza, sono completamente sballati! 

Com'è possibile vedere un oggetto vecchio di 13 miliardi di anni alla distanza di 95 miliardi di anni luce? Se questa fosse la sua vera distanza, la radiazione emessa non avrebbe avuto ancora il tempo di raggiungerci!
La colpa di questo paradosso sta tutta dell’aver usato la formula classica per l’effetto doppler per dare l’interpretazione cosmologica del redshift z. Come nel caso precedente, la relazione non pone dei limiti alla velocità, che può essere anche maggiore di quella della luce, fatto che si verifica per valori z > 1.
Per velocità che approssimano quelle della luce, occorre utilizzare la formula relativistica vista nel punto precedente. 

A prescindere dalla formula utilizzata, esiste un altro problema di natura concettuale: la velocità di recessione è una velocità apparente, effetto osservabile dell’espansione dell’Universo. Concettualmente, quindi, è un errore studiarla secondo la relazione che descrive l’effetto doppler riferito a velocità reali e poi sostituire semplicemente la velocità radiale con quella di recessione, semplicemente perché nessuna galassia si allontana effettivamente l'una dall'altra, ma è lo spazio a "stirarsi".
Le relazioni viste forniscono quindi valori numericamente esatti, ma non trovano giustificazione concettuale e ora ve lo dimostro.
Il discorso è un po’ delicato, spero mi possiate seguire.
La teoria della relatività speciale ci dice che nulla può viaggiare più veloce della luce. Secondo questo principio abbiamo sviluppato la formula per l’effetto doppler relativistico per le velocità radiali vista in apertura di questo lungo post.
Nel caso della velocità di recessione, tuttavia, le cose non stanno proprio in questo modo. La velocità non è reale, è apparente: nessun corpo materiale in realtà si muove nello spazio a causa dell’espansione dell’Universo. Ne consegue che le proprietà della velocità di recessione non obbediscono alla teoria della relatività, in particolare non sono previsti limiti alla velocità con la quale sembrano allontanarsi le galassie.
La velocità di recessione e il tasso di espansione dell’Universo possono essere quindi anche maggiori della velocità della luce c.
È questo il punto per il quale non è concettualmente corretto considerare il redshift cosmologico come effetto doppler.
Noi vediamo e misuriamo un redshift legato a un effetto doppler relativistico che in realtà non esiste, ma è solo l’effetto dell’espansione dell’Universo: la velocità di recessione, in quanto apparente, non obbedisce alle leggi della relatività, ma quello che possiamo osservare (il redshift) sì. La formula quindi spiega l’effetto osservato giustificandolo con una causa sbagliata, o meglio, con una causa apparente.

Ma non è di certo finita qui, perché il significato in chiave cosmologica del redshift misurato, combinato con la non esistenza di limiti alla velocità di espansione, ci permette di rispondere a una domanda piuttosto delicata.
La prima è forse quella che sta girando nella testa di molti di voi: è possibile osservare un oggetto che si sta muovendo, a causa dell’espansione dell’Universo, a velocità maggiori di quelle della luce? La risposta è...nì. Molte delle porzioni di Universo che ora possiamo vedere si stanno attualmente allontanando da noi con una velocità apparente maggiore di quella della luce, ma non lo stavano facendo nel momento in cui hanno inviato la luce che ora, dopo miliardi di anni, giunge fino a noi.
La radiazione cosmica di fondo, ad esempio, non si espande ancora con una velocità apparente superiore a quella della luce, ma questo accadeva 13,4 miliardi di anni fa, il tempo impiegato dalla luce che osserviamo ora per raggiungerci!
Non dobbiamo mai dimenticare che stiamo osservando il passato degli oggetti e che il presente potrebbe essere ben diverso.

In effetti, se riuscissimo a scattare un’istantanea dell’Universo del tempo presente, scopriremmo che attualmente il limite per cui la velocità di recessione è superiore a quella della luce si trova a una distanza che corrisponde a un redshift pari a z = 1.4: tutti gli oggetti oltre questo confine attualmente sembrano muoversi a velocità superiori a quelle della luce nel vuoto. Noi continuiamo a vedere la loro immagine del passato semplicemente perché miliardi di anni fa, quando i fotoni hanno lasciato l’oggetto, la velocità di recessione rispetto a noi non era ancora superiore a quella della luce perché l'Universo era molto più piccolo. Una volta che la radiazione elettromagnetica lascia l’oggetto, non ha più alcuna relazione con esso (ecco la grande differenza tra redhsift per effetto doppler e quello cosmologico!) e si limita a trasportare le informazioni presenti nel momento in cui è stata generata, variando la propria lunghezza d'onda in modo continuo mentre viaggia nello spazio che si sta stirando, fino a raggiungere i nostri occhi.
Questo significa che un giorno non vedremo più questi oggetti?
Esattamente! Quando, con il trascorrere del tempo, arriveremo vicini all’istante in cui dovremmo ricevere i fotoni emessi quando il moto apparente si è trasformato in superluminale, vedremo l’oggetto affievolirsi lentamente per poi scomparire.
C’è allora anche un'altra domanda:
Com’è possibile che la velocità di recessione cambi con il tempo? Questo apre nuovi scenari sui modelli di Universo considerati? Assolutamente no, perché, come detto, la velocità di recessione è apparente ed è tanto più elevata quanto maggiore è la distanza tra gli oggetti considerati. La sua variazione non implica un cambiamento nel tasso di espansione dell’Universo, quest’ultimo parametrizzato dalla costante dei Hubble (che poi, forse, tanto costante non è), piuttosto è proprio il risultato del fatto che le distanze reciproche tra le galassie si modificano.

In conclusione: la velocità di recessione e quella radiale non hanno nulla in comune, sono due grandezze completamente diverse. Per una comodità e per spiegare le proprietà dello spostamento, che dipendono unicamente dalla velocità, sebbene apparente, la velocità di recessione è interpretata come redshift per effetto doppler;  in questo modo la relazione che si ricava è semplice e permette di mettere in evidenza alcune importanti proprietà dell’Universo, come appunto la legge di Hubble, valida, tuttavia, per redshift cosmologici inferiori all’unità.
Oltre questi limiti la stessa legge di Hubble cessa di essere valida.
 
·                     Redshift gravitazionale. Secondo la teoria della relatività generale, anche i fotoni sentono la forza gravitazionale espressa in termini di distorsione dello spazio-tempo a causa della presenza di masse. In parole (molto) semplici, la stessa luce sente la forza di gravità. Poiché i fotoni non hanno massa a riposo ma hanno energia, il che è equivalente, la forza di gravità fa diminuire la loro energia spostandone la lunghezza d’onda verso il rosso.
Questo fenomeno è chiamato redshift gravitazionale e non ha nulla a che vedere né con quello per effetto doppler, né, tantomeno, con quello cosmologico, sebbene l’effetto prodotto sia ancora lo stesso.
Il redshift gravitazionale è legato a quantità diverse, in particolare alla forza gravitazionale prodotta dal corpo celeste. Una formula semplice, ma approssimata, è la seguente: 
zgrav = Δλ/λ = (λoss - λ0)/λ0 ≈ (GM)/(c2r).