Il redshift, letteralmente spostamento verso il rosso (di cosa? un attimo di pazienza!), è un
punto chiave nel capire e spiegare alcuni importanti fenomeni dell’Universo. In
questo post cerco di chiarire meglio il suo significato alla luce delle
attuali conoscenze.
Con il termine redshift si intende, nel significato più generale, qualsiasi effetto di spostamento verso frequenze minori di una generica onda, dal
suono alla luce.
Nel caso della luce, e in generale della radiazione elettromagnetica, che è quello che ci interessa, con il
termine redshift (o blueshift)
si identifica una generica osservazione di uno spostamento verso il rosso (o il
blu) dello spettro emesso (e conosciuto con precisione) di una certa sorgente rispetto allo stesso spettro visto in una posizione di quiete (o in laboratorio).
Capire la causa fisica di questo spostamento a partire dall’osservazione dell’effetto e a quali grandezze fisiche è legato è un altro paio di maniche e richiede lo sviluppo di una teoria fisica in grado di interpretare correttamente i dati a disposizione. Senza un numero di indizi sufficientemente ampio, l’interpretazione fisica può non essere univoca, come accade proprio per il redshift cosmologico (lo vedremo tra poco).
Innanzitutto dobbiamo capire che qualsiasi spostamento di
frequenza di una certa onda elettromagnetica è il prodotto di un cambiamento
dell’energia dei fotoni a essa associati. Un’onda elettromagnetica può infatti
essere vista come un flusso di particelle, i fotoni, che possiedono una ben determinata energia: E = hν, dove h = costante di Planck,
ν = frequenza. Ogni fotone, quindi,
può considerarsi come la minima quantità di energia trasportata da una
qualsiasi onda elettromagnetica. Non esistono fotoni con energia frazionaria.
Il redshift o blueshift
prevede uno spostamento della frequenza associata a una qualsiasi onda
elettromagnetica, ergo, una variazione dell’energia che possiede ogni fotone.
Cosa provoca la variazione dell’energia dei fotoni emessi da una certa sorgente? Perché essi, pur essendo stati emessi con una determinata energia, a un osservatore possono apparire di energia completamente diversa? Cosa provoca, quindi, lo spostamento verso il rosso o il blu dello spettro elettromagnetico?
Cosa provoca la variazione dell’energia dei fotoni emessi da una certa sorgente? Perché essi, pur essendo stati emessi con una determinata energia, a un osservatore possono apparire di energia completamente diversa? Cosa provoca, quindi, lo spostamento verso il rosso o il blu dello spettro elettromagnetico?
Ci sono varie cause responsabili del redshift.
Andiamo per gradi e formalizziamo meglio quanto detto con le
parole, iniziando proprio dalla base. Possiamo innanzitutto definire il
generico spostamento verso il rosso (o il blu, ma in astronomia avremo quasi
sempre a che fare con il redshift)
come la differente posizione di una determinata riga di emissione e/o
assorbimento rispetto a una stessa sorgente o campione di laboratorio, che si
trova in condizioni di quiete rispetto all’osservatore.
Matematicamente quanto detto si riassume nella seguente relazione:
Redshift e blueshift |
Matematicamente quanto detto si riassume nella seguente relazione:
z = Δλ/λ = (λoss - λ0)/λ0.
La grandezza z che leggiamo ci dà lo spostamento dello spettro ma
non ha ancora interpretazioni fisiche.
Cosa causa questo spostamento, osservato in molte regioni e
oggetti dell’Universo? Ovvero: come legare il valore misurato di z a quantità
fisiche?
Le cause responsabili dello spostamento sono molteplici,
vediamo di analizzarle brevemente:
·
Spostamento a causa dell’effetto doppler. È il fenomeno più conosciuto. Il redshift o il blueshift
risultanti sono legati esclusivamente al moto relativo dell’osservatore e della
sorgente. Lo spostamento interpretato come
effetto doppler è quello che possiamo
osservare analizzando il moto delle stelle di una galassia, del gas che ruota
intorno a un buco nero, della superficie del nostro Sole e di tutti gli oggetti
in rotazione. Tutti i corpi celesti che si muovono rispetto a noi su un percorso non perfettamente perpendicolare alla nostra linea di vista manifestano uno spostamento dello spettro verso il rosso se si allontanano, verso il blu se si avvicinano.
Capito quindi il meccanismo fisico
alla base, possiamo legare il valore z alle quantità fisiche individuate e
fargli assumere un significato un po’ più profondo.
Lo spostamento misurato dello
spettro è direttamente proporzionale alla componente della velocità lungo la
linea di vista, detta anche velocità radiale. Per velocità relative basse, minori
del 30% di quelle della luce, la formula che lega z alla velocità radiale è allora la seguente:
Questa misura ci consente di fare luce su un'enorme quantità di fenomeni: possiamo capire a quale velocità ruotano le stelle in qualsiasi galassia, costruire il periodo di rotazione delle stelle, persino individuare la traccia di pianeti extrasolari analizzando le piccole perturbazioni nella velocità delle stelle.
z = Δλ/λ = (λoss - λ0)/λ0
= vr/c.
Conoscendo quindi z, in tutte le situazioni astronomiche in cui gli spostamenti dello spettro sono interpretabili solo
come effetto doppler, risaliamo alla velocità
radiale dell’oggetto a prescindere dalla distanza alla quale si trova: un gran bel colpo!Questa misura ci consente di fare luce su un'enorme quantità di fenomeni: possiamo capire a quale velocità ruotano le stelle in qualsiasi galassia, costruire il periodo di rotazione delle stelle, persino individuare la traccia di pianeti extrasolari analizzando le piccole perturbazioni nella velocità delle stelle.
Dopo aver fatto un bello sforzo mentale per comprendere la relazione vista e le conseguenze, ci vuole un po' di coraggio da parte mia nel dirvi che la formula è, in parte, sbagliata. La relazione vista (ma non le conseguenze!) che lega il redshift z alla velocità radiale è valida solamente per basse velocità. Quando le velocità in gioco sono paragonabili a quelle della luce (a cominciare da circa il 30%), bisogna utilizzare la teoria della relatività ristretta di Einstein, che afferma che la velocità della luce è un valore limite che non può essere né superato, né addirittura raggiunto da un corpo dotato di massa.
Per velocità elevate, superiori a
qualche migliaio di chilometri al secondo, la formula appena vista non è
corretta: essa infatti ammette, teoricamente, ogni valore per la velocità
radiale, cosa che invece non è possibile.
La formula relativistica si ottiene
imponendo semplicemente che la velocità della luce sia costante per ogni
sistema di riferimento inerziale ed è la seguente:
z = Δλ/λ = (λoss - λ0)/λ0
= √[(1+vr/c)/(1-vr/c)].
Non voglio che la impariate (non la
conosco nemmeno io a memoria!), ma che capiate, ancora una volta, che bisogna
considerare tutte le variabili e che semplificare troppo nella scienza (nella
ricerca e nella divulgazione) può portare a errori e pericolosi
fraintendimenti. Per il momento, però, basta capire che lo spostamento dello spettro interpretato come effetto doppler lo lega alla velocità relativa tra sorgente e osservatore.
Purtroppo questo non è l'unico effetto fisico che produce lo spostamento dello spettro luminoso dei corpi celesti. Un altro, fondamentale, è il seguente:
Purtroppo questo non è l'unico effetto fisico che produce lo spostamento dello spettro luminoso dei corpi celesti. Un altro, fondamentale, è il seguente:
·
Spostamento a causa dell’espansione
dell’Universo. In
questo caso lo spostamento è solamente verso il rosso. Il parametro z adesso non identifica più moti di
stelle o galassie, ma un concetto fisico diverso, il redshift cosmologico, che non è più l’effetto del moto relativo
della sorgente e dell’osservatore, ma dell’espansione dell’Universo stesso. La
creazione di nuovo spazio tra sorgente e osservatore, meglio, un suo stiramento, produce come effetto un
apparente moto di allontanamento che si manifesta con uno spostamento verso il
rosso dello spettro elettromagnetico della sorgente. Sebbene la misura sia la medesima
dello spostamento causato dall’effetto doppler,
il legame a quantità fisiche è ora totalmente diverso (almeno concettualmente)
rispetto alla formula che spiega l’effetto doppler.
Il redshift
cosmologico e quello per effetto doppler
si manifestano allo stesso modo ma descrivono grandezze fisiche diverse.
Il redshift cosmologico è direttamente legato alla cosiddetta velocità
di recessione (non più a quella radiale quindi), alla velocità con la quale un
oggetto, a causa dell’espansione dell’Universo, sembra allontanarsi da noi.
Sebbene in apparenza l’effetto dell’espansione
dello spazio sia analogo a quello di un moto proprio, ora la relazione che
contiene questo tipo di redshift non
può più contenere la velocità radiale del corpo celeste, ma quella (apparente)
di recessione.
Per piccoli valori, inferiori a 1, il
redshift cosmologico è interpretato ancora come effetto doppler, ma la velocità radiale ora diventa velocità di recessione, e questa è legata alla famosa legge di Hubble
v = H0D:
v = H0D:
z = Δλ/λ = (λoss - λ0)/λ0
= vrec/c = H0D /c,
dove D = distanza in parsec (1 parsec = 3,26 anni luce), c = velocità della luce.
In questa situazione il redshift
cosmologico è funzione della distanza, contrariamente a quello prodotto dai
moti propri. Questa è una legge molto potente, perché ci consente di conoscere la distanza di un oggetto (a patto che sia più lontano di qualche milione di anni luce) a partire dalla misura di z. Tuttavia, è bene ricordarsi il limite di z per cui abbiamo ricavato la relazione. In effetti, proviamo a calcolare la distanza di una delle galassie con maggiore redshift mai
scoperte (z = 6,96) o
la stessa radiazione cosmica di fondo, z ≈ 1300 e vediamo se i risultati che ne
escono hanno senso.
Nel caso della galassia si ottiene
29 miliardi di parsec, quindi 94,5 miliardi di anni luce. Nel caso della
radiazione cosmica di fondo addirittura 1,76∙1013 anni luce!
Questi valori, se assumiamo che
l’Universo ha 13,7 miliardi di anni e che la luce ha potuto percorrere in
questo tempo al massimo questa distanza, sono completamente sballati!
Com'è
possibile vedere un oggetto vecchio di 13 miliardi di anni alla distanza di 95
miliardi di anni luce? Se questa fosse la sua vera distanza, la radiazione
emessa non avrebbe avuto ancora il tempo di raggiungerci!
La colpa di questo paradosso sta
tutta dell’aver usato la formula classica per l’effetto doppler per dare l’interpretazione cosmologica del redshift z. Come nel caso precedente, la
relazione non pone dei limiti alla velocità, che può essere anche maggiore di
quella della luce, fatto che si verifica per valori z > 1.
Per velocità che approssimano quelle
della luce, occorre utilizzare la formula relativistica vista nel punto
precedente.
A prescindere dalla formula
utilizzata, esiste un altro problema di natura concettuale: la velocità di
recessione è una velocità apparente, effetto osservabile dell’espansione
dell’Universo. Concettualmente, quindi, è un errore studiarla secondo la
relazione che descrive l’effetto doppler
riferito a velocità reali e poi sostituire semplicemente la velocità radiale con quella di recessione, semplicemente perché nessuna galassia si allontana effettivamente l'una dall'altra, ma è lo spazio a "stirarsi".
Le relazioni viste forniscono quindi valori numericamente esatti, ma non trovano giustificazione concettuale e ora ve lo
dimostro.
Il discorso è un po’ delicato, spero
mi possiate seguire.
La teoria della relatività speciale ci dice che nulla può viaggiare
più veloce della luce. Secondo questo principio abbiamo sviluppato la formula
per l’effetto doppler relativistico
per le velocità radiali vista in apertura di questo lungo post.
Nel caso della velocità di
recessione, tuttavia, le cose non stanno proprio in questo modo. La velocità
non è reale, è apparente: nessun corpo materiale in realtà si muove nello
spazio a causa dell’espansione dell’Universo. Ne consegue che le proprietà
della velocità di recessione non obbediscono alla teoria della relatività, in
particolare non sono previsti limiti alla velocità con la quale sembrano
allontanarsi le galassie.
La velocità di recessione e il tasso
di espansione dell’Universo possono essere quindi anche maggiori della velocità della luce c.
È questo il punto per il quale non è
concettualmente corretto considerare il redshift
cosmologico come effetto doppler.
Noi vediamo e misuriamo un redshift legato a un effetto doppler relativistico che in realtà non
esiste, ma è solo l’effetto dell’espansione dell’Universo: la velocità di
recessione, in quanto apparente, non obbedisce alle leggi della relatività, ma
quello che possiamo osservare (il redshift)
sì. La formula quindi spiega l’effetto osservato giustificandolo con una causa
sbagliata, o meglio, con una causa apparente.
Ma non è di certo finita qui, perché
il significato in chiave cosmologica del redshift misurato, combinato con la
non esistenza di limiti alla velocità di espansione, ci permette di rispondere a una domanda piuttosto delicata.
La prima è forse quella che sta
girando nella testa di molti di voi: è possibile osservare un oggetto che si
sta muovendo, a causa dell’espansione dell’Universo, a velocità maggiori di
quelle della luce? La risposta è...nì. Molte delle porzioni di Universo che ora possiamo vedere si stanno attualmente allontanando da noi con una velocità apparente maggiore di quella della luce, ma non lo stavano facendo nel momento in cui hanno inviato la luce che ora, dopo miliardi di anni, giunge fino a noi.
La radiazione cosmica di fondo, ad esempio, non si espande ancora con una velocità apparente superiore a quella della luce, ma questo accadeva 13,4 miliardi di anni fa, il tempo impiegato dalla luce che osserviamo ora per raggiungerci!
La radiazione cosmica di fondo, ad esempio, non si espande ancora con una velocità apparente superiore a quella della luce, ma questo accadeva 13,4 miliardi di anni fa, il tempo impiegato dalla luce che osserviamo ora per raggiungerci!
Non dobbiamo mai dimenticare che
stiamo osservando il passato degli oggetti e che il presente potrebbe essere
ben diverso.
In effetti, se riuscissimo a scattare un’istantanea dell’Universo del tempo presente, scopriremmo che attualmente il limite per cui la velocità di recessione è superiore a quella della luce si trova a una distanza che corrisponde a un redshift pari a z = 1.4: tutti gli oggetti oltre questo confine attualmente sembrano muoversi a velocità superiori a quelle della luce nel vuoto. Noi continuiamo a vedere la loro immagine del passato semplicemente perché miliardi di anni fa, quando i fotoni hanno lasciato l’oggetto, la velocità di recessione rispetto a noi non era ancora superiore a quella della luce perché l'Universo era molto più piccolo. Una volta che la radiazione elettromagnetica lascia l’oggetto, non ha più alcuna relazione con esso (ecco la grande differenza tra redhsift per effetto doppler e quello cosmologico!) e si limita a trasportare le informazioni presenti nel momento in cui è stata generata, variando la propria lunghezza d'onda in modo continuo mentre viaggia nello spazio che si sta stirando, fino a raggiungere i nostri occhi.
Questo significa che un giorno non
vedremo più questi oggetti?
Esattamente! Quando, con il
trascorrere del tempo, arriveremo vicini all’istante in cui dovremmo ricevere i
fotoni emessi quando il moto apparente si è trasformato in superluminale, vedremo
l’oggetto affievolirsi lentamente per poi scomparire.
C’è allora anche un'altra domanda:
Com’è possibile che la velocità di
recessione cambi con il tempo? Questo apre nuovi scenari sui modelli di
Universo considerati? Assolutamente no, perché, come detto, la velocità di
recessione è apparente ed è tanto più elevata quanto maggiore è la distanza tra
gli oggetti considerati. La sua variazione non implica un cambiamento nel tasso
di espansione dell’Universo, quest’ultimo parametrizzato dalla costante dei
Hubble (che poi, forse, tanto costante non è), piuttosto è proprio il risultato del fatto che le distanze reciproche
tra le galassie si modificano.
In conclusione: la velocità di recessione e quella
radiale non hanno nulla in comune, sono due grandezze completamente diverse.
Per una comodità e per spiegare le proprietà dello spostamento, che dipendono
unicamente dalla velocità, sebbene apparente, la velocità di recessione è
interpretata come redshift per
effetto doppler; in questo modo la relazione che si ricava è
semplice e permette di mettere in evidenza alcune importanti proprietà
dell’Universo, come appunto la legge di Hubble,
valida, tuttavia, per redshift
cosmologici inferiori all’unità.
Oltre questi limiti la stessa legge di Hubble cessa di essere valida.
·
Redshift gravitazionale. Secondo la teoria della relatività
generale, anche i fotoni sentono la forza gravitazionale espressa in termini di
distorsione dello spazio-tempo a causa della presenza di masse. In parole
(molto) semplici, la stessa
luce sente la forza di gravità. Poiché i fotoni non hanno massa a riposo ma
hanno energia, il che è equivalente, la forza di gravità fa diminuire la loro
energia spostandone la lunghezza d’onda verso il rosso.
Questo fenomeno è chiamato redshift gravitazionale e non ha nulla a
che vedere né con quello per effetto doppler,
né, tantomeno, con quello cosmologico, sebbene l’effetto prodotto sia ancora lo
stesso.
Il redshift gravitazionale è legato a quantità diverse, in particolare
alla forza gravitazionale prodotta dal corpo celeste. Una formula semplice, ma
approssimata, è la seguente:
zgrav = Δλ/λ = (λoss - λ0)/λ0
≈ (GM)/(c2r).
Ciao, vorrei dissipare alcuni dubbi. Premettendo d'esser un neofita, sto da un po' di tempo a questa parte informandomi sulla teoria del Big Bang, che è poi quella maggiormente accreditata fra voi addetti ai lavori.
RispondiElimina1) Anzitutto, non m'è ben chiaro come venga calcolato il redshift. D'accordo sul fatto che c'è da tener conto della lunghezza d'onda del segnale luminoso promanato dalla sorgente celeste in esame ed osservato al telescopio (λoss), ma come ne avviene precisamente l'analisi spettroscopica? Come si ricavano, di grazia, questi spettri d'emissione? E quelli d'assorbimento che ruolo giocano in tutto l'ambaradan?
2) λ0, invece, sarebbe la lunghezza d'onda di "analoghe emissioni prodotte in laboratorio". Non ho capito cosa quel virgolettato - che ho preso da un qualche sito - significhi. Come determinate lo spettro relativo a λ0 da usare come metro di paragone per misurare il discostamento con la controparte osservata al telescopio (λoss)?
3) Per quanto riguarda il redshift cosmologico, se è vero che per far tornare la quadra quando Z assume valore molto elevati (nel tuo articolo fai menzione d'una galassia con Z = 6,96) basta ricorrere al fattore relativistico ɣ ("per velocità che approssimano quelle della luce, occorre utilizzare la formula relativistica vista nel punto precedente"), come si fa a sostenere che il vuoto spaziale si allunga o s'espande? Non ho capito come Hubble sia giunto a questa conclusione.
4) Se è vero che il redshift è un indicatore della distanza, perché le galassie a spirale mostrano spostamenti verso il rosso sistematicamente più elevati rispetto a quelle ellittiche anche se appartengono allo stesso gruppo? E perché le galassie compagne più piccole mostran sempre redshift più elevati rispetto a quella principale nonostante interagiscono le une con le altre? C'entra qualcosa il redshift gravitazionale, in questi casi?
Ho molto apprezzato la chiarezza espositiva dell'articolo, e proprio per questo Le chiedo, Dr. Gasparri: perché non pubblicare un libro di problemi di astronomia con le soluzioni 'ragionate'? Sono convinto che una talee iniziativa avrebbe un buon successo!
RispondiEliminaPer un redshift combinato (es. gravitazionale + espansione) i relativi z come devono essere combinati?
RispondiEliminaGrazie