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giovedì 9 febbraio 2017

La scoperta dell'Universo, parte 3: l'espansione dello spazio

Quando Edwin Hubble dimostrò che le nebulose spiraliformi, e in generale tutti gli oggetti diffusi dal colore e dallo spettro simile a quello delle stelle, erano delle galassie come la Via Lattea e molto, molto lontane, si aprì la caccia a quella che in breve tempo sarebbe diventata una popolazione di milioni di nuovi oggetti celesti.
Il padre delle galassie diede naturalmente il suo fondamentale contributo, classificandole dapprima secondo la forma in tre grandi classi: ellittiche, spirali e irregolari. Oggi sappiamo che alla base di questa divisione, che era puramente osservativa, ci sono differenze morfologiche e fisiche molto importanti.

Il secondo studio che fece Hubble fu analizzare l’intensità della luce in funzione della lunghezza d’onda, in altre parole lo spettro. Cosa sperava di trovare scomponendo la luce delle galassie con un prisma? Non lo sapeva neanche lui, ma è uno dei pochi modi per sperare di carpire i segreti dell’Universo a distanze così incolmabili.
Grazie al metodo di misura della distanza delle Cefeidi, che stava diventando sempre più preciso, il terzo studio che si poteva fare era quello di scovare queste stelle e determinare poi la distanza. Quanto erano dense le galassie nell’Universo? Quale la loro distanza media? C’era qualche proprietà poi che dipendeva da quanto fossero lontane nello spazio e nel tempo? La sfida era affascinante e grazie al fatto che l’Universo è una spettacolare macchina del tempo si poteva rispondere di certo a una domanda molto interessante: come cambiano le galassie con gli anni? Quelle che vediamo lontane centinaia di milioni di anni luce sono simili alla nostra o mostrano segni di una qualche evoluzione? Quando nella scienza si hanno delle aspettative, molte volte vengono disattese e non è raro che la realtà possa superarle di milioni di volte. Quello che stiamo per vedere è uno dei casi più emblematici.

Già prima che Hubble aveva dimostrato la natura extragalattica di queste nebulose, molti astronomi si erano accorti di una cosa un po’ particolare: gli spettri di quelle che all’epoca erano le più deboli sembravano essere tutti spostati verso la regione rossa. La questione era intrigante, ma solo dopo che erano disponibili stime della distanza poté assumere la portata devastante che nascondeva.
Hubble e i suoi colleghi si accorsero che tutte le galassie, a esclusione di qualche rara eccezione come Andromeda, mostravano uno spettro spostato verso il rosso. Cosa significa questo? Che, ad esempio, le regioni di formazione stellare HII, che brillano principalmente a causa dell’emissione della riga alpha dell’idrogeno, a 656,3 nm, mostravano questa riga spostata verso le porzioni più rosse, a 670, 680 o più nm e con essa tutto lo spettro era traslato. Non era però questo il fenomeno che gettò le basi per una nuova branca dell’astronomia e costrinse molti scienziati autorevoli a fare mea culpa. Un comportamento del genere non era infatti sconosciuto: non si tratta di qualche bizzarro e imprevedibile scherzo della Natura, ma di una caratteristica chiamata effetto Doppler.

L’effetto Doppler è il responsabile di quel bizzarro cambio di tonalità quando la sirena di un veicolo ci sfreccia di fronte a grande velocità. Mentre è in avvicinamento le onde sonore, che viaggiano nell’aria a velocità fissa, vengono compresse dal movimento. Il risultato è un accorciamento della loro lunghezza e un aumento della frequenza sentita. Quando la sirena ci sorpassa e si allontana le onde sonore vengono stirate, aumentandone la lunghezza e diminuendo la frequenza sentita.
Con la radiazione elettromagnetica accade la stessa cosa: un oggetto che si avvicina a noi mostra uno spettro spostato verso le lunghezze d’onda più corte, quindi verso il blu. Un corpo celeste che si allontana mostra tutto lo spettro delle onde elettromagnetiche di cui è composto più “stirato”, quindi spostato verso la parte rossa. Le osservazioni di Hubble mostravano spettri di galassie spostati tutti verso lunghezze d’onda più lunghe (verso il rosso), quindi la conclusione era scontata: tutte le galassie, in ogni parte di cielo si guardi, si allontanano da noi. Ma com’è possibile? Le nostre antenne si sono drizzate: qui c’è puzza di paradosso!
Il problema delle osservazioni di Hubble era legato proprio all’interpretazione di questa conclusione paradossale. Com’era possibile che tutte le galassie del cielo, in ogni parte lo si guardi, si allontanassero dalla nostra? Com’è possibile, poi, che la velocità con cui si allontanano è direttamente proporzionale alla distanza? Perché le galassie più lontane si muovono con velocità maggiori da noi rispetto a quelle più vicine? Stiamo impazzendo? Stiamo sbagliando qualcosa nelle nostre misure? O siamo di fronte al segreto più grande del nostro Universo?

Hubble, in preda a tutti questi dubbi, ripeté, ricontrollò e migliorò le osservazioni, ma nulla cambiò nel risultato: le galassie dell’Universo si allontanano dalla Via Lattea con una velocità proporzionale alla distanza, non c’è alternativa a questo punto fermo. La costante di proporzionalità per trasformare la distanza in velocità sarebbe ben presto stata conosciuta come costante di Hubble. Il suo significato racchiude in un numero e un’unità di misura, con l’eleganza unica della fisica, quello che le parole descriverebbero a fatica in una o più pagine.

Quando tutte le soluzioni possibili sono da scartare, nella scienza non resta che ammettere quello che era considerato impossibile, o quasi. Non è infatti sensato pensare che tutte le galassie dell’Universo evitino la Via Lattea come se fosse portatrice di una brutta malattia, per di più con una velocità tanto maggiore quanto più sono distanti. Non è neanche possibile spiegare come in un Universo statico e immobile tutte le galassie a una certa distanza, in ogni parte del cielo, debbano avere la medesima velocità di allontanamento. Come avrebbero fatto a mettersi d’accordo, separate da miliardi di anni luce di spazio?

L'Universo si espande come un palloncino che si gonfia
L’unica spiegazione, per quanto assurda, fuori da ogni esperienza, dalle conseguenze non ben comprensibili e dalla portata sicuramente distruttiva su quanto credevamo di conoscere dell’Universo, era in realtà semplice. In tre parole possiamo spiegare benissimo tutto, senza eccezioni alle nostre osservazioni: Universo in espansione. Sì, l’Universo non può essere statico come si pensava, non è possibile. E d’altra parte anche la teoria della relatività generale di Einstein aveva dimostrato quello che grazie ad Hubble era diventata una palese prova osservativa. Il problema è che a quel tempo l’idea di un Universo in evoluzione non era per niente facile da accettare, ecco perché il padre della relatività si inventò quel parametro chiamato costante cosmologica per sistemare, ai suoi occhi, una teoria che in realtà aveva previsto tutto prima che Hubble la provasse con le osservazioni.

Einstein, il grande genio che aveva rivoluzionato la fisica e l’astrofisica, questa volta aveva sbagliato. Fu lui stesso a riconoscerlo, dicendo che quel parametro era stato l’errore più grande della sua vita. Questa lezione di umiltà testimonia ancora una volta a cosa dovrebbe ambire un ottimo scienziato e un bravo essere umano ben integrato nella società. Tutti possiamo sbagliare, anzi, l’errore spesso è il modo migliore per progredire. Mettiamo da parte la rabbia e l’orgoglio e concentriamoci piuttosto sul lavoro che dobbiamo fare prima per riconoscerlo, poi per accettarlo e infine per cambiare idea. Non è concepibile continuare a difendere le proprie convinzioni contro tutte le prove contrarie, arrivando persino a screditare chi le ha scoperte. È questa la differenza tra un uomo intelligente e uno stupido.

lunedì 6 febbraio 2017

La scoperta dell'Universo, parte 2: la vera natura delle "nebulose spiraliformi"


Osserviamo questa foto e proviamo ad andare oltre la mera bellezza. Stiamo ammirando la nebulosa di Andromeda, che copre nel cielo un’area 12 volte superiore a quella della Luna piena vista a occhio nudo ed è un ottimo rappresentante di quella classe di nebulose spiraliformi che fino agli anni ’20 del ‘900 facevano discutere molto gli astronomi circa la loro natura. In questa immagine scattata con un piccolo telescopio da 70 mm di diametro possiamo indagare meglio la struttura di questi strani oggetti.

Il colore, intanto, si conferma differente da quello che ci aspetteremmo da una distesa di gas rarefatto di una vera nebulosa. Se potessimo scomporre la sua luce con una specie di prisma noteremmo molto bene che la luce si estende su una grande varietà di colori, o lunghezze d’onda, al contrario dell’emissione a righe strette e molto rade delle nebulose. Sembra proprio di stare osservando un oggetto che ha proprietà più simili alle stelle, ma non a un singolo astro, piuttosto a un gruppo molto eterogeneo. A proposito di stelle, uno sguardo d’insieme ci dà l’impressione che nei pressi della porzione di colore azzurro il loro numero aumenti. Abbiamo trovato il modo di capire la natura di quest’oggetto misterioso? Se riuscissimo a trovare degli astri particolari, come le Cefeidi, ed essere sicuri che appartengano alla nebulosa di Andromeda, potremmo misurarne la distanza senza grossi problemi.

Eccoci allora arrivati a quello che sembra uno dei due grossi colpi di fortuna della storia dell’astronomia contemporanea citati nel post precedente. Nel 1917 gli Americani, da sempre fautori di opere esagerate, inaugurarono il telescopio più grosso del mondo sulla cima del monte Wilson. Il telescopio Hooker, così era stato chiamato, aveva un diametro di 100 pollici, ben 2,54 metri. Ecco quindi l’avanzamento tecnologico che avrebbe permesso di dirimere la questione sulle nebulose spiraliformi una volta per tutte. A questo punto la fortuna scelse “il chi”, ovvero il personaggio che avrebbe scritto la storia. Era un signore laureato in legge per volere del padre e uno sportivo di ottimo livello, che poi non riuscì a resistere alla passione di una vita e prese un dottorato in astronomia proprio nel 1917. Si chiamava Edwin Hubble e la sua tesi di dottorato sull’investigazione fotografica delle nebulose deboli era l’argomento perfetto per venir approfondito attraverso il telescopio più grande del mondo. Il fondatore, George Hale, lo volle infatti nel suo staff e Hubble divenne a quel tempo uno degli astronomi più invidiati al mondo. Per il come, invece, la sorte scelse una nebulosa famosa e una classe di oggetti appena caratterizzata: la nebulosa di Andromeda e le Cefeidi di Henrietta Leavitt.

Hubble ottenne quelle che al tempo erano le fotografie più dettagliate e profonde che essere umano avesse mai scattato all’Universo e cercando su quelle lastre traccia di stelle particolari notò quella che presto identificò come una variabile Cefeide. Era debolissima, molto più debole di quelle che Ejnar Hertzsprung aveva utilizzato per misurare la distanza delle varie zone della Via Lattea.
Applicando la relazione periodo-luminosità Hubble scoprì che quella debolissima stellina doveva trovarsi molto oltre i confini stimati della Via Lattea. Se quella stella apparteneva alla nebulosa di Andromeda, non poteva trattarsi di una mera distesa di gas dalle proprietà ancora sconosciute, ma di un sistema esteso almeno quanto la Via Lattea e a questo punto contenente miliardi di stelle.

Hubble aveva appena risolto un dilemma che aveva assunto i contorni di un grosso mistero, ma aveva anche lasciato in eredità un fardello difficile da digerire per tutte le generazioni a venire. La cupola protettiva si era sollevata del tutto: l’Universo era cresciuto in dimensioni ben oltre la nostra immaginazione. Da allora niente sarebbe stato lo stesso e tutto, di nuovo, sarebbe stato da scoprire. Quell’insignificante dettaglio che era l’unico dubbio a una conoscenza perfetta di un Universo statico, immobile e dominato dalla Via Lattea quale unica galassia, era stato il cavallo di troia che distrusse le certezze di un’intera generazione di astronomi e aprì le porte alla più grande rivoluzione culturale e scientifica della storia.



Oggi basta un telescopio 10 volte più piccolo di quello utilizzato da Edwin Hubble per ottenere un’immagine 10 volte più dettagliata di quella che gli ha permesso di scoprire la natura extragalattica della nebulosa di Andromeda e non avere più dubbi di alcun tipo, sebbene la nostra mente continuerà a faticare per tutta la vita ad accettare tutto questo.


venerdì 3 febbraio 2017

Quante galassie ci sono nell'Universo? Una nuova, incredibile, stima



Il bello della scienza, sia per chi la fa che per chi ne segue l’evoluzione da spettatore interessato, è il fatto di non essere mai noiosa perché le nostre conoscenze sono in continua evoluzione e si avvicinano sempre di più alla descrizione della realtà che ci circonda. Questo è vero in modo particolare quando vogliamo rispondere alle più importanti domande che riguardano il funzionamento e le proprietà dell’Universo. In un ambiente tanto vasto e complesso, sono molti i campi in cui le nostre conoscenze rappresentano solo un’approssimazione della descrizione della realtà. E’ qui che la scienza deve indagare più a fondo per arrivare a delle risposte quanto più possibile precise.

Molto tempo fa, su questo stesso blog, avevo tentato di rispondere a una domanda che molti curiosi si fanno: quante galassie ci sono nell’Universo? La risposta l’avevamo data osservando la più profonda immagine ottica mai scattata dal telescopio spaziale Hubble, dove in una zona di cielo casuale, non disturbata da gas e polveri della nostra galassia, avevamo contato circa 10 mila remote galassie. Da lì il gioco fu semplice: bastava moltiplicare quel numero per tutta l’estensione del cielo, supponendo (a ragione) che le galassie sono distribuite in modo uniforme nello spazio. Il risultato era un numero incredibile: dalle 200 alle 300 miliardi di isole di stelle.
 
Ora si è scoperto che quel valore potrebbe essere sottostimato persino di un fattore 10. Come mai? La domanda che dobbiamo porci per avvicinarci al numero reale di galassie nel nostro Universo è semplice, non prevede una laurea in astrofisica ed è la seguente: riusciamo a osservare tutte le galassie da qui agli albori dell’Universo? Ovvero: ci possono essere, sempre in quell’immagine, galassie tanto deboli e piccole da essere sfuggite all’occhio di Hubble?

L'Hubble Ultra Deep Field: la base di partenza per fare una nuova stima del numero di galassie nell'Universo

Se per farci domande non serve una laurea, per cercare una risposta sì: se non abbiamo le capacità di fare una seria ricerca che possa darci una risposta in modo oggettivo, oltre ogni ragionevole dubbio, dobbiamo affidarci al lavoro di altre persone che lo fanno con serietà e professionalità.
Nel nostro caso uno studio guidato da Christopher Conselice della University of Nottingham, U.K, sembra gettare nuova luce sulla nostra conoscenza delle grandi scale dell’Universo. Conselice e i colleghi si sono infatti guardati intorno e si sono fatti un paio di domande. L’immagine ultra profonda di Hubble mostra tantissime galassie, molte delle quali con una massa simile a quella della Via Lattea. Ma se guardiamo nel nostro “giardino”, ovvero nelle vicinanze della Via Lattea, che tipo di galassie troviamo? Il gruppo a cui appartiene la Via Lattea è composto da 3 galassie di grandi dimensioni (Via Lattea, Andromeda, galassia del Triangolo) e da almeno 40-50 piccole galassie nane di forma ellittica o irregolare, molte delle quali sono tanto deboli da risultare quasi invisibili con i grandi telescopi, nonostante la vicinanza (non più di qualche milione di anni luce). È qui il segreto per capire quante galassie potrebbero esserci nell’Universo e la domanda delle domande è: come sono distribuite in massa le galassie? Quante galassie nane, quasi invisibili, ci sono per ogni isola grande e luminosa come la Via Lattea, Andromeda o la galassia del triangolo? Quante galassie nane, invisibili, ci sono per ogni punto luminoso dell’immagine ultra profonda di Hubble? Probabilmente molte. Se non abbiamo la presunzione di credere che lo spazio locale in cui viviamo sia in realtà un sistema privilegiato dove vigono regole eccezionali, allora è lecito supporre che la proporzione tra galassie brillanti e deboli sia la stessa in ogni altro punto dello spazio. 

Le domande successive non sono meno importanti: come evolvono le galassie con il tempo? Ovvero, 13 miliardi di anni fa, agli albori dell’Universo, quante galassie c’erano e quante se ne dovevano ancora formare? La proporzione tra galassie luminose e brillanti era la stessa o è variata nel tempo? La questione è importante perché in ogni foto profonda, come quella di Hubble, noi stiamo osservando uno spaccato tridimensionale del cielo, la cui profondità contiene tempi diversi: gli oggetti più distanti appartengono a un Universo molto più giovane di quello che compete alle galassie più vicine. Capire come varia il numero di galassie in funzione dell’età dell’Universo è quindi fondamentale per riuscire a contarle tutte. 

C'è ancora un'altra domanda che dobbiamo porci, per avere ben chiara la situazione e procedere, con consapevolezza, alla nuova stima del numero delle galassie e deve tenere conto dell'espansione dell'Universo. L'immagine di Hubble è stata ottenuta alle lunghezze d'onda visibili, dove le galassie emettono la maggior parte della radiazione elettromagnetica. Tuttavia più lontano guardiamo nello spazio e più vediamo la luce spostata verso il rosso. A oltre dieci miliardi di anni luce di distanza lo spostamento verso il rosso è tanto pronunciato che quello che noi pensiamo di osservare nel visibile appartiene invece alla parte ultravioletta dello spettro emesso da quella remota galassia. La domanda è quindi la seguente: quante galassie ha mancato il campo ultraprofondo di Hubble a causa dello spostamento verso il rosso, che ha spostato la banda visibile verso le regioni infrarosse dello spettro per gli oggetti più distanti? Per dare risposta a quest'effetto particolare, che potrebbe regalarci una rappresentazione sballata dell'Universo, bisogna effettuare fotografie altrettanto profonde anche in altre bande, come l'infrarosso.

Il team di Conselice ha quindi cercato di tenere conto di queste variabili e grazie a un modello computerizzato è arrivato a ricostruire una versione 3D di questa straordinaria immagine di Hubble, che contiene il numero di galassie che ci si aspetta in un tale volume di spazio. Non sono più 10 mila, ma circa 100 mila, sebbene il 90% non sia visibile. A questo punto, moltiplicando per tutta l’estensione del cielo si arriva a una nuova, incredibile, stima del numero di galassie nell’Universo osservabile: circa 2 mila miliardi, ovvero 2 trilioni. Questo non vuol dire che l’Universo è un ambiente più massiccio di quanto pensavamo, anzi. Fino a questo momento il conteggio di galassie sulla base di quelle visibili dall'immagine profonda di Hubble portava a un deficit di massa visibile rispetto a quella calcolata stimando la densità di materia nell'Universo locale. Ora le cose sembrano tornare e l'apparenza inganna, di nuovo: non è detto che ciò che è appariscente rappresenti la maggioranza di una classe di oggetti. È un comportamento, questo, molto simile a quello seguito dalle stelle: gli oggetti di piccola massa sono molto più numerosi di quelli di grande massa, sebbene quest’ultimi si facciano notare molto meglio perché milioni di volte più luminosi. A quanto pare l’Universo ama replicare su scale diverse le cose ben riuscite e noi dovremmo aver imparato la lezione, anche nella vita reale: mai giudicare una situazione dalle apparenze.

Due mila miliardi è quindi la migliore stima che abbiamo delle galassie dell’Universo osservabile. Ricordiamoci, però, qual è il significato dell’aggettivo “osservabile”: la porzione di spazio a noi accessibile. Questa non è limitata dalle nostre capacità tecnologiche, ma dalla velocità finita della luce. Poiché l’Universo ha quasi 14 miliardi di anni, noi non possiamo vedere oltre una sfera dal raggio di circa 14 miliardi di anni luce. Secondo le attuali conoscenze, tuttavia, l’Universo sarebbe un posto molto più grande, almeno miliardi di miliardi di miliardi di volte più esteso. Com’è possibile tutto questo? Alla base c’è un’interessante teoria chiamata inflazione, che agli albori dell’Universo lo ha fatto espandere, per un tempo brevissimo, molto più rapidamente della velocità della luce. Ma questo è un argomento che esula dal nostro post.

Prima di tuffarci verso nuove domande, prendiamoci un momento di riposo per trasformare i meri numeri in emozioni. Siamo consapevoli di quello che abbiamo appena letto? Viviamo in uno spazio in cui ci sono 2 mila miliardi di galassie, tanto immense da contenere centinaia di miliardi di stelle ciascuna, ma talmente lontane le une dalle altre che anche con i più potenti telescopi possiamo osservarne appena il 10%. Riuscite a immaginare l’immensità dello spazio intorno a noi, il numero di stelle totale e quanti pianeti potrebbero esserci solo nella porzione a noi accessibile dell’Universo? Riuscite a comprendere quanto siamo insignificanti, noi e il nostro ego smisurato, per l’Universo? Nessuno riesce a comprendere in fondo queste grandezze, ma è sufficiente avvicinarsi alla consapevolezza quel tanto che basta da provare un lungo brivido sulla schiena. Se riuscissimo ad arrivare a questo punto, avremmo già compreso molto, incluso il modo per rendere migliore questa nostra società, che ha dimenticato del tutto l’ambiente in cui vive e l’Universo immenso che la circonda.


lunedì 7 marzo 2016

Qual è la galassia più lontana?

E' una domanda ricorrente, sia tra gli appassionati che tra gli astronomi e la risposta spesso cambia, perché cambiano le nostre conoscenze dell'Universo.
Se quindi questa domanda viene riproposta nonostante abbia già fatto un post a riguardo qualche anno fa è perché ci sono delle novità, sorprendenti sia dal punto di vista astronomico che strumentale.

La galassia più distante mai scoperta.
L'autore del nuovo record, battendo sé stesso per l'ennesima volta, è l'ormai vetusto telescopio spaziale Hubble, che tra un paio d'anni sarà rimpiazzato dal suo successore, il James Webb Telescope. Nonostante però la veneranda età di 26 anni, il telescopio Hubble è considerato obsoleto solo per quanto riguarda la mera anagrafe: i suoi strumenti, aggiornati più volte nel corso della sua vita, sono ancora in perfetta forma e la profondità che riesce a raggiungere è inarrivabile, ancora, dalla superficie terrestre.

Il telescopio spaziale, guidato da Pascal Oesch, astronomo della Yale University,  ha scovato una galassia remota alla stratosferica distanza di 13,4 miliardi di anni luce. Poiché guadando lontano nello spazio guardiamo lontano anche nel tempo, vista la velocità finita della luce, Hubble ha osservato questa galassia come era 13,4 miliardi di anni fa. Nessuno, fino a questo momento, aveva visto un oggetto dell'Universo tanto vecchio.

Questo numero fa già girare la testa ai non addetti, ma se lo si inserisce in un contesto più dettagliato diventa un grattacapo persino per gli astronomi, che con numeri di tale portata sono abituati a convivere.
La galassia, denominata GN-Z11, è stata osservata in un'epoca in cui l'Universo si era formato solo da 400 milioni di anni, in uno spazio 10 volte più piccolo di quello attuale e in un ambiente molto diverso dall'attuale. Per i più addetti ai lavori, il redshift misurato è pari a 11,1. Il precedente record apparteneva a una galassia posta a redshift 8,68, a 13,2 miliardi di anni luce. Data la sua per forza giovane età, GN-Z11 non è una galassia già formata e tranquilla come la nostra. E' circa 25 volte più piccola della Via Lattea e contiene solo l'1% delle stelle, ma presenta una forte attività di formazione stellare; insomma, è una galassia che sta rapidamente crescendo in un Universo molto giovane e diverso rispetto a quello attuale.

L'Universo di 13,4 miliardi di anni fa aveva poche galassie e non era ancora del tutto ionizzato come quello attuale.

Dopo la formazione dell'Universo a seguito del Big Bang, per milioni di anni non è successo nulla di evidente. Come qualsiasi contenitore di gas in espansione, l'Universo si è raffreddato dai miliardi di gradi subito dopo il Big Bang alle poche centinaia di gradi di qualche centinaio di milioni di anni dopo. Questa discesa della temperatura ha scandito diversi cambiamenti di stato del gas contenuto, una miscela composta per il 76% di idrogeno e il 24% di elio. Da plasma completamente ionizzato dei primi minuti di vita, a gas atomico con una temperatura inferiore ai 3000°K  dopo circa 400 mila anni, a gas molecolare e freddo, completamente oscuro. Il bagliore della ricombinazione dei nuclei atomici con gli elettroni che ha generato la radiazione cosmica di fondo, a una temperatura dell'ordine di 3000°K, sarebbe stata l'ultima scintilla dell'Universo per centinaia di milioni di anni.

Durante l'era oscura, il gas freddo non emetteva luce visibile ma nascondeva grandi manovre che avrebbero portato alla comparsa delle prime stelle, dette di popolazione III, e poi delle prime galassie.
La nascita di corpi celesti con grandi emissioni di luce, soprattutto ultravioletta, ha riscaldato il gas di tutto l'Universo e l'ha ionizzato di nuovo, proprio come lo era stato fino all'emissione della radiazione cosmica di fondo. Da questo processo di ionizzazione non si tornerà più indietro, tanto che anche oggi l'Universo è fato per il 99% di gas ionizzato, mantenuto caldissimo proprio dala luce di stelle, galassie ed esplosioni stellari. Si pensa che prima siano nate le stelle e poi le galassie, ma non si sa quando di preciso è accaduto tutto questo.

Sono molti i modelli che cercano di spiegare quando sono nate le prime strutture galattiche e quando l'Universo si è ionizzato di nuovo a causa della forte luce emessa da stelle e galassie. Ma i modelli sono tali finché non si trovano dati osservativi in grado di confermarli o smentirli. La scoperta di GN-Z11 rappresenta la prima di una lunga serie di oggetti remoti che saranno alla portata del prossimo telescopio spaziale, il successore di Hubble e che faranno luce su una delle ere più lontane ma importanti della nostra storia cosmica. Intanto, con questo record di distanza cominciano ad arrivare i primi dubbi: è possibile osservare una galassia già formata in un'epoca in cui l'Universo era così giovane? Quanto tempo serve per formare una galassia? Che tipo di stelle sta formando? Sono come le nostre, oppure ci sono anche astri di popolazione III, che dovrebbero essere molto diversi rispetto a quelli che vediamo nell'Universo attuale? Com'era l'ambiente di quel lontanissimo tempo? Tante domande e poche risposte, ma questo è il bello della scienza: per ogni scoperta si aprono nuovi e illimitati orizzonti che ora sembrano irraggiungibili ma che piano piano avvicineremo proprio come facciamo ogni giorno.

venerdì 3 febbraio 2012

Quante galassie ci sono nell'Universo? Ce lo dice l'Hubble Ultra Deep Field

Questo post è ormai datato. Per conoscere la nuova stima sul numero di galassie, clicca qui.

Questo post è estratto dal mio libro: "125 domande e curiosità sull'astronomia" disponibile in formato digitale a 2.99 euro.

Quante galassie ci sono nell'Universo?
A questa semplice domanda non è affatto facile rispondere e forse neanche potremo, per un semplice motivo: l'Universo accessibile ai nostri strumenti non è necessariamente tutto l'Universo.
Non si tratta di un problema strumentale, ma temporale e ve lo spiego velocemente sperando di farmi capire.

La ripresa più profonda della storia
Secondo le moderne teorie ed osservazioni, l'Universo è nato circa 14 miliardi di anni fa.
Non ci interessa come sia nato e quali fossero le sue proprietà; quello che ci interessa capire è che da quel momento si è espanso e lo sta continuando a fare anche ai giorni nostri.

Ora consideriamo la velocità della luce e di tutte le onde elettromagnetiche. Questa è fissata dalla Natura e molto vicina al valore di 300000 km/s. Si tratta di un numero spaventosamente grande per noi, ma piccolo per l'Universo.
Visto che nulla può viaggiare più veloce della luce (almeno questo è quello che sappiamo), e visto che noi osserviamo gli oggetti celesti perché riceviamo la luce da loro emessi, il nostro orizzonte di spazio accessibile non potrà mai essere più grande di una sfera dal raggio di 14 miliardi di anni luce.

Se oltre questa distanza esistono altre porzioni di Universo noi non possiamo osservarle, perché la luce inviata da oggetti così distanti ancora non ha fatto in tempo a raggiungerci.
Ne consegue che l'Universo a noi accessibile, il cosiddetto Universo osservabile, potrebbe essere solamente una piccolissima parte di quello effettivamente esistente, ma che non possiamo ancora osservare.

Contare quindi il numero di galassie nell'Universo (potrebbe addirittura essere infinito) risulta impossibile e forse lo sarà per sempre.

Possiamo però contare il numero di galassie presenti nella porzione di Universo che possiamo osservare.
I moderni telescopi sono infatti in grado di rilevare deboli galassie fino ai confini dell'Universo osservabile.

Come fare per contare quindi quante galassie potrebbero essere contenute all'interno di questa enorme sfera dal raggio di 14 miliardi di anni luce?
E' impensabile osservarle tutte e contarne una per una, dobbiamo trovare un modo migliore.

Distribuzione nello spazio di 2 milioni di galassie
Le osservazioni degli ultimi 70 anni ci hanno mostrato che l'Universo, su larga scala, è omogeneo ed isotropo. Queste due parole stanno ad indicare che qualsiasi porzione di spazio consideriamo, troveremo circa lo stesso numero di galassie e sarà uguale ad una qualsiasi altra porzione di spazio presa a caso (stessa densità di materia, temperatura).

Se quindi le galassie sono disposte in modo omogeneo nello spazio e non vi sono zone in cui valgono proprietà diverse, possiamo calcolare in modo molto più semplice il numero di galassie totali accessibili al nostro orizzonte.
Come fare?
Semplice: basta puntare una zona casuale di cielo, non disturbata da polveri e gas della nostra galassia, non troppo piccola, e contare il numero di galassie che riusciamo ad osservare.
Se la disposizione di queste isole di stelle è la stessa per tutto l'Universo, basta moltiplicare il numero di oggetti che abbiamo contato nel nostro campo di ripresa per l'estensione angolare di tutta la sfera celeste ed avere una buona stima delle galassie presenti nell'Universo osservabile.

Seguendo questo ragionamento, nel 2004 gli astronomi hanno ripreso attraverso il telescopio spaziale Hubble una porzione di cielo 10 volte più piccola della Luna piena e contato il numero di galassie presenti.
L'immagine, denominata Hubble Ultra Deep Field, è attualmente la più profonda mai scattata e mostra uno spaccato di Universo profondo circa 13 miliardi di anni luce.
Pensate che in questa piccola porzione di cielo si contano circa 10000 galassie.
Tra l'agosto ed il settembre del 2009 questa porzione di cielo è stata ripresa anche nell'infrarosso, rilevando altre deboli galassie non visibili nella prima versione perché oscurate da polveri e gas presenti lungo la linea di vista (le polveri ed il gas risultano più trasparenti in infrarosso rispetto al visibile).
Facendo una moltiplicazione, possiamo stimare che il numeero di galassie nell'Universo osservabile è compreso tra i 300 ed i 500 miliardi!
Se consideriamo che una galassia media possiede circa 100 miliardi di stelle, lascio a voi il calcolo del numero delle stelle presenti nell'Universo osservabile.
Se vogliamo peggiorare la situazione, basta pensare che secondo la teoria dell'inflazione, attualmente la migliore per spiegare i primi istanti di vita dell'Universo, la porzione che possiamo osservare è solamente un'infinitesima parte di un volume di spazio 10 elevato alla ventitreesima potenza più grande (10 seguito da 23 zeri!), qualcosa che nessun essere umano potrà mai immaginare e neanche osservare.




Per gli amanti dei dati tecnici: la magnitudine limite raggiunta dall'Hubble Ultra Deep Field è pari a circa 30, mentre il tempo di eposizione totale per la ripresa è stato di 11,3 giorni, con singole esposizioni medie di 21 minuti. Il segnale delle galassie più deboli visili è stato pari a circa 1 fotone ogni minuto. Per confronto, l'immagine di una galassia vicina e mediamente luminosa ha un flusso pari a milioni di fotoni ogni minuto.

Qui invece è visibile l'immagine a piena risoluzione