lunedì 29 febbraio 2016

Quanto carburante consuma il Sole?



Una stella come il Sole ogni secondo trasforma in elio ben 594 milioni di tonnellate di idrogeno. Di questa quantità immensa circa 4 milioni di tonnellate, 4000000000 kg (!), sono convertite in energia secondo la relazione di Einstein E = mc^2. Di fatto la nostra stella perde 4 tonnellate di materia ogni secondo per alimentare il suo motore. 

Questo sembra un consumo elevatissimo per le nostre abitudini. Una macchina, infatti, consuma circa un litro di carburante, quindi poco meno di un chilo, in una ventina di minuti. Il razzo che ha portato l’uomo sulla Luna negli anni 60 bruciava 15 tonnellate di carburante al secondo, e infatti rimaneva acceso solo per un paio di minuti. Ma arrivare a 4 milioni di tonnellate al secondo è impossibile: ci vorrebbero 250 mila razzi come quelli che hanno portato l’uomo sulla Luna accesi contemporaneamente! 

Con questi numeri, allora, si potrebbe pensare che la vita del Sole sia di breve durata: il serbatoio, fondendo quasi 600 milioni di tonnellate al secondo, finirebbe presto. Invece no, perché la quantità di carburante disponibile nel nucleo del Sole è migliaia di miliardi di volte superiore e consente alla nostra stella di continuare a brillare per almeno 10 miliardi di anni, senza perdere un'apprezzabile quantità di massa rispetto all'inizio. Poiché il Sole e la Terra hanno circa 4,6 miliardi di anni, ci troviamo a malapena a metà della sua vita. Il Sole, quindi, è per noi come un uomo di circa 40 anni, ancora nel pieno delle sue energie.

giovedì 25 febbraio 2016

Onde gravitazionali e opposizione di Giove su Coelum astronomia

La rivista Coelum astronomia si è recentemente rinnovata diventando digitale e gratuita per tutti.
Nel numero appena uscito di Marzo sono presenti due miei articoli che vi consiglio di leggere, assieme agli altri interessanti contenuti (che, ripeto, sono tutti gratuiti!).

L'articolo di punta riguarda naturalmente le onde gravitazionali, con uno speciale di oltre venti pagine che cerca di far luce sulla storica scoperta annunciata l'11 febbraio scorso, sul significato per la fisica e l'astrofisica, su cosa ci aspetta nel futuro e su cosa siano queste misteriose onde di cui tanto si parla nell'ultimo mese.

Per gli appassionati di astronomia pratica c'è un altro mio articolo dedicato all'opposizione di Giove in cui lancio anche una sfida agli astrofotografi più esperti. Secondo i miei calcoli è possibile riprendere l'elusivo sistema di anelli del pianeta, anche con strumentazione amatoriale. Andate quindi all'articolo e cercate di procurarvi l'attrezzatura necessaria per tentare una ripresa che sarebbe storica, perché nessun astronomo dilettante ha mai ripreso un sistema di anelli diverso da quello di Saturno.
Mandate poi i vostri tentativi a me o alla redazione di Coelum e cerchiamo, insieme, di scrivere un'altra pagina storica dell'astronomia: certo meno importante delle onde gravitazionali, ma comunque entusiasmante, come tutte le sfide della vita!



lunedì 22 febbraio 2016

Quel punto luminoso sopra le nostre teste

Il passaggio della ISS nei pressi della costellazione di Orione
Un punto solca il cielo; luminoso quanto Giove, veloce come un aereo. Ma non è né un pianeta, né un aereo. La luce che vediamo è quella riflessa dal Sole perché lassù, a 400 km di altezza, è ancora giorno quando da noi è notte. Quel punto in movimento è il manufatto più grande e complicato mai collocato nello spazio. Sta lassù dal 1998, è abitato dal 2 Novembre 2000 e ci ricorda cosa può fare l’uomo quando decide di collaborare per assicurarsi un futuro migliore, a prescindere dalle futili differenze che a volte sembrano tanto importanti qui sulla Terra. Ricordiamocelo ogni volta che lo vediamo passare e fermiamoci a pensare che parte della nostra straordinaria storia è lassù, nello spazio, dentro la stazione spaziale internazionale; una storia che vive nel presente e pensa al futuro, impegnata a risolvere problemi che da questo limitato pianeta sembrano spesso più grandi di noi.

venerdì 19 febbraio 2016

Potremo mai raggiungere un pianeta extrasolare?

La risposta, purtroppo, almeno secondo le nostre conoscenze della fisica, è: no, almeno non nel modo in cui siamo abituati a pensare l'esplorazione spaziale umana (ad esempio le missioni lunari o i soggiorni sulla ISS).
Il pianeta extrasolare a noi più vicino dista circa 10 anni luce, quasi 100 mila miliardi di chilometri. Questo significa che impiegheremmo un decennio per raggiungerlo alla velocità della luce. Il problema è che nessun oggetto materiale può avere tanta fretta, così almeno ha deciso l'Universo quando si è dato le proprie regole: è la stessa fisica a dirci che nessun oggetto dotato di massa può raggiungere la velocità della luce ma solo avvicinarcisi. Come se non bastasse, la nostra tecnologia ci mette un bel carico perché attualmente siamo ben lontani dal raggiungere i limiti imposti dalla fisica.
Le astronavi attualmente più veloci viaggiano a circa 70.000 km/h, circa 20 km/s, contro i 300.000 km/s della luce: un bel divario!

Se inviassimo una sonda verso il pianeta extrasolare più vicino, impiegherebbe qualcosa come 200.000 anni per raggiungerlo, dieci volte più della storia dell’intera civiltà umana! Non possiamo quindi pensare di mandare una sonda automatica per esplorare da vicino un pianeta extrasolare, almeno non con questa tecnologia. Il problema è: esisterà una tecnologia rivoluzionaria in grado di farci attraversale le distanze tra le stelle, almeno con missioni robotiche e in poco tempo? Al momento non lo sappiamo ancora, ma la strada, se mai ci fosse, sarebbe molto lunga. 

Probabilmente il nostro destino, almeno per i prossimi secoli, sarà quello di ammirare da lontano, ma sempre con maggior dettaglio, questi intriganti corpi celesti. I telescopi di prossima generazione saranno in grado finalmente di riprendere la loro debolissima luce, milioni di volte meno intensa di quella delle stelle attorno alle quali orbitano. Strumenti sempre di maggiore precisione e sensibilità consentiranno di scoprire in modo chiaro tutta quell’invisibile flotta di pianeti terrestri, ancora per gran parte ignota. 

Una volta individuati i candidati ideali per ospitare forme di vita, sarà possibile dirigere verso di loro le potenti antenne del SETI, che si occupa di rilevare trasmissioni radio di origine extraterrestre, per confermare o meno l’esistenza di altre civiltà avanzate nell’Universo. Ma a un certo punto dovremo fermarci. Probabilmente l’Universo è troppo vasto per poterlo esplorare direttamente; le leggi fisiche attualmente conosciute sembrano evidenziare questa sensazione. E forse non è neanche un male, perché conosco almeno una civiltà che se avesse la possibilità di avvicinare un altro pianeta abitabile, e ricco di risorse come la Terra, non ci penserebbe due volte a colonizzarlo e sterminarne gli abitanti. È successo ogni volta che l’uomo europeo “avanzato” ha scoperto nuovi mondi: l’America, l’Africa, l’Oceania. E di certo, se ne avrà la possibilità, lo farà ancora, ma questa volta su scala cosmica.

giovedì 11 febbraio 2016

La scoperta del secolo: rivelate le onde gravitazionali


Per mesi si sono rincorsi pettegolezzi incontrollati, degni delle peggiori riviste scandalistiche. Notizie non confermate hanno rimbalzato dall’Italia agli Stati Uniti ma, al contrario del gossip della vita di tutti i giorni, riportavano tutte gli stessi dettagli, nonostante le fonti non si conoscessero. Già questo era un chiaro sintomo che qualcosa di vero poteva esserci, che la scoperta del secolo era davvero stata fatta. 


Questa ormai è storia vecchia che a nessuno più importa, perché con una conferenza stampa storica, un articolo che guadagnerà presto l’attenzione ditutti i futuri libri di fisica, astrofisica e cosmologia, e molto probabilmente un meritato Nobel per la fisica assegnato a tempo di record, i ricercatori dell’esperimento americano LIGO hanno confermato la prima, storica rivelazione di un’onda gravitazionale. Più sfuggenti dei già elusivi neutrini, che per decenni hanno dato indicibili grattacapi a fisici e astrofisici di mezzo mondo; più ricercate della materia oscura perché ipotizzate dal lontano 1916, cento anni fa esatti, da uno scienziato che tutti conosciamo: Albert Einstein, le onde gravitazionali erano diventate il sacro Graal della fisica, guadagnandosi, per la loro sfuggevolezza, persino un’aura di mistico mistero e di tacito scetticismo. Ma Einstein aveva ragione ancora una volta; ora lo possiamo dire con certezza. La mente del grande fisico era almeno 100 anni più avanti della strumentazione che sarebbe stata necessaria per confermare le sue previsioni teoriche ma alla fine, con una determinazione che meriterebbe anch’essa un sostanzioso riconoscimento, ce l’abbiamo fatta.


Gli scienziati del team di LIGO, esperimento americano, hanno riportato la rivelazione di onde gravitazionali associate a uno degli eventi più esotici e violenti dell’Universo: la fusione di due buchi neri. Due mostri di 36 e 29 masse solari, legati in un sistema binario sempre più stretto, hanno alla fine deciso di darsi il bacio mortale e fondersi per formare un unico oggetto di 62 masse solari. Distanti circa un miliardo e trecento milioni di anni luce, le onde gravitazionali sono state ricevute negli istanti precedenti la fusione, il 14 settembre 2015 alle ore 9:51 tempo universale. Poiché queste si propagano alla velocità della luce, stiamo parlando di un evento accaduto un miliardo e trecento milioni di anni fa. Le onde gravitazionali sono state ricevute da entrambi i rivelatori di LIGO, che consistono in due strumenti indipendenti distanziati da 3000 km, uno in Louisiana e l’altro nello stato di Washington. La natura del segnale registrato dagli strumenti sembra essere il tipico eco gravitazionale di un evento di tale violenza. Poco prima di fondersi, i buchi neri hanno emesso sotto forma di onde gravitazionali un’energia superiore a quella emessa da tutte le stelle dell’Universo. La quantità di energia emessa si può calcolare notando che il buco nero risultante ha una massa inferiore di 3 masse solari alla somma dei singoli buchi neri che l’hanno formato. Secondo la relazione di Einstein E = mc2, la massa mancante si è trasformata in energia. In pochi istanti sono state convertite in onde gravitazionali l’equivalente di tre soli, qualcosa di davvero incredibile.
I grafici presentati durante la conferenza stampa mostrano molto bene la tipica forma di onde gravitazionali che precedono gli istanti finali di un sistema molto stretto e massiccio e testimoniano l’ottima confidenza di rivelazione rispetto al rumore di fondo e la perfetta sovrapposizione dei dati provenienti da entrambi gli interferometri. Nel momento in cui due buchi neri sono sul punto di fondersi iniziano ad emettere onde gravitazionali di frequenza sempre maggiore, in un crescendo che si conclude con la loro fusione. Se potessimo sentire queste onde con le nostre orecchie, la situazione sarebbe simile a ciò che possiamo udire quando riempiamo una bottiglia d’acqua. All’inizio il suono è grave (bassa frequenza), poi quando l’acqua sta per arrivare in cima all’improvviso il suono diventa sempre più acuto fino al momento in cui la bottiglia trabocca e non si sente più nulla.

L'analisi dell'articolo pubblicato e reso disponibile a tutti (da salvare, stampare e incorniciare) conferma la soglia di rivelazione di 5,1 sigma, il che equivale a dire che la probabilità che il doppio segnale sia reale è superiore al 99,9999%: in pratica è molto reale.
Insomma, questa volta ci siamo. I dati in possesso degli scienziati di LIGO sembrano essere inattaccabili e chiari: le onde gravitazionali sono state rivelate davvero!


Il segnale registrato dai due interferometri di LIGO testimonia la prima rivelazione della storia di un’onda gravitazionale. Da notare la non contemporaneità degli eventi dovuti alla diversa distanza percorsa dalle onde gravitazionali per raggiungere i due rivelatori. Poiché queste si propagano alla velocità della luce, la misura del ritardo dà indicazioni sulla posizione della sorgente nel cielo.




La sovrapposizione delle misure effettuate dai due rivelatori distanti 3000 km, dopo aver corretto per la differenza temporale, è eccellente e questo conferma la natura reale del fenomeno.




Grazie alla triangolazione del segnale, questa è la zona in cui si è verificato l’evento di fusione dei due buchi neri che ha emesso ben 3 masse solari di energia sotto forma di onde gravitazionali: un evento potentissimo.



Cosa sono le onde gravitazionali?
Nel 1915 Albert Einstein terminò la stesura della teoria della relatività generale, a completamento di un lavoro iniziato oltre 10 anni prima con l’enunciazione della teoria della relatività speciale.
Sorvolando sui dettagli di questa meravigliosa teoria, Einstein stesso nel 1916 si accorse di un fatto curioso previsto dalla sua creatura: gli oggetti massicci sottoposti a un’accelerazione avrebbero dovuto emettere delle onde gravitazionali.
Ma cosa sono queste onde gravitazionali?
Per capirlo bene è meglio considerare una situazione che conosciamo senza dubbio meglio, pur con le dovute differenze, alcune delle quali verranno evidenziate nel seguito.
La teoria dell’elettromagnetismo suggerisce che l’oscillazione di una carica elettrica generi un’onda elettromagnetica. Questa non è altro che l’informazione in merito all’energia e alle proprietà della carica che l’ha creata, che si muove nello spazio alla velocità della luce. Un’onda elettromagnetica, quindi, è un fenomeno che trasporta informazione ed energia attraverso lo spazio. I nostri occhi riescono a percepire una piccola parte dell’enorme spettro delle onde elettromagnetiche sotto forma di luce. 
Possiamo immaginare la creazione di una generica onda in una situazione ancora più familiare per noi. Basta guardare la figura sotto, che ritrae la generazione di un'onda elettromagnetica, e immaginare di avere una lunga corda distesa sul terreno. Noi facciamo le veci della carica elettrica e teniamo in mano un capo della corda. Se lo facciamo oscillare velocemente in alto e in basso creaiamo un'onda che si propaga lungo la fune, proprio come un'onda elettromagnetica fa nello spazio.

Come generare un'onda

Bene, adesso diventa facile trasformare tutto in termini di gravità e magari, poi, capire perché la  rivelazione delle onde gravitazionali potrebbe aprire le porte a una rivoluzione entusiasmante per l’intera umanità.
La regola di base è infatti semplice: prendiamo una carica, la facciamo oscillare e creiamo radiazione elettromagnetica (i termini onda e radiazione sono di fatto sinonimi in questo contesto); prendiamo un oggetto massiccio, lo facciamo oscillare e cosa creeremo? Radiazione gravitazionale.
In linea teorica anche un corpo umano che saltella produce onde gravitazionali, tanto quanto una palla che rimbalza, ma non riusciremo mai a rivelarle. Il problema è che per generare onde gravitazionali misurabili, al contrario di quelle elettromagnetiche, ci servono oggetti molto massicci, perché la forza di gravità è incredibilmente debole, migliaia di miliardi di miliardi di miliardi di miliardi di volte più di tenue di quella elettromagnetica tra due protoni. I candidati ideali sono quindi una stella di neutroni o un buco nero stellare. Chi li fa oscillare? La gravità stessa, che a differenza della forza elettromagnetica ha un solo verso (non esistono masse negative): mettiamo i nostri oggetti massicci e compatti in un sistema binario stretto in modo che orbitino l’uno attorno all’altro ed ecco create le oscillazioni necessarie per generare un’onda gravitazionale.

Le onde gravitazionali sono distorsioni dello spazio-tempo
   
Una delle differenze più interessanti tra le onde elettromagnetiche e quelle gravitazionali (ce ne sono diverse ma per comprende il ragionamento non ci servono) riguarda il loro modo di interagire con lo spazio e questa è la chiave per comprendere come poterle rivelare. Se la luce è un’onda che si propaga nello spazio, le onde gravitazionali sono onde dello spazio stesso, che si manifestano come delle increspature, proprio come le onde di un lago quando vi gettiamo un sasso. Lo spazio, quindi, non è più solo un mezzo di propagazione statico, ma è ciò che varia fisicamente con il passaggio di un’onda gravitazionale.
Questo potrebbe sembrare un passaggio complicato, meglio approfondirlo.

Possiamo descrivere lo spazio-tempo (spazio e tempo sono infatti legati in un’unica “entità”) come una sottile, e per noi invisibile,  rete sulla quale sono poggiati i corpi celesti, che a causa della loro massa la incurvano generando la forza di gravità. È un concetto piuttosto forte questo, perché la nostra esperienza ci insegna che lo spazio debba essere vuoto e privo di energia. Invece non è così: lo spazio-tempo, per quanto vuoto e privo di interesse possa sembrarci, è la struttura sulla quale si sviluppano tutti i corpi e i fenomeni dell’Universo, proprio come per portare avanti le attività della società moderna servono strade, ponti e ferrovie. E come le nostre auto sono costrette a seguire le strade che abbiamo costruito per loro, tutti gli oggetti dell’Universo devono muoversi sulle strade invisibili costituite dalla struttura dello spazio-tempo. È facile immaginare una strada che si snoda su una superficie circa piana come quella terrestre (almeno su piccole distanze); meno facile, anzi, impossibile, immaginare una struttura quadridimensionale come è lo spazio-tempo, quindi non sforziamo troppo la nostra immaginazione e rimaniamo concentrati sul problema, trattandolo a due dimensioni fino a quando possiamo.

Tenendo in mente questa nuova definizione, possiamo ora capire il parallelismo tra il sasso nello stagno e le proprietà delle onde gravitazionali.
Il nostro bacino d’acqua piatto rappresenta il tessuto dello spazio-tempo, mentre l’oggetto massiccio che le crea può essere una bottiglia, più pratica del sasso per quello che vogliamo fare.
Se immergiamo la bottiglia senza muoverla, lo specchio d’acqua dopo un po’ torna nella posizione di quiete iniziale. Se iniziamo invece a far oscillare la bottiglia in alto e in basso vedremo che sulla superficie dell’acqua inizieranno a comparire delle onde, la cui lunghezza (o frequenza) è legata a quanto velocemente facciamo oscillare la bottiglia. Maggiore è la velocità di oscillazione, più “fitte” saranno le onde generate. Più pesante, quindi massiccia, sarà la nostra bottiglia e più grandi saranno le onde prodotte, a parità di frequenza di oscillazione.

Come immaginare le onde gravitazionali: un oggetto che oscilla in uno spechcio d'acqua calmo

Se costelliamo lo specchio d’acqua intorno a noi di palline poste a una distanza fissa le une dalle altre, al passaggio delle onde generate dalla bottiglia la loro distanza reciproca varierà, perché l’onda incresperà lo stagno e farà in modo che alcune palline si troveranno su una cresta e altre su un minimo. Attenzione: un’onda non trasporta materia, quindi le palline non vengono trascinate via, ma si limitano a galleggiare sull’acqua senza spostarsi tra di loro. Il passaggio dell’onda le fa solo oscillare in alto e in basso, cambiando la geometria del mezzo nel quale sono immerse ed è per questo motivo che la loro distanza varia, pur non essendosi fisicamente spostate rispetto al mezzo. Quando l’onda è passata e lo stagno torna fermo, la distanza tra le palline ritorna quella iniziale.

Come misurare le onde gravitazionali: poniamo delle "palline" ferme sulla superficie dello stagno e misuriamo la loro distanza reciproca. Quando passa un'onda la loro distanza varia, pur restando ferme rispetto al mezzo

Nel caso delle onde gravitazionali succede una cosa simile, sebbene più complicata da visualizzare. Un oggetto massiccio che oscilla immerso nello spazio-tempo produce delle onde che si manifestano come delle increspature del tessuto stesso. In pratica, lo spazio non è un’entità fissa che non varia mai, ma può allungarsi e contrarsi con la stessa modalità con cui possiamo increspare uno stagno. Degli oggetti che sono ancorati nella stessa posizione dello spazio-tempo possono variare la loro distanza perché a cambiare è la geometria stessa del “mezzo”.
Se abbiamo digerito questa nuova definizione di spazio, che di certo mal si accorda con la nostra comune esperienza (ecco perché abbiamo creato la scienza, perché l’esperienza inganna!), abbiamo capito tutto, persino come sperare di misurare il passaggio di un’onda gravitazionale.

 
Visualizzazione e propagazione dell'onda gravitazionale più semplice da creare (detta polarizzata linearmente)
 
Come si rivelano le onde gravitazionali?
Sembrerebbe tutto molto facile a questo punto: basta porre due (o più) oggetti a una distanza fissata, che possiamo misurare molto bene, e aspettare che il passaggio di un’onda gravitazionale increspi lo spazio-tempo modificando temporaneamente la separazione dei nostri due oggetti, senza che nessuno li sposti fisicamente.
In effetti è su questo principio che si basano tutti gli esperimenti che hanno l’obiettivo di misurare il passaggio di un’onda gravitazionale, ma la realtà ci presenta due problemi davvero molto, molto grossi.
Il primo problema è legato, ancora una volta, alla grande debolezza della forza di gravità. È infatti impossibile creare in laboratorio un’onda gravitazionale come invece possiamo fare con la luce, perché ci servono oggetti milioni di volte più massicci della Terra da far oscillare. Dobbiamo allora limitarci a osservare e aspettare che l’Universo ci presenti la situazione perfetta: buchi neri o stelle di neutroni che orbitano in un sistema molto stretto e a velocità prossime a quelle della luce.
Un sistema doppio formato da due stelle di neutroni sul punto di fondersi ruota con un periodo anche superiore alle 100 volte al secondo. Di conseguenza, la frequenza delle onde gravitazionali emesse sarà dello stesso ordine di grandezza e la lunghezza d’onda di circa 3000 km: enorme. Questa considerazione ci porta dritti al secondo problema, che per essere capito ha bisogno di un’altra variabile: l’intensità delle onde gravitazionali (la loro "altezza"), che è molto bassa anche per gli eventi più violenti dell’Universo. 
Continuando infatti il parallelo con lo stagno pieno di palline e la bottiglia che facciamo oscillare, possiamo cercare di misurare le onde generate agendo su due quantità: l’intensità e la distanza. Se l’onda è molto intensa e di una lunghezza non esagerata, per rivelarla sarà sufficiente posizionare due palline a qualche centimetro di distanza l’una dall’altra: tanto basta, infatti, all’onda breve e intensa per cambiare in modo drastico la loro separazione al suo passaggio. Se tuttavia l’onda è molto lunga e magari anche poco intensa, e le palline sono distanti tra di loro molto meno della lunghezza dell’onda, è possibile che la variazione della distanza non si riesca a misurare perché al di sotto della sensibilità degli strumenti usati. Se non vogliamo cambiare lo strumento per la misura, possiamo aumentare la distanza tra le palline, fino a una o diverse volte la lunghezza dell’onda che vogliamo osservare. In questo caso, in effetti, se tra una pallina e l’altra ci sono almeno un paio o più di onde, anche se queste fossero di intensità bassissima la grande separazione dell’apparato di misura garantirebbe una variazione delle posizioni ben misurabile. Questa è una regola generale: all’aumentare della separazione tra gli apparati di misura si incrementa lo spostamento causato dal passaggio delle onde, che può quindi essere rivelato in modo molto più semplice.

Tornando alle nostre onde gravitazionali, la loro bassa intensità e lunghissima lunghezza, di migliaia di chilometri nel migliore dei casi, ci presenta uno scenario un po’ sconfortante. Se per misurarle poniamo le nostre due palline separate da un solo metro di distanza, lo spostamento che subiranno al passaggio dell’onda sarà dell’ordine di 10-21 metri: un milione di volte inferiore delle dimensioni di un protone! Impossibile quindi misurarlo.
Come possiamo fare, in concreto, per sperare di rivelare un’onda gravitazionale? Anche se allungassimo a milioni di chilometri la separazione dell’apparato di misurazione, la combinazione grande lunghezza d’onda e scarsa intensità non produrrebbe spostamenti superiori a frazioni di atomo di idrogeno.
Non è possibile pensare di misurare una variazione di spazio così piccola con un normale metro o con un microscopio: ci serve qualcosa che riesca ad arrivare a queste precisioni, se esiste.
Il principio su cui ci si basano i rivelatori di onde gravitazionali è l’interferenza della luce. Uno strumento che sfrutta le proprietà delle onde elettromagnetiche per misurare separazioni piccolissime è chiamato interferometro ed è il righello più potente che possiamo avere in Natura.

L’interferometro si basa su due principi: 1) La velocità della luce è costante nel vuoto e 2) Le onde elettromagnetiche sono, appunto, delle onde. Se potessimo vedere con una velocità super rallentata un raggio di luce propagarsi nel vuoto, non ci apparirebbe come una minuscola pallina, ma come un’onda che oscilla fino a miliardi di miliardi (e ancora miliardi, volendo) di volte al secondo. Quando questo raggio di luce incide su uno schermo e viene quindi fermato, si può notare come i valori del campo elettrico associato (e di quello magnetico) dipendano dal punto dell’oscillazione che ha impattato con lo schermo.

Questa proprietà delle onde ci consente di misurare delle distanze piccolissime basandoci sul principio dell’interferenza. Prendiamo un raggio di luce monocromatico, ovvero composto di luce di un solo colore, lo scomponiamo in due raggi identici e perpendicolari e a questi facciamo fare lo stesso identico percorso, poi li facciamo tornare e li ricombiniamo insieme. Se la distanza percorsa è esattamente la stessa, le due onde si ricombineranno perfettamente in fase, ovvero i valori del campo elettrico e magnetico nel momento in cui si incontreranno saranno gli stessi: i massimi con i massimi e i minimi con i minimi. L’intensità totale, trascurando le perdite durante il tragitto, sarà pari all’intensità iniziale e uguale  alla somma dei due raggi.

Tutte le onde si combinano secondo i valori dell quantità che oscilla quando questa viene rivelata. Nel caso di due onde elettromagnetiche identiche, se queste percorrono distanze differenti prima di venir combinate, può accadere che i valori del campo elettrico (e magnetico) non siano più in fase. In questi casi misurerò un'intensità totale minore della somma delle intensità. E' il modo migliore che abbiamo per misurare le infinitesime variazioni di distanze prodotte dal passaggio di un'onda gravitazionale

Quando passa un’onda gravitazionale, però, le distanze percorse dai due raggi di luce perpendicolari non sono più le stesse, in particolare una direzione verrà leggermente contratta e l’altra allungata. Anche se la variazione fosse di una frazione impercettibile, quando questi torneranno indietro e si ricombineranno, le due onde non saranno più in perfetta fase perché entrambe spostate a causa del tragitto più lungo (o più corto) che hanno dovuto compiere. I massimi dell’una non coincideranno con i massimi dell’altra, così l’intensità totale sarà minore di quella iniziale e della somma delle intensità dei due raggi. Poiché la luce che osserviamo ha una lunghezza d’onda, ovvero la distanza tra due massimi, dell’ordine di qualche centinaio di nanometri, anche uno spostamento di una minuscola frazione di nanometro può essere facilmente misurato. Questo però non è ancora sufficiente per rivelare un’onda gravitazionale, perché con un percorso di qualche chilometro lo spazio verrebbe distorto di appena 10-18 metri, le dimensioni di un elettrone. Per questo motivo dobbiamo allungare il tragitto compiuto dai raggi di luce fino a diverse migliaia di chilometri. Se arrivassimo a qualche milione di chilometri, la variazione di distanze arriverebbe alla stratosferica quantità di 10-12

metri, 100 volte più grandi delle dimensioni tipiche di un nucleo atomico. Sarebbe bello e facile da fare su un pianeta piatto e con un’estensione infinita (o nello spazio), ma sulla Terra non si può. Per questo motivo negli interferometri vengono usati degli specchi, in modo da far allungare il tragitto dei raggi di luce senza per questo estendere la lunghezza dell’apparato di rivelazione di migliaia di chilometri. Non arriviamo ai milioni di chilometri, ma superiamo i 1000 chilometri (precisamente 1600 per LIGO).
Allungando la distanza che devono compiere i raggi, diminuendo la lunghezza d’onda utilizzata e incrementando la sensibilità di misura dell’intensità totale in modo da misurare anche piccolissimi cambi di fase, ecco che con questo metodo possiamo rivelare spostamenti addirittura inferiori alle dimensioni di un atomo, proprio la precisione richiesta per sperare di intercettare un’onda gravitazionale.

Effetto di distorsione dello spazio-tempo si un'onda gravitazionale che si propaga verso di noi. Una dimensione si allunga e l'altra, perpendicolare, si accorcia

Non basta tuttavia avere un apparato molto sensibile (la vita degli scienziati sperimentali è molto complicata!) ma anche e soprattutto eliminare o riconoscere tutte le fonti di disturbo che potrebbero produrre effetti superiori a quelli del passaggio di un’onda gravitazionale. E su un pianeta geologicamente attivo, abitato da oltre 7 miliardi di esseri umani e miliardi di animali che si muovono sulla superficie, la cosa è tutt’altro che scontata.

Schema di un interferometro per la misura delle onde gravitazionali, in questo caso dell'esperimento VIRGO, ora denominato EGO.

  
LIGO e gli altri interferometri
Tutti gli esperimenti per la rivelazione delle onde gravitazionali si basano sul principio dell’interferometria laser appena descritto. Alcuni misurano il tragitto percorso dai raggi di luce, altri  la posizione accurata di alcuni oggetti lungo il percorso, l’analogo delle palline che abbiamo utilizzato nell’esperimento della misura delle onde dello stagno, come LIGO. Tuttavia fino a questo momento nessuno strumento aveva raggiunto la sensibilità necessaria.
LIGO, autore della storica scoperta, è al momento l’interferometro più sensibile, complesso e potente del mondo. Nel settembre 2015 si sono completati i lavori che l’hanno reso molto più sensibile rispetto a prima (Advanced LIGO), nella speranza di riuscire a superare la soglia di rivelazione. Obiettivo che è stato raggiunto, addirittura prima della ripresa ufficiale dei lavori.
Nella configurazione attuale, LIGO è formato da due strutture identiche, separate da 3000 km, ognuna delle quali è un interferometro laser. Ogni interferometro possiede due bracci, uno perpendicolare all’altro, costituiti da tubi lunghi 4 chilometri, larghi 1,2 metri e all’interno dei quali si trova il vuoto più spinto che possiamo sperare di riprodurre sulla Terra, proprio per rendere costante la velocità della luce ed evitare fenomeni di diffusione a causa delle molecole di gas, che potrebbero falsare la lettura dei dati. Le due strutture poste agli antipodi degli Stati Uniti hanno il compito di aiutare i ricercatori nel distinguere un segnale di natura cosmica associato a onde gravitazionali dalle numerose interferenze di origine terrestre. Il passaggio di un’onda gravitazionale che si muove alla velocità della luce verrà quindi rivelato da entrambi gli strumenti, misurato nello stesso modo e a seconda della direzione dell’onda subirà dei ritardi dovuti alla diversa distanza che la perturbazione deve percorrere per raggiungere i due strumenti. Questo punto è cruciale perché la misura del ritardo di rivelazione tra i due strumenti aiuta a risalire alla direzione dalla quale proviene l’onda. La nostra tecnologia per la rivelazione delle onde gravitazionali, infatti, è ancora tanto acerba che siamo molto lontani dal costruire un vero e proprio osservatorio in grado, come i telescopi che rivelano la luce, di raccogliere e focalizzare la radiazione gravitazionale. Al momento ci accontentiamo di captarla senza focalizzarla, un po’ come una persona cieca si accontenterebbe di vedere un tenue e indistinto bagliore tenendo gli occhi ancora chiusi.

Sullo stesso principio si basa l’altro importante esperimento: VIRGO, recentemente rinominato EGO (European Gravitational Telescope), che si trova sul suolo italiano (ogni tanto abbiamo anche seri motivi per essere fieri del nostro Paese!), nei dintorni di Pisa, in particolare nel comune di Cascina. Come LIGO, anche l’ex VIRGO sta affrontando lavori di miglioramento della precisione che dovrebbero terminare quest’anno e consentirgli la rivelazione di onde gravitazionali.  EGO in un prossimo futuro farà anche parte di una rete mondiale, insieme a LIGO e agli altri due interferometri dedicati alla rivelazione delle onde gravitazionali: GEO600 in Germania e KAGRA, che sta per essere ultimato in Giappone. L'obiettivo è una collaborazione tra Paesi che possa portare a risultati sempre migliori.


Una complicata ricerca lunga più di un secolo
La corsa alle elusive onde gravitazionali ha alle spalle un secolo di tentativi falliti, alcuni in modo fragoroso, altri invece nascosti dal silenzio del tempo. Teorizzate addirittura da Poincaré, prima dell’arrivo della relatività generale, seguendo lo stesso filo logico delle onde elettromagnetiche con cui ho cercato di spiegarle in questo articolo, la loro reale esistenza venne fuori in modo del tutto naturale dalle equazioni della relatività generale, quando si descriveva il comportamento dello spazio-tempo prodotto da una massa in oscillazione. Si trattava di una previsione reale o di un artefatto matematico delle formule? Lo stesso Einstein nel tempo cambiò idea più volte a riguardo.
Quando un modello fisico fa delle previsioni di fenomeni del tutto sconosciuti, l’unica cosa che resta da fare è condurre degli esperimenti per capire se queste siano reali o meno, oltre a controllare accuratamente tutte le formule e i passaggi fatti per arrivarci.
La discussione restò su termini puramente teorici fino al 1969, quando il fisico Joseph Weber annunciò di aver rivelato le distorsioni dello spazio-tempo prodotte dalle ormai già leggendarie onde gravitazionali. Ora che conosciamo il finale di questo film, sappiamo dire con certezza che Weber si sbagliava. Il suo rivelatore era un grosso cilindro di alluminio che sosteneva avesse vibrato al passaggio di un’onda gravitazionale. Sapendo ora quanto sia difficile rivelare queste minuscole increspature, appare evidente l’innocente ingenuità di quell’esperimento, che sperava di creare da un’onda gravitazionale un suono udibile attraverso un grosso diapason messo in vibrazione.

Se la rivelazione diretta delle onde gravitazionali era condotta ancora con strumenti del tutto insufficienti per raggiungere lo scopo, la prima prova indiretta della loro esistenza si ebbe nel 1974. Joseph Taylor e un suo studente, Russell Hulse, osservarono l’evoluzione di un sistema doppio costituito da due stelle di neutroni in rapida rotazione. Notarono che la loro orbita si stava restringendo e avrebbe portato i due corpi celesti sempre più vicini, fino a fondersi. Chi stava togliendo energia a un sistema che avrebbe dovuto essere stabile? Proprio le onde gravitazionali. La loro intensa emissione in quelle circostanze tanto estreme stava letteralmente strappando al sistema l’energia che lo teneva in equilibrio. Il tasso di perdita di energia era in perfetto accordo con la teoria di Einstein. Per la prima volta, quindi, c’erano delle prove sperimentali: il grande genio, probabilmente, aveva ragione anche questa volta.
La scoperta valse ai due astrofisici il premio Nobel nel 1993 e aprì di fatto la più grande caccia a un fenomeno fisico mai vista nell’era moderna. 
Il primo, grosso, interferometro laser dedicato alla ricerca delle onde gravitazionali fu LIGO, la cui costruzione fu approvata nel 1990, terminata nel 1999 e reso operativo dal 2001. Seguì l’esperimento italo-francese VIRGO, completato nel 2003. Entrambi gli esperimenti furono accolti con freddezza o vera e propria ostilità dalla maggioranza della comunità scientifica estranea al campo di ricerca sulle onde gravitazionali, lamentando un grande investimento di risorse in progetti che con ogni probabilità avrebbero fallito nel loro lavoro. E così, puntualmente, è stato. I passati 10 anni hanno rappresentato probabilmente il periodo più duro della ricerca delle onde gravitazionali, con macchinari da centinaia di milioni di euro che non erano abbastanza sensibili per raggiungere lo scopo per il quale erano stati costruiti. Le strade possibili erano quindi due: abbandonare tutto con la certezza di aver fallito, o continuare e potenziare gli esperimenti sperando di riuscire a raggiungere la soglia di rivelazione. Se siamo qui a parlare della prima, storica, rivelazione, sappiamo come sono andate le cose, ma nel periodo della più grande crisi economica mondiale della nostra storia l’esito non era affatto scontato.
Ne fece ad esempio le spese l’ambiziosissima missione eLISA, che sarebbe dovuta chiamarsi LISA,  una collaborazione tra NASA ed ESA che doveva essere lanciata nel 2017 e disporsi in una formazione di tre satelliti distanziati da 5 milioni di chilometri. Ora la missione si chiama eLISA, dopo che la NASA si è tirata indietro per problemi economici; sarà composta da tre satelliti distanziati da 1 milione di chilometri e non si sa quando e se verrà lanciata, perché si è appena iniziata a testare la tecnologia necessaria per capire se questo esperimento potrà avere successo o meno (e questo doveva avvenire nel 2011).
Il momento più basso nella corsa alle onde gravitazionali arrivò due anni fa sotto forma di una delle armi più subdole puntate contro ogni scienziato sperimentale: una straordinaria illusione. Nel 2014 l'esperimento Bicep 2, dedicato allo studio delle proprietà della radiazione cosmica di fondo emessa dall’Universo circa 400 mila anni dopo la sua nascita, sembrò di aver rivelato le impronte delle onde gravitazionali emesse niente meno che dal Big Bang stesso, distribuite in un fondo che permea tutto il cielo, proprio come la radiazione cosmica. Pochi mesi dopo si scoprì che le conclusioni erano sbagliate: le tracce lasciate sulla radiazione cosmica di fondo erano reali ma non erano causate dalle onde gravitazionali primordiali, piuttosto dalle minuscole particelle di polveri presenti nella nostra Galassia.
Il resto è una storia tanto recente da chiamarsi cronaca: i più grandi interferometri, LIGO e VIRGO hanno superato il momento critico e sono stati migliorati in sensibilità. Il primo a concludere i lavori, nel settembre 2015, è stato LIGO che quindi si è aggiudicato, con merito, la scoperta del secolo.


Cosa significa questa scoperta?
Per capire la portata di questa prima rivelazione dobbiamo guardare ancora una volta alle onde elettromagnetiche e a cosa significano per noi.
Di fatto tutto, o quasi, l’Universo che possiamo vedere si basa sull’osservazione delle onde elettromagnetiche emesse, riflesse o assorbite dagli oggetti. Grazie alle onde elettromagnetiche possiamo osservare pianeti, stelle, nebulose, galassie, e riusciamo a risalire alle loro proprietà, perché ogni onda, nessuna esclusa, ha una bellissima caratteristica: trasporta con sé preziose informazioni sui luoghi e i meccanismi con cui è stata generata. Ecco allora che analizzando le onde elettromagnetiche provenienti dalle stelle siamo in grado di determinare la loro temperatura e i meccanismi fisici che le producono, nonché la precisa composizione chimica. Osservando le onde elettromagnetiche emesse dalle galassie possiamo dire quante stelle producono, qual è la loro massa, quanto sono vecchie, quanto gas contengono, quanto sono estese, dove e in che modo si muovono. È proprio dall’analisi delle onde elettromagnetiche che Hubble scoprì per primo l’espansione dell’Universo, grazie al fatto che tutte le galassie tendono ad allontanarsi dalla nostra. È per mezzo delle onde elettromagnetiche che scopriamo pianeti di altre stelle e le loro caratteristiche. Sono proprio le onde elettromagnetiche prodotte agli albori dell’Universo a dirci quanto è vecchio, quanta materia contiene, quanto potrebbe vivere e in che modo evolverà. Insomma, grazie a queste piccole cariche che oscillano noi dobbiamo la grandissima parte della conoscenza dell’astronomia (e non solo dell’astronomia). Senza poter rivelare le onde elettromagnetiche noi saremmo stati del tutto ciechi e non avremmo mai scoperto tutto quello che invece oggi sappiamo dell’Universo e del nostro mondo.
Nel corso degli anni non ci siamo limitati però solo a riceverle, ma abbiamo imparato anche a crearle e a manipolarle per migliorare la nostra vita.
La creazione di onde elettromagnetiche mediante l’oscillazione di cariche elettriche è alla base della nostra tecnologia: tv, radio, satelliti, wifi, bluetooth, radar, cellulari, forni a microonde... si basano tutti sul principio con cui si genera un’onda elettromagnetica. Non passa un giorno sulla Terra senza usare qualcosa che impieghi la manipolazione della radiazione elettromagnetica.

Rivelare le onde gravitazionali è quindi come per una persona vedere la luce per la prima volta, dopo una vita di cecità completa. E cosa si potrà mai scoprire dall’osservare per la prima volta una parte della realtà mai vista? Tutto.
Con la rivelazione delle onde gravitazionali non solo si è data una spettacolare conferma alla teoria della relatività generale, quindi ai principi base su cui interpretiamo i fenomeni dell’Universo, ma abbiamo aperto un vaso di Pandora che ci permetterà di osservare la realtà da un altro punto di vista del tutto differente. Le onde gravitazionali trasportano le informazioni sui fenomeni più violenti dell’Universo, che fino a questo momento abbiamo con estrema fatica solo iniziato a comprendere con il limitato aiuto delle onde elettromagnetiche. Le possibilità sono quindi infinite e potenzialmente rivoluzionarie. Potremo far luce sugli scontri tra buchi neri, sulla formazione e lo scontro delle galassie, sulla nascita e sulle proprietà dell’Universo stesso, persino sull’esistenza della materia oscura e dell’energia oscura. Allo stesso tempo potremo capire come si comporta la forza di gravità in ambienti che non riprodurremo mai in laboratorio e confermare, o smentire, le nostre conoscenze fisiche sulla forza che domina tutto l’Universo.
È quindi un momento epocale. È come se fino a questo momento avessimo guardato il mondo sempre dalla stessa, limitata finestra e ora avessimo a disposizione una visione del tutto nuova da un punto di vista completamente diverso rispetto a prima: ora riusciamo a vedere ciò che fino a ieri era invisibile. E sebbene l’utilità pratica della scoperta delle onde gravitazionali potrebbe non essere immediatamente alla nostra portata, torniamo indietro alla metà dell’800 in un laboratorio inglese in cui un certo Maxwell faceva esperimenti sugli strani fenomeni elettrici e magnetici, ignorando del tutto cosa avrebbe significato per l’umanità la comprensione che stava regalando al mondo. Sono sicuro che in una circostanza del genere il nostro viso si tingerebbe del sorriso più profondo della storia; una smorfia che nasconderebbe 150 anni di una rivoluzione sociale e tecnologica che quell’ingenuo fisico non avrebbe mai potuto immaginare.
Siamo di fronte a una rivoluzione nell’astrofisica della stessa portata di quella dell’invenzione del telescopio, ma siamo anche testimoni in prima linea dell’impetuoso progresso scientifico che il genere umano ha compiuto nell’ultimo secolo; qualcosa che nella nostra storia non si era mai visto. Stiamo riuscendo nell’impresa più difficile di tutte: comprendere il funzionamento dell’Universo. E se non è meraviglioso questo, non so cos’altro possa esserlo.


Il futuro: eLISA
Il futuro dell’astrofisica delle onde gravitazionali è ancora più entusiasmante del presente e di certo da questa scoperta riceverà una grande spinta economica.
Nel dicembre scorso è stata lanciata la missione LISA Pathfinder, una sonda con il compito di testare la strumentazione e la precisione per l’esperimento più grande, complesso e ambizioso della storia dell’umanità.
Se tutto andrà bene, la successiva missione eLISA sarà formata da un gruppo di tre satelliti indipendenti  che orbiteranno intorno al Sole a formare un triangolo equilatero immaginario con lati di un milione di chilometri. Ogni satellite sarà dotato di un cubo di 4 kg di oro e platino che fluttuerà liberamente nello spazio; tutti e tre saranno collegati da altrettanti laser, con il compito di controllare la posizione dei rispettivi cubi.
Grazie alla grande distanza che separerà i rilevatori, il passaggio di un’onda gravitazionale dovrebbe essere in grado di generare uno spostamento tipico di 10-12

metri, di gran lunga superiore alla sensibilità di LIGO e consentirà di rivelare onde gravitazionali con maggiore facilità e con diverse frequenze, provenienti da centinaia, o migliaia, di corpi celesti.
Tutto questo sembra davvero fantascienza: misurare uno spostamento di 10-12

metri di due masse di platino e oro fluttuanti nello spazio a un milione di km l’una dall’altra e collegate da un raggio laser, mentre orbitano ad una velocità prossima a 30 km/s.
Viviamo davvero in un’epoca eccezionale per alzare gli occhi al cielo e chiedersi cosa ci sia lassù, oltre i limiti dei nostri occhi e dei nostri fragili corpi.
Spettro teorico delle onde gravitazionali associate ad alcuni fenomeni dell'Universo, con sovraimpresse le curve di sensibilità degli strumenti attuali e di quelli in costruzione. Il futuro dell'astrofisica gravitazionale è appena iniziato!



lunedì 8 febbraio 2016

Le colline galleggianti di Plutone

Immaginate un mondo lontano e freddo, al punto che persino gran parte dell'aria che stiamo respirando congelerebbe al suolo.
Tutto questo ghiaccio ci accecherebbe se il Sole fosse brillante come nelle migliori giornate in montagna, ma qui le cose sono molto diverse. Anche nel mezzo di un giorno, che dura 153 ore, la luce è così fioca che sembra di osservare tutto il panorama attraverso uno spesso strato di nuvole nere, che però non ci sono. Le ombre sono tenui, sebbene scurissime, i contrasti deboli, il cielo è nero, con le stelle sia di giorno che di notte, e l'orizzonte si estende per centinaia di chilometri, offuscato in modo impercettibile da una tenue foschia. Il Sole è un luminoso punto lontano, decine di migliaia di volte più debole di quello terrestre.

Su questo mondo le montagne più alte, fino a qualche migliaio di metri, non sono ricoperte di ghiaccio, ma sono fatte di ghiaccio d'acqua, che a 230 gradi sotto zero è duro quanto la roccia.
Questi mostri di ghiaccio dalle pareti scoscese e pieni di crepacci sembrerebbero ben ancorati al suolo, eppure non è così. In una grande pianura ricoperta da un tappeto di fregile azoto ghiacciato, delle colline di ghiaccio d'acqua galleggiano su di esso e lentamente si spostano da un punto all'altro del pianeta.

Che mondo strano, vero? Sembra la descrizione di una scena di qualche film fantasy nei quali non è raro trovare montagne galleggianti. Eppure questa è la realtà: quel mondo è Plutone.

Le ultime immagini rilasciate dalla sonda New Horizons, che l'ha sorvolato a 12 mila chilometri di distanza il 14 Luglio scorso, mostrano una situazione ai limiti della realtà.
La regione denominata Sputnik Planum è una grande pianura ricoperta da azoto ghiacciato, costellata qua e là da colline composte dal ben più duro ghiaccio d'acqua. Questo è meno denso del ghiaccio di azoto e quindi si ritrova a galleggiare sullo strato sottostante come un iceberg dei nostri oceani.
Il ghiaccio di azoto che ricopre la pianura non è uno strato unico ma è composto da tante celle soggette a moti convettivi, un po' come accade alla granulazione sulla superficie del Sole o in una più comune pentola che bolle. I moti convettivi all'interno di queste celle spostano le colline di ghiaccio d'acqua e le fanno ammassare in gruppi lungo i loro confini, formando delle piccole catene montuose di qualche decina di chilometri di diametro.
Queste montagne di ghiaccio d'acqua si pensa vengano staccate dai movimenti dei ghiacciai di azoto dalle catene montuose che circondano Sputnik Planum e una volta giunte nella grande pianura cominciano a spostarsi a seguito dei movimenti dell'azoto.
Plutone non sarà più ufficialmente un pianeta, ma mostra un'attività geologica più complessa di molti dei fratelli più nobili. E a quasi 6 miliardi di chilometri di distanza dal Sole nessuno si sarebbe aspettato un mondo tanto interessante quanto strano.

giovedì 4 febbraio 2016

Uno spettacolare panorama marziano

Se avete visto il film The Martian (Il Sopravvissuto), e se non lo avete ancora fatto fatelo subito, è probabile che vi siate persi, proprio come Mark Whatney, nell'osservare l'affascinante desolazione del panorama marziano, con dune di finissima sabbia che si perdono a vista d'occhio, interrotte solo dalle crude e appuntite rocce di color rosso ruggine, sotto un cielo che a volte si tinge di un pallido rosa perlaceo.

I panorami del protagonista del film erano una ricostruzione (e a volte neanche tanto accurata) di quello che potremmo trovare lassù, su un pianeta distante in media 100 milioni di chilometri dalla Terra. Eppure questa volta la realtà supera la fiction, perché su Marte ci sono al momento due rover perfettamente funzionanti che scorrazzano sulla superficie da diversi anni. Il più recente, grande e potente, Curiosity, ci regala allora un panorama impressionante, ripreso il 19 Dicembre scorso, che ci fa sentire al centro della scena e ci proietta sul pianeta rosso, senza passare per la finzione del cinema.

Con lo sguardo che spazia a 360° e ci permette di osservare dettagli fino a 40 e più chilometri di distanza grazie alla rarefatta atmosfera marziana, questo è il panorama più impressionante che abbia mai visto in vita mia di un altro pianeta del sistema solare. E anche se ormai siamo stati anestetizzati da anni e anni di finzioni cinematografiche, effetti speciali di ogni tipo e ogni situazione possibile, ricordiamoci che questo panorama, anche se ci ricorda scenari già visti in videogiochi e film, ha qualcosa di unico: è reale.

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lunedì 1 febbraio 2016

Guida per diventare astronomi (o astrofisici)



Tante persone mi chiedono come si diventa astronomi, quale sia il miglior percorso di studi e quali i requisiti per affrontarlo nel migliore dei modi e non lasciarsi travolgere finendo tra la folta schiera degli studenti fuori corso e privi di prospettive. In un precedente post ho dato delle indicazioni di massima; ora è arrivato il momento di fare sul serio.

La prima domanda: chi è e cosa fa un astronomo?
La definizione migliore in realtà non è più astronomo ma astrofisico e questa ci dà già una migliore idea della situazione. Un astrofisico è una persona, curiosa di natura, che cerca di scoprire le leggi fisiche che governano l’Universo. In pratica, è un fisico a tutti gli effetti, solo che invece di indagare situazioni terrestri si proietta nelle profondità dello spazio.
L’astronomo di un tempo, quella figura un po’ tuttologa che utilizzava un telescopio per fare le più disparate scoperte, non esiste più: l’astronomo moderno, l’astrofisico, è di fatto un topo da laboratorio o, meglio, da ufficio. Non si osserva più al telescopio e la materia è ormai così vasta che non ci si può più occupare di tutti i campi dell’astronomia. Ci sono allora astrofisici specializzati nello studio dei pianeti (planetologi), delle stelle (astrofisici stellari), astrofisici impegnati nello studio delle galassie o dei moti dei gas tra le galassie (detti dinamici). Ci sono astrofisici osservativi, che programmano delle osservazioni (che però non fanno loro) e analizzano poi i dati, oppure ci sono astrofisici teorici che con penna e foglio, o un potente computer, creano modelli o vere e proprie simulazioni di alcuni fenomeni dell’Universo, ad esempio lo scontro tra due galassie o la nascita stessa del Cosmo, per capire se le leggi usate si accordano con i dati osservativi. Se la vostra idea dell’astronomia è quella di osservare il cielo con il telescopio o fare foto per scoprire nuovi oggetti o navigare nell’immensità del Cosmo, siete purtroppo molto lontani dal concetto di astrofisico moderno e molto più vicini a quello di astronomo amatoriale, un appassionato che con la propria strumentazione può in effetti dedicarsi al lavoro di puntamento e osservazione diretta che molti astronomi professionisti facevano fino a circa cinquanta anni fa.

Sebbene con modalità differenti, il lavoro dell’astrofisico consiste sempre nello scoprire, nel dare sfogo alla propria sete di conoscenza e di spiegare il comportamento di corpi e fenomeni che nessuno ha mai visto o ancora compreso. E di cose da scoprire ce ne sono tantissime: dai miliardi di pianeti solo nella Via Lattea, alcuni probabilmente abitati, al comportamento misterioso dei giganteschi buchi neri al centro delle galassie; dalla storia dell'Universo allo scoprire il 90% della materia che abbiamo chiamato oscura perché non sappiamo di cosa sia fatta.
Si tratta, come ogni lavoro di ricerca, di navigare in ambiti inesplorati, per la prima volta nella storia del genere umano. Nessuno sa cosa troverà, come interpretare i dati e se le osservazioni sono state fatte nel modo giusto. All'università si conosce e si apprende solo il metodo e le basi necessarie per arrivare al limite delle nostre conoscenze: tutto il resto è sconosciuto per definizione, altrimenti non sarebbe più ricerca. Gran parte di questo lavoro ormai si fa stando davanti a un computer per diverse ore al giorno e dall’esterno appare quindi come un (quasi) comune lavoro d’ufficio.
Se ancora siamo convinti di voler diventare astrofisici, e ora almeno sappiamo cosa vuol dire, passiamo allora alla prossima domanda, che poi è il succo di questo articolo.

Come si diventa astrofisici?
Il percorso di studi è lungo, irto di ostacoli e impegnativo, ma su questo sarò più specifico rispondendo alla prossima domanda.
Per diventare astrofisici, ovvero dei ricercatori, sono tre le tappe da seguire, una volta terminati gli studi alle scuole superiori:
1)      Laurea triennale in astronomia (presente solo a Bologna o Padova) o in fisica. Questo primo passo fornirà le basi matematiche, fisiche e metodologiche per poter proseguire con la specializzazione;
2)      Laurea magistrale in astrofisica. E’ in questi due anni successivi alla laurea triennale che ci si specializza nella materia scelta, nel nostro caso l’astrofisica. Il requisito fondamentale è avere una laurea triennale in astronomia o in fisica: non si fa differenza tra questi due corsi, sebbene i laureati in astronomia avranno la vita più semplice perché avranno anche delle conoscenze astrofisiche di base che faranno risparmiare tempo ed energie nell’affrontare qualche materia. I corsi sono in genere molto interessanti e ben più semplici di quelli, lunghi e snervanti, che avranno regalato non pochi incubi e crisi nervose durante la laurea triennale. Tuttavia, il la laurea magistrale è molto impegnativa a causa della quantità di nozioni da apprendere e progetti da presentare. Non è raro passare notti sui libri, non farsi vedere dagli amici per settimane o ritrovarsi in un laboratorio dalla mattina alle 9 a oltre la mezzanotte. Di fatto è un vero e proprio lavoro, anzi, è più impegnativo di un lavoro perché si lavora sempre, non si hanno fine settimana liberi, né vacanze, né tantomeno le ferie. Certo, nessuno minaccerà licenziamenti o provvedimenti disciplinari e nessuno ci pagherà, anzi saremo noi a sborsare circa 200 euro al mese di tasse universitarie, ma se vogliamo avere un futuro in questo mondo dovremo passare sopra a tutto, impegnarci per ben più di otto ore al giorno e laurearci con il massimo dei voti. Terminati questi due anni il percorso di studi è completato, ma per diventare ricercatori è necessario imparare il mestiere. In che modo?
3)      Dottorato di ricerca. Sono tre anni in cui lo studente si trasformerà in ricercatore. Lavorando in gruppi di ricerca si imparerà il mestiere e i metodi con cui un astrofisico cercherà di indagare la realtà. È quindi una tappa molto importante alla quale non ci si può sottrarre. Ogni studente deve scegliere l’ambito della propria ricerca su cui effettuerà il dottorato, che sarà possibile fare in Italia o in Europa, tranne l’Inghilterra, senza alcuna limitazione. Nei paesi anglosassoni, invece, (compresi Australia e Stati Uniti) potranno essere richiesti dei corsi aggiuntivi che potrebbero allungare di uno o due anni il percorso. Se si è bravi, un dottorato è retribuito con una borsa che consente una minima indipendenza economica, almeno in Italia. Cosa significa essere bravi? Al dottorato si accede tramite un concorso e una successiva graduatoria. A fare la differenza è il voto della laurea magistrale e il tempo che si è impiegato a terminare gli studi. Spesso sentiamo dire che il voto di laurea non è importante nell'ambito lavorativo privato, ma se si vuole proseguire nell'ambito accademico è FONDAMENTALE. La concorrenza con gli altri studenti è spietata, perché non ci saranno mai abbastanza posti di dottorato pagati per tutti i candidati. Il consiglio quindi è quello di darsi da fare ancora di più e arricchire il proprio curriculum durante il periodo di laurea magistrale. Qualche attività extra, come una pubblicazione scientifica, che magari deriva da una tesi impegnativa che dovrete essere voi a chiedere, un po' di ricerca astronomica, anche con la propria strumentazione, o corsi estivi presso altre università (ad esempio molti istituti organizzano delle summer school) possono fare la differenza, a parità di voto di laurea, rispetto agli altri candidati.
All’estero la situazione è simile ma le retribuzioni e i posti disponibili sono in media superiori rispetto all'Italia. In ogni caso anche la concorrenza sarà maggiore, soprattutto prrsso gli istituti più prestigiosi (e con l'inglese come siamo messi??). 
Una volta ottenuta la borsa di dottorato si è solo agli inizi. Ad accomunare tutti i paesi del mondo sono i ritmi: i dottorandi, infatti, non sono più semplici studenti universitari, ma hanno acquisito anche il titolo poco ambito di ultimissima ruota del carro del mondo della ricerca. Tutto quello che quindi aspetta un dottorando si può riassumere con un’unica parola: gavetta; tanta, tantissima gavetta. I ritmi saranno sostenuti e metteranno a dura prova la salute mentale, anche dei più forti. Si passerà in ufficio gran parte della vita e i professori staranno spesso con il fiato sul collo, perché vorranno solo una cosa: impegno e dedizione ai massimi livelli. Non deve esistere altro se non la ricerca; tutto il resto può e deve attendere. Sembra la trasposizione moderna del concetto di schiavitù ma questa è la società della produzione sfrenata, signori.
Se la ricerca è la nostra passione, se questo è il nostro mondo, alla fine saranno solo gli esterni a vedere una situazione insostenibile, perché per noi che ne saremo dentro sarà solo una meravigliosa immersione in un mondo sempre sognato (forse sto sognando un po'...la realtà potrebbe essere peggiore). Sicuro è il fatto che la ricerca non è un semplice lavoro che finisce quando sono trascorse otto ore: è un modo di vivere, di pensare, di affrontare una passione così forte che a volte è persino difficile vederla come un vero e proprio lavoro. È per questo motivo che dobbiamo essere convinti e determinati del nostro percorso. Chi esita forse non ha la passione necessaria a garantire l’impegno totale che viene richiesto e corre il rischio di essere travolto dagli eventi.

Al termine dei tre anni di dottorato, dopo aver presentato la propria ricerca che ci avrà impegnato anima e corpo, si diventa finalmente dottori in ricerca e degli astrofisici a tutti gli effetti. D’ora in poi si godrà del titolo di ricercatori, che dovranno fare i conti con lo spietato mondo accademico. Il lavoro lo si dovrà infatti cercare, con le unghie e con i denti. Si dovrà essere disposti a viaggiare in lungo e in largo per il Pianeta alla ricerca delle opportunità migliori, che difficilmente si troveranno in Italia.  Frequentando il mondo accademico, posso dire che nella mia limitata esperienza ho visto pochi (nessuno?) astrofisici felici in Italia, eppure in quasi ognuno di loro ho sempre visto quell'amore incondizionato per materia al punto che senza fare ricerca non riuscirebbero a vivere.
Il mio consiglio spassionato è questo: se non si è disposti a spostarsi da questo Paese ricco di delusioni e avaro di opportunità, a mettersi continuamente in gioco, a rinunciare a una stabilità che probabilmente non arriverà prima dei 40 anni suonati (e di certo non in Italia), allora è meglio fermarsi, prima o poi, perché come ogni lavoro frutto di una passione sfrenata, sono poche le certezze e molti i sacrifici che dovremo fare per continuare il nostro sogno.


Cosa si studia ad astronomia e ad astrofisica?
Una breve panoramica l’ho già data, ma qui potrò essere più specifico. Come detto, i primi tre anni ci daranno le basi, quindi di astrofisica, anche se dovessimo scegliere il corso di laurea in astronomia, se ne vedrà poca, 4-5 esami su 20. Le materie che da saper maneggiare saranno la matematica, la fisica e l’informatica. Esami come Analisi matematica 1 e 2, fisica matematica (detta anche meccanica razionale) e algebra lineare sono la bestia nera di ogni studente e di fatto quelli che fanno la selezione: circa la metà degli iscritti abbandonerà gli studi entro il primo anno. La conoscenza della Fisica, in particolare meccanica, dinamica, termodinamica ed elettromagnetismo, è fondamentale, tanto quanto saper fare le derivate, gli integrali e le equazioni differenziali.
Infine l’informatica. Pochi sanno che gli astrofisici sono anche degli ottimi programmatori, perché sin dal primo anno di studi vengono letteralmente buttati nello sconosciuto mare della programmazione. Ricordo ancora le parole del mio professore di informatica, il primo giorno di lezione, quando ci mise davanti a un pc e disse: “Il mio compito è di buttarvi in mare; sta a voi imparare a nuotare o affogare”. È così: l’università fa parte del mondo degli adulti e in quanto tale è cinico e spietato. Sebbene si troveranno professori pronti ad aiutarci, spetterà sempre a noi fare la prima e l’ultima mossa per liberarci dal pantano in cui siamo stati gettati. E succederà spesso, perché l’apprendimento procede in questo modo: si viene gettati in un mare, un oceano, una savana sterminata, da soli e spaesati. Avremo poco tempo per riorganizzare le idee, mantenere la calma e piano piano venirne fuori, ogni volta più forti e maturi. Sarà così dal primo all’ultimo giorno di quei lunghissimi 3+2+3 anni, perché senza difficoltà non impariamo, non maturiamo e non potremo mai fare grandi cose.

La ricerca, infatti, è una cosa molto seria, che va ben oltre una passione nata da ragazzini. I ricercatori sono la prima linea dello sviluppo tecnologico e culturale dell'umanità. Scoprire un pianeta a centinaia di anni luce di distanza non è un costoso gioco che soddisfa il nostro ego, ma ha il potenziale, come tutta la ricerca, di cambiare per sempre il corso degli eventi. Non è una visione fantascientifica questa, ma si basa sulla semplice osservazione del passato. Tutto il nostro benessere tecnologico deriva direttamente o indirettamente dalle ricerche condotte da generazioni di scienziati sognatori, che hanno fatto della loro passione un lavoro che ha ripagato l’umanità di balzi enormi. La ricerca è fatta da piccolissimi tasselli che osservati da vicino sembrano fini a sé stessi. Solo guardandoli alla giusta distanza spaziale e temporale si capisce che ogni tassello è la parte essenziale di un lungo ponte che si staglia sull’abisso dell’oblio e ci proietta verso un mondo migliore, per noi e per i nostri discendenti.

Quando Maxwell nel diciannovesimo secolo riuscì a descrivere tutti i fenomeni elettrici e magnetici osservati, nessuno si sarebbe aspettato che da quelle quattro equazioni l’uomo avrebbe tirato fuori le comunicazioni radio, i cellulari, i forni a microonde, la televisione, il wifi, i radar… Lo studio di un fisico che al tempo sembrava fine a sé stesso ha aperto le porte a una rivoluzione mai vista nella storia dell’uomo. E questo è solo uno dei tanti esempi degli ultimi 400 anni (Einstein e Newton ci dicono qualcosa?).


Sarò in grado di affrontare il percorso di studi?
Non so rispondere caso per caso a questa domanda, ma posso dare dei consigli in linea generale, anche in base alla mia esperienza. E la risposta è senza dubbio affermativa. A livello potenziale, tutti abbiamo le capacità intellettive per affrontare il duro percorso di studi necessario. Posso spingermi a dire che non è fondamentale la scuola superiore di provenienza, né come è stato sostenuto il percorso di studi. Ho visto ragazzi usciti a fatica da scuole tecniche laurearsi in astronomia con il massimo dei voti. Ho visto studenti bocciati alle superiori prendere tutti 30 dall’inizio alla fine del percorso, compresa la laurea magistrale. Allo stesso tempo ho visto brillanti diplomati con 100 e lode fallire dopo pochi mesi o arrivare sull’orlo di un esaurimento nervoso.
La verità è che l’università è completamente diversa rispetto alla scuola superiore, sia per i metodi che per quanto riguarda gli studenti, che di certo sono molto diversi rispetto a quando iniziarono le scuole superiori. Il successo o meno dipende per il 90% e oltre dal nostro approccio mentale e dal metodo di studio. Se siamo determinati, consapevoli del nostro potenziale, concentrati sull’obiettivo (attenti alle feste universitarie!) e con le idee ben chiare, non c’è esame che possa fermarci. Il nemico più grosso siamo noi stessi, la nostra debolezza mentale e il modo in cui reagiremo ai momenti di crisi (perché ce ne saranno tanti!). Sembra una risposta vaga e scontata ma è davvero tutto qui, perché tutti gli insegnamenti ricominceranno quasi daccapo, quindi le conoscenze preliminari richieste saranno minime, più o meno quelle richieste a uno studente di un terzo o quarto anno di qualsiasi scuola superiore.


Per approfondire:
Dipartimento di fisica e astronomia dell'università di Bologna, dove trovare informazioni sui corsi di laurea e sulle materie, sia per la laurea triennale che per la magistrale: http://www.fisica-astronomia.unibo.it/it

Dipartimento di fisica e astronomia dell'Università di Padova, l'altra città italiana ad avere un corso triennale di astronomia: http://www.dfa.unipd.it/