venerdì 27 giugno 2014

Ganimede ripreso al telescopio

Pratico imaging planetario da ormai 15 anni, eppure ancora continuo a stupirmi delle grandi potenzialità della strumentazione amatoriale accoppiata a un buon sensore di ripresa, tecnica e metodo scientifico, soprattutto per quanto riguarda l'alta risoluzione planetaria.
Sin da piccolo mi chiedevo spesso quale fosse il limite dei nostri telescopi, fino a quali dettagli era possibile osservare.
In questa mia ricerca, che ormai va avanti da molti anni, mi sono imbattuto pochi giorni fa in qualche mia ripresa di Giove risalente al 2010 e ho notato che una in particolare poteva ben rendere l'idea di cosa si è in grado di fare oggi con la nostra strumentazione.

In un'immagine del 23 luglio 2010, ottenuta con ottima stabilità atmosferica, c'era Ganimede, la Luna più grande del Sistema Solare, in transito sul disco di Giove, che sembrava mostrare molti dettagli superficiali.
Ho allora isolato il satellite, l'ho ingrandito e ho cercato di capire se quelli che sembravano dettagli superficiali potessero essere confermati in qualche modo.
Gli astroimager planetari con maggiore esperienza sanno che questa luna mostra spesso particolari, grazie al loro elevato contrasto, ma fin dove si può arrivare?
Confrontando la mia immagine con le mappe cartografiche ho scoperto che non solo è visibile la famosa Galileo Regio, una regione più scura che compare quasi sempre nelle immagini, ma anche un punto bianco in basso che corrisponde a un grande cratere da impatto, il cratere Osiris.
Questo è il limite, probabilmente, di un telescopio da 35-40 centimetri: mostrare un cratere di poche centinaia di chilometri di diametro a una distanza media di 800 milioni di chilometri!
E se non è affascinante questo, non so cos'altro potrebbe esserlo.

Ganimede ripreso con il mio telescopio

martedì 24 giugno 2014

L'imponente razzo Saturn V

Questo post è un estratto del mio libro: Conoscere, capire, esplorare il Sistema Solare, disponibile in formato ebook e in cartaceo.


Difficile riuscire a immaginare cosa si possa provare nel trovarsi di fronte all’imponente Saturn V, a meno che non si abbia la fortuna di visitare il museo Smithsonian, negli Stati Uniti, e capire che in uno degli scarichi dei motori del primo stadio potrebbe tranquillamente viverci una persona, tanto è grande. 
Difficile anche comprendere come questo gigantesco agglomerato di metallo, cavi e carburante, dal peso di 3 mila tonnellate, potesse far volare tre impavidi uomini e portarli in una regione di spazio dove nessuno era mai arrivato e soprattutto nessun’altro si è più avventurato.
E si fatica non poco ad accettare il fatto che questo manufatto, così enorme e imponente, sia stato partorito interamente dalla genialità della mente umana.
L’ideatore del Saturn V, Werner Von Braun.



Il Saturn V, l’unico a portare uomini oltre la bassa orbita terrestre, era un imponente razzo costituito da oltre 3 milioni di pezzi, alto 111 metri, capace di portare in orbita lunare un peso di circa 45 tonnellate.
Gran parte della sua struttura era piena di carburante e riservata a lasciare la superficie e l’atmosfera terrestre, un’impresa molto più difficile di quanto si possa  pensare, soprattutto se si deve trasportare un’astronave con equipaggio umano dal peso di diverse tonnellate.
Ben 80 metri del Saturn V servivano proprio per questo scopo. Con un consumo massimo di circa 15 tonnellate di carburante al secondo, il razzo doveva portare in orbita la “parte superiore” che alloggiava la vera e propria astronave Apollo.

Il vettore aveva tre stadi, ovvero era formato da tre unità che avevano diversi compiti.
Il primo stadio era individuato dalla parte inferiore ed era il più potente, riservato al decollo e ai primi istanti di salita in atmosfera terrestre.
Alto 42 metri e con un diametro di 10, era pieno di ossigeno liquido e cherosene e dotato di 5 motori.
L’accensione durava 168 secondi, dalla partenza fino a un’altezza di circa 65 km, quando finito il propellente veniva espulso e ricadeva in pieno oceano.
L’espulsione liberava il secondo stadio alto 24 metri e formato da 5 motori, con il compito di fornire la spinta necessaria all’astronave per raggiungere gli strati più alti dell’atmosfera.
Esaurito il carburante, veniva espulso per liberare il terzo e ultimo stadio, alto circa 18 metri.
Il terzo stadio era l’unico razzo del complesso sistema modulare del Saturn V che poteva essere riacceso. Questo infatti serviva inizialmente per porre l’astronave in orbita terrestre di parcheggio, in attesa del via libera da parte del controllo missione per la seconda e ultima accensione che avrebbe portato l’astronave verso la Luna.

Schema del Saturn V in una rappresentazione degli anni 60
Se il Saturn V era indubbiamente il gigante dello spazio, il rimorchio cingolato che doveva trasportarlo dalla base alla rampa di lancio era sicuramente il gigante della strada.
Pochi giorni prima della partenza, l’enorme vettore in configurazione di lancio veniva trasportato verso la rampa da questo super rimorchiatore dal peso di oltre 2500 tonnellate, dotato di due motori da 2700 cavalli e altrettanti da 1000, che alla velocità di crociera di 1,7 km/h impiegava diverse ore per giungere a destinazione.
Rimorchi simili sono stati utilizzati per trasportare lo Space Shuttle e per tutti gli altri razzi diretti verso la rampa di lancio.

sabato 21 giugno 2014

Che cos'è l'airglow?

Da cieli perfettamente scuri, oltre alla luce zodiacale e tantissime stelle, è osservabile anche la debole luminosità della nostra atmosfera, chiamata airglow. 
Questo sottile velo luminoso si rende meglio visibile vicino all'orizzonte come una luce verdastra, spesso frastagliata, simile a quella delle aurore polari, ma molto, molto più debole.
Riguardando le mie immagini dell'Australia mi sono accorto di averlo ripreso casualmente una sera e di averlo poi ben osservato la sera prima dell'eclisse, quando il cielo appariva inspiegabilmente lattiginoso pur non avendo alcuna fonte di luce nel raggio di centinaia di chilometri.


L'airglow ripreso dall'Australia
Contrariamente alle aurore, l'airglow è osservabile da qualsiasi luogo della superficie terrestre, in ogni periodo dell'anno, anche se statisticamente alcune stagioni, come l'autunno e la primavera, sembrano essere più avvantaggiate. 

Il meccanismo che accende l'alta atmosfera è sostanzialmente lo stesso responsabile delle aurore: l'aria, a circa 100 km di altezza, emette luce quando le molecole e gli atomi di cui è composta si ricombinano insieme dopo essere stati allontanati da urti con raggi cosmici e con la stessa luce UV del Sole durante il giorno. 
 
Dallo spazio vicino alla Terra, in particolare dalla privilegiata posizione degli astronauti a bordo della stazione spaziale internazionale, l'airglow è evidentissimo se si osserva lungo la linea dell'orizzonte terrestre, come un tenue e uniforme arco verdastro.

Airglow sopra l'Italia ripreso dalla ISS

La naturale emissione dell'alta atmosfera della Terra è il motivo per cui il cielo notturno, anche se osservato lontanissimo da qualsiasi luce artificiale, non è perfettamente nero come invece lo sarebbe se visto dallo spazio. Ed è proprio questo il motivo per cui il telescopio spaziale Hubble, benché abbia uno specchio di 2,4 metri di diametro, ottiene immagini più profonde dei mastodontici colleghi terrestri di 8 e più metri di diametro.

martedì 17 giugno 2014

Uno stralcio del mio ultimo libro



Un paio di settimane fa ho pubblicato, solo in formato ebook, il mio ultimo libro: “Astronomia amatoriale 2.0” dedicato alle idee e alle tecniche per osservare e fotografare il cielo con un telescopio amatoriale.

Il libro è un manuale che raccoglie gli articoli che nel corso degli anni ho scritto per riviste del settore. Si prefigge di essere una guida per chi ha già una minima esperienza con il cielo e vuole sfruttare nel migliore dei modi le opportunità uniche che la tecnologia e il benessere economico attuali mettono a disposizione di tutti noi appassionati di Universo.
Parleremo di eclissi, di cielo australe, di aurore, di mineral moon, di filmati time-lapse, di derotazione delle immagini planetarie, di calibrazione delle immagini del cielo profondo e molto altro, in un percorso attraverso tutte le branche dell’astronomia amatoriale.

Il libro è disponibile al momento solo su Amazon e informato Kindle. Ricordo comunque che può essere acquistato e letto anche da chi non  ha un Kindle: basta un account Amazon e un’applicazione gratuita per smartphone, tablet o pc messa a disposizione da Amazon stesso.

Se siete curiosi di sapere di cosa parla “Astronomia amatoriale 2.0”, ho preparato un estratto in PDF contenente l’indice e le prime 40 pagine che potete scaricare gratuitamente seguendo questo link.

Se il libro vi interessa, è disponibile qui a soli 3,25 euro.

lunedì 16 giugno 2014

La bellezza della Via Lattea estiva

Forse non lo sappiamo e probabilmente non l'abbiamo mai vista nella sua reale bellezza a occhio nudo, nascosta dallo scempio delle luci artificiali puntate verso il cielo, ma in queste notti estive sta facendo capolino in tutta la sua maestosità la Via Lattea estiva, la porzione più brillante e spettacolare della nostra Galassia.

Solo da un cielo scuro, magari in alta montagna, e senza il disturbo della Luna, è possibile ammirare ogni sera l'imponente e sconvolgente bellezza della nostra Galassia, un'isola di stelle enorme che contiene centinaia di miliardi di astri, pianeti, migliaia di nebulose, ammassi stellari e tutto quello che in un piccolo telescopio possiamo scoprire.

E se vogliamo incrementare la bellezza dello spettacolo muniamoci di una reflex digitale, una piccola montatura equatoriale o un astroinseguitore che compensano il movimento della sfera celeste, scattiamo 4-5 foto da 5 minuti ciascuna ad almeno 800 ISO con un obiettivo da 16-18 mm, elaboriamole con un software apposito quale Registax, Maxim DL o Deep Sky Stacker e godiamoci colori e contrasti che i nostri occhi non potranno mai ammirare dal vivo perché troppo poco sensibili.

E a questo punto, di fronte all'incredibile luce di milioni o miliardi di stelle tutte disposte lungo una sottile linea che sembra disegnata dal più grande pittore cosmico mai esistito, sorridiamo consapevoli dell'enorme fortuna che abbiamo nell'essere coscienti della magnificienza dell'Universo. Sono questi i momenti unici per i quali vale la pena vivere.

La Via Lattea estiva

giovedì 12 giugno 2014

Qual è il pianeta con i venti più violenti del Sistema Solare?



Questo post è tratto dal mio libro: "125 domande e curiosità sull'astronomia" disponibile su Amazon in formato cartaceo e digitale.


Sebbene eccezionale e unico sotto molti punti di vista, il nostro pianeta ha anche molti tratti che lo fanno somigliare agli altri corpi del Sistema Solare, almeno quelli dotati di atmosfera.

I venti che sperimentiamo ogni giorno sono una delle caratteristiche che accomunano quasi tutti i pianeti, a esclusione di Mercurio, purtroppo sprovvisto dell’ingrediente principale: un’atmosfera apprezzabile. 

I venti sono movimenti più o meno rapidi di masse d’aria, innescati sempre dal motore del Sistema Solare: il Sole e la sua radiazione. Il diverso riscaldamento di pezzi di atmosfera costringe l’aria, una miscela di gas, a comprimersi o espandersi, variando quindi la pressione e mettendosi in moto per cercare di trovare un equilibrio. Un palloncino gonfio a cui è praticato un buco è un ottimo indicatore di come funziona il principio alla base del vento: fino a quando non sarà del tutto sgonfio l’aria continuerà a uscire. Solamente quando la pressione all’interno sarà uguale a quella esterna il palloncino smetterà di perdere aria, ma sarà ormai del tutto sgonfio.
Il pianeta più ventoso? Nettuno!

I venti nel Sistema Solare sono un fenomeno molto comune e spesso sono molto più violenti di quelli terrestri.
Sulla sommità delle nubi di Venere, ad esempio, soffiano venti fino a quasi 400 km/h.
Le violente tempeste di sabbia di Marte superano i 200 km/h, velocità che sulla Terra si raggiungono solamente all’interno dei grandi tornato o in prossimità di enormi uragani.
I pianeti gassosi sperimentano venti ancora più violenti. La grande macchia rossa di Giove è un ciclone grande oltre due volte la Terra al cui interno si misurano venti di oltre 500 km/h!

Ma la palma di pianeta più ventoso spetta a Nettuno. La sonda Voyager 2 che l’ha visitato nel 1989 ha misurato nella sommità della sua atmosfera venti superiori a 2000 km/h, quasi due volte più rapidi della velocità del suono qui sulla Terra. Sarebbe molto meglio evitare di trovarsi in una situazione del genere!

A voler essere pignoli, però, il vento più violento è quello proveniente dal Sole e chiamato vento solare, un flusso di particelle che alla distanza della Terra ha una velocità media di 500 km/s, vale a dire quasi 2 milioni di chilometri l’ora. Com’è possibile allora che astronavi, astronauti e addirittura la Terra non sono spazzati via da questo imponente vento?

La risposta sta nella densità dei venti, quindi nella "forza" che questi trasmettono quando incontrano un ostacolo. Ne abbiamo parlato qualche post fa.

martedì 3 giugno 2014

Proviamo a far chiarezza sul redshift



Il redshift, letteralmente spostamento verso il rosso (di cosa? un attimo di pazienza!), è un punto chiave nel capire e spiegare alcuni importanti fenomeni dell’Universo. In questo post cerco di chiarire meglio il suo significato alla luce delle attuali conoscenze.
Con il termine redshift si intende, nel significato più generale, qualsiasi effetto di spostamento verso frequenze minori di una generica onda, dal suono alla luce.
Nel caso della luce, e in generale della radiazione elettromagnetica, che è quello che ci interessa, con il termine redshift (o blueshift) si identifica una generica osservazione di uno spostamento verso il rosso (o il blu) dello spettro emesso (e conosciuto con precisione) di una certa sorgente rispetto allo stesso spettro visto in una posizione di quiete (o in laboratorio).

Capire la causa fisica di questo spostamento a partire dall’osservazione dell’effetto e a quali grandezze fisiche è legato è un altro paio di maniche e richiede lo sviluppo di una teoria fisica in grado di interpretare correttamente i dati a disposizione. Senza un numero di indizi sufficientemente ampio, l’interpretazione fisica può non essere univoca, come accade proprio per il redshift cosmologico (lo vedremo tra poco). 
Innanzitutto dobbiamo capire che qualsiasi spostamento di frequenza di una certa onda elettromagnetica è il prodotto di un cambiamento dell’energia dei fotoni a essa associati. Un’onda elettromagnetica può infatti essere vista come un flusso di particelle, i fotoni, che possiedono una ben determinata energia: E = hν, dove h = costante di Planck, ν = frequenza. Ogni fotone, quindi, può considerarsi come la minima quantità di energia trasportata da una qualsiasi onda elettromagnetica. Non esistono fotoni con energia frazionaria. 
Il redshift o blueshift prevede uno spostamento della frequenza associata a una qualsiasi onda elettromagnetica, ergo, una variazione dell’energia che possiede ogni fotone. 
Cosa provoca la variazione dell’energia dei fotoni emessi da una certa sorgente? Perché essi, pur essendo stati emessi con una determinata energia, a un osservatore possono apparire di energia completamente diversa? Cosa provoca, quindi, lo spostamento verso il rosso o il blu dello spettro elettromagnetico?
Ci sono varie cause responsabili del redshift
Andiamo per gradi e formalizziamo meglio quanto detto con le parole, iniziando proprio dalla base. Possiamo innanzitutto definire il generico spostamento verso il rosso (o il blu, ma in astronomia avremo quasi sempre a che fare con il redshift) come la differente posizione di una determinata riga di emissione e/o assorbimento rispetto a una stessa sorgente o campione di laboratorio, che si trova in condizioni di quiete rispetto all’osservatore. 

Redshift e blueshift

 Matematicamente quanto detto si riassume nella seguente relazione: 
 z = Δλ/λ = (λoss - λ0)/λ0
La grandezza z che leggiamo ci dà lo spostamento dello spettro ma non ha ancora interpretazioni fisiche.
Cosa causa questo spostamento, osservato in molte regioni e oggetti dell’Universo? Ovvero: come legare il valore misurato di z a quantità fisiche?
Le cause responsabili dello spostamento sono molteplici, vediamo di analizzarle brevemente:

·                     Spostamento a causa dell’effetto doppler. È il fenomeno più conosciuto. Il redshift o il blueshift risultanti sono legati esclusivamente al moto relativo dell’osservatore e della sorgente. Lo spostamento interpretato come effetto doppler è quello che possiamo osservare analizzando il moto delle stelle di una galassia, del gas che ruota intorno a un buco nero, della superficie del nostro Sole e di tutti gli oggetti in rotazione. Tutti i corpi celesti che si muovono rispetto a noi su un percorso non perfettamente perpendicolare alla nostra linea di vista manifestano uno spostamento dello spettro verso il rosso se si allontanano, verso il blu se si avvicinano.
Capito quindi il meccanismo fisico alla base, possiamo legare il valore z alle quantità fisiche individuate e fargli assumere un significato un po’ più profondo.
Lo spostamento misurato dello spettro è direttamente proporzionale alla componente della velocità lungo la linea di vista, detta anche velocità radiale. Per velocità relative basse, minori del 30% di quelle della luce, la formula che lega z alla velocità radiale è allora la seguente: 
 z = Δλ/λ = (λoss - λ0)/λ0 = vr/c
Conoscendo quindi z, in tutte le situazioni astronomiche in cui gli spostamenti dello spettro sono interpretabili solo come effetto doppler, risaliamo alla velocità radiale dell’oggetto a prescindere dalla distanza alla quale si trova: un gran bel colpo!
Questa misura ci consente di fare luce su un'enorme quantità di fenomeni: possiamo capire a quale velocità ruotano le stelle in qualsiasi galassia, costruire il periodo di rotazione delle stelle, persino individuare la traccia di pianeti extrasolari analizzando le piccole perturbazioni nella velocità delle stelle.

Dopo aver fatto un bello sforzo mentale per comprendere la relazione vista e le conseguenze, ci vuole un po' di coraggio da parte mia nel dirvi che la formula è, in parte, sbagliata. La relazione vista (ma non le conseguenze!) che lega il redshift z alla velocità radiale è valida solamente per basse velocità. Quando le velocità in gioco sono paragonabili a quelle della luce (a cominciare da circa il 30%), bisogna utilizzare la teoria della relatività ristretta di Einstein, che afferma che la velocità della luce è un valore limite che non può essere né superato, né addirittura raggiunto da un corpo dotato di massa.
Per velocità elevate, superiori a qualche migliaio di chilometri al secondo, la formula appena vista non è corretta: essa infatti ammette, teoricamente, ogni valore per la velocità radiale, cosa che invece non è possibile.
La formula relativistica si ottiene imponendo semplicemente che la velocità della luce sia costante per ogni sistema di riferimento inerziale ed è la seguente:
z = Δλ/λ = (λoss - λ0)/λ0 = √[(1+vr/c)/(1-vr/c)].
Non voglio che la impariate (non la conosco nemmeno io a memoria!), ma che capiate, ancora una volta, che bisogna considerare tutte le variabili e che semplificare troppo nella scienza (nella ricerca e nella divulgazione) può portare a errori e pericolosi fraintendimenti. Per il momento, però, basta capire che lo spostamento dello spettro interpretato come effetto doppler lo lega alla velocità relativa tra sorgente e osservatore.
Purtroppo questo non è l'unico effetto fisico che produce lo spostamento dello spettro luminoso dei corpi celesti. Un altro, fondamentale, è il seguente:

·                     Spostamento a causa dell’espansione dell’Universo. In questo caso lo spostamento è solamente verso il rosso. Il parametro z adesso non identifica più moti di stelle o galassie, ma un concetto fisico diverso, il redshift cosmologico, che non è più l’effetto del moto relativo della sorgente e dell’osservatore, ma dell’espansione dell’Universo stesso. La creazione di nuovo spazio tra sorgente e osservatore, meglio, un suo stiramento, produce come effetto un apparente moto di allontanamento che si manifesta con uno spostamento verso il rosso dello spettro elettromagnetico della sorgente. Sebbene la misura sia la medesima dello spostamento causato dall’effetto doppler, il legame a quantità fisiche è ora totalmente diverso (almeno concettualmente) rispetto alla formula che spiega l’effetto doppler. Il redshift cosmologico e quello per effetto doppler si manifestano allo stesso modo ma descrivono grandezze fisiche diverse.
Il redshift cosmologico è direttamente legato alla cosiddetta velocità di recessione (non più a quella radiale quindi), alla velocità con la quale un oggetto, a causa dell’espansione dell’Universo, sembra allontanarsi da noi.
Sebbene in apparenza l’effetto dell’espansione dello spazio sia analogo a quello di un moto proprio, ora la relazione che contiene questo tipo di redshift non può più contenere la velocità radiale del corpo celeste, ma quella (apparente) di recessione.
Per piccoli valori, inferiori a 1, il redshift cosmologico è interpretato ancora come effetto doppler, ma la velocità radiale ora diventa velocità di recessione, e questa è legata alla famosa legge di Hubble
v = H0D:
z = Δλ/λ = (λoss - λ0)/λ0 = vrec/c = H0D /c
dove D = distanza in parsec (1 parsec = 3,26 anni luce), c = velocità della luce.
In questa situazione il redshift cosmologico è funzione della distanza, contrariamente a quello prodotto dai moti propri. Questa è una legge molto potente, perché ci consente di conoscere la distanza di un oggetto (a patto che sia più lontano di qualche milione di anni luce) a partire dalla misura di z. Tuttavia, è bene ricordarsi il limite di z per cui abbiamo ricavato la relazione. In effetti, proviamo a calcolare la distanza di una delle galassie con maggiore redshift mai scoperte (z = 6,96) o la stessa radiazione cosmica di fondo, z ≈ 1300 e vediamo se i risultati che ne escono hanno senso.
Nel caso della galassia si ottiene 29 miliardi di parsec, quindi 94,5 miliardi di anni luce. Nel caso della radiazione cosmica di fondo addirittura 1,76∙1013 anni luce!
Questi valori, se assumiamo che l’Universo ha 13,7 miliardi di anni e che la luce ha potuto percorrere in questo tempo al massimo questa distanza, sono completamente sballati! 

Com'è possibile vedere un oggetto vecchio di 13 miliardi di anni alla distanza di 95 miliardi di anni luce? Se questa fosse la sua vera distanza, la radiazione emessa non avrebbe avuto ancora il tempo di raggiungerci!
La colpa di questo paradosso sta tutta dell’aver usato la formula classica per l’effetto doppler per dare l’interpretazione cosmologica del redshift z. Come nel caso precedente, la relazione non pone dei limiti alla velocità, che può essere anche maggiore di quella della luce, fatto che si verifica per valori z > 1.
Per velocità che approssimano quelle della luce, occorre utilizzare la formula relativistica vista nel punto precedente. 

A prescindere dalla formula utilizzata, esiste un altro problema di natura concettuale: la velocità di recessione è una velocità apparente, effetto osservabile dell’espansione dell’Universo. Concettualmente, quindi, è un errore studiarla secondo la relazione che descrive l’effetto doppler riferito a velocità reali e poi sostituire semplicemente la velocità radiale con quella di recessione, semplicemente perché nessuna galassia si allontana effettivamente l'una dall'altra, ma è lo spazio a "stirarsi".
Le relazioni viste forniscono quindi valori numericamente esatti, ma non trovano giustificazione concettuale e ora ve lo dimostro.
Il discorso è un po’ delicato, spero mi possiate seguire.
La teoria della relatività speciale ci dice che nulla può viaggiare più veloce della luce. Secondo questo principio abbiamo sviluppato la formula per l’effetto doppler relativistico per le velocità radiali vista in apertura di questo lungo post.
Nel caso della velocità di recessione, tuttavia, le cose non stanno proprio in questo modo. La velocità non è reale, è apparente: nessun corpo materiale in realtà si muove nello spazio a causa dell’espansione dell’Universo. Ne consegue che le proprietà della velocità di recessione non obbediscono alla teoria della relatività, in particolare non sono previsti limiti alla velocità con la quale sembrano allontanarsi le galassie.
La velocità di recessione e il tasso di espansione dell’Universo possono essere quindi anche maggiori della velocità della luce c.
È questo il punto per il quale non è concettualmente corretto considerare il redshift cosmologico come effetto doppler.
Noi vediamo e misuriamo un redshift legato a un effetto doppler relativistico che in realtà non esiste, ma è solo l’effetto dell’espansione dell’Universo: la velocità di recessione, in quanto apparente, non obbedisce alle leggi della relatività, ma quello che possiamo osservare (il redshift) sì. La formula quindi spiega l’effetto osservato giustificandolo con una causa sbagliata, o meglio, con una causa apparente.

Ma non è di certo finita qui, perché il significato in chiave cosmologica del redshift misurato, combinato con la non esistenza di limiti alla velocità di espansione, ci permette di rispondere a una domanda piuttosto delicata.
La prima è forse quella che sta girando nella testa di molti di voi: è possibile osservare un oggetto che si sta muovendo, a causa dell’espansione dell’Universo, a velocità maggiori di quelle della luce? La risposta è...nì. Molte delle porzioni di Universo che ora possiamo vedere si stanno attualmente allontanando da noi con una velocità apparente maggiore di quella della luce, ma non lo stavano facendo nel momento in cui hanno inviato la luce che ora, dopo miliardi di anni, giunge fino a noi.
La radiazione cosmica di fondo, ad esempio, non si espande ancora con una velocità apparente superiore a quella della luce, ma questo accadeva 13,4 miliardi di anni fa, il tempo impiegato dalla luce che osserviamo ora per raggiungerci!
Non dobbiamo mai dimenticare che stiamo osservando il passato degli oggetti e che il presente potrebbe essere ben diverso.

In effetti, se riuscissimo a scattare un’istantanea dell’Universo del tempo presente, scopriremmo che attualmente il limite per cui la velocità di recessione è superiore a quella della luce si trova a una distanza che corrisponde a un redshift pari a z = 1.4: tutti gli oggetti oltre questo confine attualmente sembrano muoversi a velocità superiori a quelle della luce nel vuoto. Noi continuiamo a vedere la loro immagine del passato semplicemente perché miliardi di anni fa, quando i fotoni hanno lasciato l’oggetto, la velocità di recessione rispetto a noi non era ancora superiore a quella della luce perché l'Universo era molto più piccolo. Una volta che la radiazione elettromagnetica lascia l’oggetto, non ha più alcuna relazione con esso (ecco la grande differenza tra redhsift per effetto doppler e quello cosmologico!) e si limita a trasportare le informazioni presenti nel momento in cui è stata generata, variando la propria lunghezza d'onda in modo continuo mentre viaggia nello spazio che si sta stirando, fino a raggiungere i nostri occhi.
Questo significa che un giorno non vedremo più questi oggetti?
Esattamente! Quando, con il trascorrere del tempo, arriveremo vicini all’istante in cui dovremmo ricevere i fotoni emessi quando il moto apparente si è trasformato in superluminale, vedremo l’oggetto affievolirsi lentamente per poi scomparire.
C’è allora anche un'altra domanda:
Com’è possibile che la velocità di recessione cambi con il tempo? Questo apre nuovi scenari sui modelli di Universo considerati? Assolutamente no, perché, come detto, la velocità di recessione è apparente ed è tanto più elevata quanto maggiore è la distanza tra gli oggetti considerati. La sua variazione non implica un cambiamento nel tasso di espansione dell’Universo, quest’ultimo parametrizzato dalla costante dei Hubble (che poi, forse, tanto costante non è), piuttosto è proprio il risultato del fatto che le distanze reciproche tra le galassie si modificano.

In conclusione: la velocità di recessione e quella radiale non hanno nulla in comune, sono due grandezze completamente diverse. Per una comodità e per spiegare le proprietà dello spostamento, che dipendono unicamente dalla velocità, sebbene apparente, la velocità di recessione è interpretata come redshift per effetto doppler;  in questo modo la relazione che si ricava è semplice e permette di mettere in evidenza alcune importanti proprietà dell’Universo, come appunto la legge di Hubble, valida, tuttavia, per redshift cosmologici inferiori all’unità.
Oltre questi limiti la stessa legge di Hubble cessa di essere valida.
 
·                     Redshift gravitazionale. Secondo la teoria della relatività generale, anche i fotoni sentono la forza gravitazionale espressa in termini di distorsione dello spazio-tempo a causa della presenza di masse. In parole (molto) semplici, la stessa luce sente la forza di gravità. Poiché i fotoni non hanno massa a riposo ma hanno energia, il che è equivalente, la forza di gravità fa diminuire la loro energia spostandone la lunghezza d’onda verso il rosso.
Questo fenomeno è chiamato redshift gravitazionale e non ha nulla a che vedere né con quello per effetto doppler, né, tantomeno, con quello cosmologico, sebbene l’effetto prodotto sia ancora lo stesso.
Il redshift gravitazionale è legato a quantità diverse, in particolare alla forza gravitazionale prodotta dal corpo celeste. Una formula semplice, ma approssimata, è la seguente: 
zgrav = Δλ/λ = (λoss - λ0)/λ0 ≈ (GM)/(c2r).