venerdì 12 giugno 2015

Le meraviglie dell'Universo in uno strumento gigante

Questo post è stato estratto dal mio ultimo libro: "Vent'anni sotto il cielo stellato", disponibile in formato cartaceo ed ebook.



L'osservazione del cielo stellato diventa sempre più bella mano a mano che il cielo è scuro ma, soprattutto, all'aumentare della potenza del telescopio. Nell'ambito astronomico, potenza significa diametro dello strumento: maggiore è la sua apertura, più deboli e dettagliati appariranno gli oggetti celesti.

Gli strumenti che di solito possiamo permetterci ci danno ottime visioni dei pianeti e della Luna e discrete immagini dei cosiddetti oggetti del profondo cielo, vale a dire ammassi stellari, nebulose e lontane galassie.

Nel corso degli anni sono stato assalito dall’irrefrenabile voglia di avvicinarmi sempre di più alle perfette visioni fotografiche con i miei occhi, stregato dal contatto diretto con l'Universo profondo. Le mie povere tasche da studente universitario non mi hanno però permesso di andare oltre uno strumento da 36 centimetri di diametro, che peraltro consente già di avere ottime visioni degli oggetti del cielo profondo.
Nulla però in confronto a quanto ho potuto provare, per ben due volte, grazie a un amico che ha potuto realizzare in modo spettacolare un grande sogno: costruirsi un telescopio, anzi, un enorme binocolo, così grande da permettere ai nostri occhi di vedere dettagli molto simili a quelli delle fotografie astronomiche (colore escluso). E grazie alla sua estrema cordialità, l'Universo diventa alla portata di tutti. L'unica cosa richiesta? Voglia di meravigliarsi. Nient’altro.

La prima volta che vidi il leggendario binodobson di Andrea Boldrini, un mega strumento composto da due telescopi di ben 60 centimetri di diametro l’uno, era l'estate del 2012 dal rifugio di ogni appassionato di astronomia del centro Italia: Forca Canapine.
Rimasi esterrefatto di fronte alla mole dello strumento, alto circa tre metri e largo quanto una piccola utilitaria. Mi avvicinai timido e intimorito, e mentre cercavo di trovare il coraggio di chiedergli se avessi potuto metterci gli occhi dentro, fu lui ad anticiparmi e a invitarmi alla vera festa delle stelle che si stava svolgendo proprio lì.
Salii un po' spaventato sulla scala che portava fino verso la cabina di pilotaggio di quella potente astronave cosmica. Dopo le indispensabili indicazioni del comandante potei volare libero verso il cielo sconfinato. Fu l'inizio di un nuovo amore per l'Universo, perché lì dentro, non so davvero come dirlo, c'erano cose che pochi umani avevano visto. Al centro del grande campo si stagliava nitida la sagoma inconfondibile della nebulosa Velo, ciò che resta di un'antica esplosione di una stella molto più grande del Sole. È uno degli oggetti più fotografati ma poco osservati, perché richiede cieli scuri, telescopi di buon diametro e una discreta dose di immaginazione per tracciare gli indistinti contorni di quei filamenti gassosi dispersi nello spazio. È così evanescente che spesso richiede filtri particolari, e in ogni libro di astronomia pratica è sottolineato quanto sia difficile osservare la sua tenue immagine.
Niente di tutto questo mi aspettava all'oculare e niente poteva prepararmi a quello che stavo per vedere. Fluttuanti nello spazio aperto si stagliavano delicati ma contrastati i deboli filamenti di gas interstellare, i pezzi di quell'antica stella, meglio di qualsiasi fotografia. E quando il comandante mi consegnò la console di controllo dell'astronave e mi disse: “Navigaci” mi sentii la persona più felice di questo mondo perché stavo davvero esplorando una magnifica zona cosmica che a ogni movimento mi rivelava sempre nuovi dettagli, nuove sfumature, nuove emozioni.
Ricordo e ricorderò per sempre quell'osservazione dell’ammasso di Ercole, che mi regalò la visione di tutte le circa 500 mila stelle che lo popolano; la tenue sagoma della nebulosa ad anello, una fotografia di come sarà il nostro Sole tra poco più di 5 miliardi di anni. Passai di fianco alle distese gassose della nebulosa planetaria M27, mi imbattei nelle intricate trame che mai avrei pensato di vedere della nebulosa Crescent. E cosa dire di M17, la nebulosa Cigno (o Omega)? Non potevo non assistere al miracolo della nascita di migliaia di stelle da un’immensa distesa di gas, tanto luminosa e contrastata che mi sembrava di vederla in tre dimensioni.


Ok, questa è una foto che ho scattato con il mio telescopio, ma sono pronto a giurare che M13, nel binodobson di Andrea Boldrini, si vedesse proprio così. E chi ha bisogno, allora, di fare fotografie?

 Spesso ho sognato quella fantastica serata ma impegni universitari e lavorativi mi hanno tenuto lontano da quel cielo e dal mastodontico binodobson per più tempo di quanto fossi disposto ad aspettare.
Poi, per caso, la sera del 19 Dicembre 2014 le previsioni meteo erano buone e un paio di amici della mia associazione mi convinsero a tornare sotto quel cielo scuro. Mai, però, mi sarei aspettato che sul piazzale freddo e deserto ci fosse anche Andrea e il suo incredibile binodobson. Avrei potuto realizzare qualcosa che mi frullava per la testa sin da quella lontana serata: osservare con quel gigante la galassia di Andromeda e la nebulosa di Orione, due oggetti già spettacolari con piccoli telescopi e che avrebbero riservato chissà quale sublime visione attraverso quella stupenda astronave.
Fu in questo modo che una serata improvvisata all’ultimo momento si trasformò in una nuova, appassionante festa delle stelle, nella quale condividere le emozioni del cielo, sia quello, bello, a occhio nudo ma soprattutto quello che avremmo potuto osservare a bordo del binodobson.

Andrea ben sapeva che la star della serata, la grande nebulosa di Orione, ci avrebbe rapito, così come rapì lui che non poteva più fare a meno di osservarla ogni volta che la vedeva sopra l'orizzonte. Questa, però, 
era ancora troppo bassa sull'orizzonte e sarebbe stata la parte finale di un tour che iniziò dagli oggetti estivi ormai al tramonto, come la già vista nebulosa Velo, e gli ammassi globulari M15 e M13 (di Ercole) tutti spettacolari, proprio come me li ricordavo.

Il primo grande e nuovo sussultò arrivò dalla galassia a spirale M33, famosa per essere molto estesa (più della Luna piena) ma al contempo troppo debole e avara di dettagli. Bene, in quell'astronave mi fece restare a bocca aperta e con me tutti i compagni di avventura. Ben evidenti i tenui bracci di spirale su cui spiccavano ogni tanto delle condensazioni di forma sferica. Incredibile ma vero, stavo osservando nebulose di un'altra galassia, a 2,5 milioni di anni luce da noi. Stavo vivendo, in quel momento, uno spettacolare viaggio attraverso un Universo che per la prima volta potevo riuscire a comprendere quanto fosse vasto.
Quei tenui bracci di spirale, quasi tridimensionali nel buio del cielo, potevano sembrare una tipica opera di pittura astratta, ma quando si ha la consapevolezza che sono un disegno cosmico immenso, costituito da decine di miliardi di stelle poste così lontano da non poter immaginare, allora tutto cambia e dentro esplodono sensazioni ineguagliabili. Sarei restato per ore su quella girandola cosmica. L'unico modo per farmi scendere dalla scala e lasciare le redini dell'astronave al comandante fu la promessa di puntare la galassia di Andromeda, che si preannunciava ancora più spettacolare.


M33 al telescopio si mostrava per quella che era: una stupenda galassia a spirale ricca di stelle giovani e gigantesche nebulose. Mai vista così!
 
Pochi minuti di viaggio, giusto per permettere all’esperto comandante di fare le delicate manovre di avvicinamento, poi egli ci avvertì dell'arrivo nei pressi di quell’isola di stelle. Non con uno sterile comunicato come quello dei comandanti di un aereo, ma attraverso un’esplosione di aggettivi che tentavano di descrivere la bellezza del panorama che stava osservando.
Bellezza che riuscii a comprendere solo quando misi gli occhi agli oculari. Il nucleo della galassia di Andromeda era lì, brillante come mai l'avevo visto. Ma non era questa la caratteristica che cercavo. Estesa ben oltre il campo inquadrato dallo strumento, cominciai a spostarmi navigando con prudenza alla ricerca di quei dettagli che la fotografia cattura con estrema facilità, ma che nessun telescopio di noi comuni appassionati ci ha mai mostrato. Ed ecco che laddove tutti i telescopi usati mostravano nient’altro che il nero del cielo, quell’astronave mi portò vicino al punto da riuscire a farmi vedere quello che cercavo: i bracci di spirale. Zone più chiare e più scure, mescolate in modo perfetto, sembravano non terminare più. Le due galassie satelliti erano così grandi ed evidenti che per un attimo scambiai una di queste (M110) per il nucleo di Andromeda.
Viaggiando ben più veloce della luce verso periferie della galassia, ecco che nel braccio più esterno comparve quella che sembrava una nuvola indistinta, ma che a uno sguardo più attento rivelava centinaia di deboli stelline: si trattava dell'ammasso aperto NGC206, situato in uno dei bracci di Andromeda e che non solo era evidente, ma mostrava le singole stelle.
Un momento di silenzio, perché quella era una visione memorabile: stavo osservando la luce di centinaia di stelle distanti 2,3 milioni di anni luce, qualcosa come 23000000000000000000 chilometri! Non solo, ma la luce che stavo osservando era vecchia di 2,3 milioni di anni e lasciò la galassia di Andromeda quando qui sulla Terra non esisteva ancora quasi nessuna traccia degli esseri umani.
Molti di quegli astri che stavo osservando non esistevano più, ma per noi sulla Terra erano e sono tutt'ora reali. E allora è meraviglioso pensare che tutto quello che facciamo, anche nelle più piccole cose, viaggerà nell'Universo alla velocità della luce e per qualcuno, anche milioni o miliardi di anni dopo che sarà accaduto, si fonderà con il presente. Le nostre vite e le nostre azioni vengono registrate su un lungo nastro che alla velocità della luce percorrerà tutto l'Universo, senza mai perdere memoria di quello che è stato, chissà quanto tempo prima.


A sinistra, il frastagliato centro di Andromeda, a destra l’ammasso aperto osservato in uno dei suoi bracci. Al binodobson si vedevano così!
Perso come un ragazzino che per la prima volta si sentiva innamorato alla follia, non mi resi conto di quanto tempo passai fantasticando su quella splendida galassia, al punto che il comandante mi comunicò che il momento tanto atteso era forse arrivato: potevamo andare sulla nebulosa di Orione. “Ma ti avverto” disse con aria divertita e orgogliosa, “Se la galassia di Andromeda ti è piaciuta così tanto, preparati a quello che vedrai sulla nebulosa di Orione. Non puoi immaginare, è qualcosa che toglie il respiro”.
Non ricordo molto bene il momento tra questa sua frase e l’attimo in cui i miei occhi hanno visto la cosa più bella di sempre. Ho dei flash che ogni tanto compaiono un po’ sconclusionati. Ad esempio, ricordo che per primi osservarono Federico e Giovanni e che rimasero senza parole. Increduli, nonostante ormai decine di serate osservative, nonostante aver visto la nebulosa di Orione tante volte con strumenti più piccoli, nonostante in cuor loro sapessero che avrebbero assistito a uno spettacolo mai visto. Eppure, come sempre dovrebbe accadere, non si è mai preparati a qualcosa che non si è mai visto né vissuto. Ed è proprio questo il segreto per vivere al massimo la vita e tutte le belle sorprese che da essa possiamo trarre. Perché se tutto fosse prevedibile e ogni cosa potessimo immaginarla già prima di affrontarla, sarebbe davvero una noia mortale. E invece, le emozioni più belle sono quelle che non si possono immaginare prima di viverle.
Quando venne il mio turno, il cuore mi batteva forse più forte della mia prima cotta, più che il giorno della laurea, più che in ogni altra situazione. Anche perché stavo per vivere emozioni ben al di fuori del confine piccolo e protettivo di questo mondo; stavo per affrontare sensazioni che avrebbero disgregato il limite terreno e si sarebbero scatenate nel luogo più vasto e meraviglioso che esista: l’Universo.
Afferrate le aperture del super telescopio e messi gli occhi agli oculari, non vidi subito la nebulosa. La tecnica, suggerita da Andrea, era infatti quella di spostare lo strumento di poco e navigare poi a vista verso di essa, scoprendola poco a poco.
Così al comando di quell’astronave cominciai a viaggiare velocissimo tra le numerose stelle nel campo, cercando la rotta per la nebulosa. A un certo punto un lieve bagliore mi suggerì che c’ero vicino. Mi fermai, feci un gran respiro e mi spostai veloce in quella direzione per far entrare la sua luce prepotente nel campo, fino a riempirlo tutto. E fu l’apoteosi. Persino ora, mentre sto scrivendo queste righe, non vedo le parole scorrere ma riesco ad accarezzare quelle delicate e dettagliate regioni soffici come la seta. Molto meglio di qualsiasi fotografia, perché gli occhi hanno maggiore dinamica, quindi consentono di avere una visione inarrivabile da qualsiasi altro dispositivo.
Al centro il trapezio luminoso ma non sovraesposto, era contornato da una nebulosa estesa quanto le migliori foto, ma con la delicatezza unica che solo l’occhio umano può restituire. Era senza alcun dubbio la visione più bella di sempre, non solo riguardo all’astronomia, ma rispetto a tutto quello che avevo visto e che, forse, mai vedrò. Mi persi con l’immaginazione tra le piccole nuvolette simili a tante pecorelle della zona centrale. Mi spostai lungo le ali, che proprio come avevo teorizzato in un articolo sui colori delle nebulose, apparivano rosate a causa del contrasto con la regione centrale verdina. In realtà erano grigie, ma il colore, di fronte a quei chiaroscuri così reali e vicini, era l’ultima cosa che mi interessava.
Avevo davanti a me un’immagine statica, ma nella mia mente non lo era affatto. Stava a me farla muovere, viaggiando con la fantasia e l’immaginazione. E al contrario della televisione, che ci dice quali sono le immagini che dobbiamo vedere senza darci l’opportunità di pensare, qui, Signori, siamo noi a comandare il gioco e a rendere una tale bellezza il Ricordo da non dimenticare mai più nella vita.
Quella sera restai più di dieci minuti a volare sopra Orione e non mi sarei mai stancato di farlo. Quella fucina di stelle ha un fascino unico, quasi stregato, del quale non si può più fare a meno. E tornato a casa, con il cuore pieno di gioia, iniziai a contare i minuti che mi separavano dalla successiva osservazione.

 

Ci ho messo un po’, ma alla fine credo di esserci riuscito. Ho manipolato una delle mie immagini della nebulosa di Orione e questo è l’aspetto più vicino a ciò che ho visto all’oculare del binodobson, con il vantaggio di avere un ingrandimento maggiore di quello della foto.

Quel telescopio dovrebbe essere patrimonio dell’umanità; è una finestra migliore di qualsiasi astronave, che può farci capire davvero quale sia il nostro posto nell’Universo, quali sono le grandezze, le priorità, i veri problemi in gioco e quanto stupide e superficiali siano condotte a volte le nostre vite. Viviamo troppo poco per poterci permettere di perdere tempo in cose effimere. Ma come fare a capire se qualcosa per noi è effimero o no? È semplice e forse l’ho già detto: se il suo ricordo sopravvive immutato per mesi e addirittura anni, allora avremmo vissuto un’esperienza unica, altrimenti la nostra mente, ben più furba della parte che usiamo per sopravvivere, ce l’avrà già fatto dimenticare già pochi giorni dopo.
Le vere emozioni si possono provare anche solo una volta nella vita, non importa: è il loro ricordo a durare per sempre e a renderci felici e appagati per questa straordinaria esistenza.

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