venerdì 30 maggio 2014

Nuovo libro: Astronomia amatoriale 2.0



Osservando attentamente tutti gli articoli scritti per blog e riviste di astronomia nel corso di sei anni, mi sono accorto che potevano essere riorganizzati secondo un senso logico e costituire un libro che potesse dare a tutti gli appassionati di osservazione del cielo degli spunti interessanti che sfruttano le grandi potenzialità dei nostri tempi.
I moderni telescopi amatoriali sono molto più precisi, potenti ed economici rispetto a pochi anni fa. La rivoluzione digitale ha messo a disposizione a prezzi accessibili dispositivi estremamente efficienti e la globalizzazione ci consente di viaggiare sin in capo al mondo con la stessa facilità con cui i nostri nonni si spostavano nella città più vicina.

Divertiamoci osservando il cielo!
L’astronomia amatoriale del nuovo millennio ha conosciuto una rivoluzione senza paragoni. Ora osservare e fotografare il cielo non solo è relativamente economico e semplice, ma ci può regalare emozioni di gran lunga maggiori rispetto a quelle provate da qualsiasi altro appassionato del passato.

Diviso in quattro categorie: osservazione visuale, fotografia planetaria, fotografia deep-sky e una parte dedicata alla tecnica, il volume offre trenta interessanti spunti per appagare la nostra voglia di Universo, in modo semplice e originale.

Tra i molti argomenti ci imbatteremo nelle potenzialità di un cielo davvero scuro, nelle emozioni di un’eclisse di Sole e assisteremo al danzare dell’aurora nel cielo. Poi, con un telescopio scopriremo come osservare (e se) il colore delle nebulose e alcuni dettagli, come i bracci di spirale delle galassie, che non dimenticheremo mai.
Gli amanti della fotografia, anche alle prime armi, potranno divertirsi nel riprendere il colore delle stelle, nel fotografare il passaggio della stazione spaziale sul Sole o sulla Luna, o nell’evidenziare i magnifici colori che il nostro satellite nasconde attraverso la tecnica della mineral Moon.
Per chi è invece già esperto, vedremo come riprendere dettagli solari comparabili con quelli dei più grandi telescopi professionali e i particolari sfuggenti dei pianeti remoti quali Urano e Nettuno. Andremo anche più in profondità, alla scoperta dei dettagli elusivi delle galassie e di come è possibile persino riprendere i segni di altri sistemi planetari distanti decine di anni luce.
Nella parte dedicata alle tecniche vedremo come iniziare a costruire i bellissimi filmati time-lapse che mostrano il movimento dell’Universo, ma anche come calibrare alla perfezione le immagini digitali ed evitare una serie di subdoli difetti. Concluderemo parlando di mosaici lunari e di un software che promette miracoli attraverso una funzione dal nome strano e che gli amanti delle riprese in alta risoluzione avranno già sentito nominare: la derotazione.

Percorrendo in modo trasversale tutte le principale branche dell’astronomia amatoriale e affrontando temi che richiedono diverse esperienze e competenze, il libro si propone come un manuale che accompagnerà l’astrofilo nella propria crescita personale, ricordandogli che il cammino è lungo, impegnativo, ma soprattutto incredibilmente bello e affascinante. 
Benvenuti nell’era dell’astronomia amatoriale 2.0!




lunedì 26 maggio 2014

La pioggia di meteore non c'è stata, ma...



Lo spettacolo, sbandierato e amplificato dai media generalisti, non c’è stato e un po’ noi “addetti ai lavori” ce lo aspettavamo.
Il nuovo sciame meteorico chiamato Camelopardalidi, attesonel suo picco nella mattina del 24 maggio e potenzialmente osservabile al meglio dagli appassionati del Nord America, non ha rispettato alcune azzardate previsioni che parlavano di una possibile moderata pioggia con 200 meteore al minuto.
Se il ridotto tasso misurato dal vecchio continente confermava, purtroppo, la previsione che il massimo, qualora si fosse presentato, non sarebbe stato visibile, nel nuovo mondo esperti osservatori hanno riportato un numero medio di meteore che non ha superato le 15 l’ora, oltre 10 volte inferiore alle attese.
Questa esperienza ci dovrebbe ancora una volta far riflettere almeno su due punti:
1)      Le previsioni astronomiche di questi eventi, soprattutto nuovi come nella circostanza in oggetto, non sono infallibili; non a caso si chiamano previsioni, parola che dobbiamo prendere con il suo vero significato di “possibilità”, “plausibilità”, non certezza;
2)      Benché abbiamo una voglia matta di stupirci, di assistere a qualche evento fuori dal comune che magari ci faccia sognare e staccare da quella che pensiamo essere una mediocre quotidianità, soprattutto in un periodo generalmente cupo come quello attuale (ma non dal punto di vista astronomico), dobbiamo tenere i piedi ben piantati a terra. Giornali, siti web, in generale i mass media e tutti coloro che hanno interesse nell’aumentare infinitamente l’attenzione dei lettori per questioni di visibilità, ben sanno quanto un evento astronomico fuori dal comune e inaspettato possa attirare l’attenzione di un enorme numero di persone, non necessariamente appassionate alla materia. Di conseguenza, cavalcano la nostra voglia di stupirci senza porsi molti problemi etici a riguardo e puntualmente siamo noi a rimanerci male. La morale della favola? Un evento realmente sorprendente non ha bisogno di essere spettacolarizzato con frasi a effetto e immagini create con Photoshop, ma vive e si propaga di una cosa che in questo mondo effimero non siamo più abituati a considerare: la sostanza.

A ben guardare, allora, uno spettacolo parrebbe esserci stato, qualcosa che è stato citato in dettaglio solamente dai siti di divulgazione astronomica e che sotto certi punti di vista è stato migliore persino della potenziale pioggia di meteore che avremmo potuto osservare sopra le nostre teste.
Stando alle prime informazioni, infatti, alcuni astronomi dilettanti sembra siano riusciti a rilevare alcune meteore impattare sulla superficie lunare. Poiché il nostro satellite non ha atmosfera, qualsiasi oggetto, anche piccolo come una meteora, non viene bruciato dall’aria come sulla Terra, ma precipita al suolo come un vero e proprio piccolo meteorite. L’impatto, a decine di migliaia di chilometri l’ora, produce un’esplosione visibile per qualche istante con qualsiasi piccolo telescopio in quel momento puntato sulla giusta zona.
In questa circostanza la geometria ha aiutato gli osservatori perché gran parte della Luna non era illuminata dal Sole e in quelle regioni si sarebbero resi visibili anche gli impatti meno violenti.
Così sembra essere stato, a guardare le immagini dell’astrofilo italiano Andrea Vanoni. Riprendendo la parte non illuminata della Luna con una videocamera e un telescopio da poche decine di euro, sembra aver catturato alcuni fotogrammi che potrebbero essere la prova dello schianto di piccoli meteoriti sul suolo lunare.
Le prime verifiche sembrano confermare con buona confidenza la bontà delle riprese e la realtà degli impatti: un altro piccolo grande traguardo dell’astronomia amatoriale moderna, quella vera, genuina e condotta con il giusto spirito critico e di osservazione.
Un plauso quindi ad Andrea, ormai una certezza nel panorama astronomico amatoriale italiano.

Uno dei probabili impatti lunari registrati da Andrea Vanoni
 
Gli impatti di piccoli asteroidi sulla superficie lunare non sono affatto rari e una parte molto importante in questo prezioso studio potrebbe venire proprio da chi con passione, ogni notte, punta il telescopio verso il nostro satellite. E se pensate che questa attività non serva a nessuno, parlate con la NASA, il cui interesse per gli impatti lunari è elevatissimo, soprattutto in vista di un futuro ritorno di qualche essere umano lassù, dove la Terra diventa una piccola biglia azzurra immersa nel nero dello spazio.

sabato 24 maggio 2014

Artefatti, etica e riflessioni sull'imaging planetario



Questo post è in parte tratto dal mio libro "Tecniche, trucchi e segreti dell'imaging planetario", disponibile in formato ebook e in cartaceo.

 
L'imaging planetario è una branca dell'astronomia amatoriale molto prolifica quanto a risultati estetici e scientifici, ma è anche quella più sensibile a errori e pericolose derive che possono allontanare gli astroimager, soprattutto i meno esperti, dallo scopo della nostra attività: la passione per l'Universo, in particolare per i pianeti; la voglia di scoprirli in dettaglio, di mettere alla prova noi stessi, la nostra strumentazione e, soprattutto, il voler partecipare, attraverso la collaborazione e la condivisione, al miglioramento della nostra conoscenza. 

Anche se l'imaging planetario viene condotto a livello amatoriale, quindi come un hobby, le responsabilità che implica, soprattutto quando decidiamo di partecipare alla vita pubblica, non possono essere declassate: che ci piaccia o no, ogni volta che riprendiamo i pianeti stiamo facendo scienza. I nostri strumenti sono ormai così potenti che qualsiasi immagine è preziosa per comprendere qualcosa di più su questi ancora misteriosi corpi celesti. 
Nel momento in cui scopriamo quindi le nostre carte e pubblichiamo i dati, sia su siti astronomici o sulla nostra pagina facebook, abbiamo di fronte a noi stessi e a tutti gli altri una forte responsabilità etica, morale e scientifica: assicurarci che quello che abbiamo ripreso corrisponda effettivamente alla realtà. 
Purtroppo non basta la buona fede dell'astrofotografo a garantire che un'immagine planetaria sia esente da particolari non reali e che rappresenti quindi una realtà in qualche modo alterata. All'integrità morale devono essere affiancate altre qualità tra cui competenza, conoscenza del corpo celeste e delle sue dinamiche, ma anche e soprattutto spirito di condivisione, umiltà, voglia di confrontarsi e piena trasparenza, perché le prime verranno con il tempo e con l'esperienza se e solo se saremo abbastanza umili da metterci in gioco ogni giorno, anche quando ci sentiremo dei super esperti infallibili, perché una cosa è certa: nessuno è infallibile.

La dura verità è che in ogni immagine astronomica c’è sempre un nemico da dover combattere ed evitare a ogni costo: gli artefatti, dettagli o disturbi fittizi che pregiudicano la qualità scientifica ed estetica della ripresa. Prima prendiamo atto di questo e minori saranno le possibilità di prendere un clamoroso abbaglio in futuro, perché prima o poi l’occasione si presenterà inevitabilmente.

Gli artefatti alterano la reale natura della sorgente e possono rendersi visibili a causa di un procedimento di elaborazione sbagliato o della stessa architettura del sensore di ripresa (dinamica, rumore, amplificatore), dell’ambiente circostante (disturbi elettromagnetici) e del telescopio (come la vignettatura, cioè una caduta di luce ai bordi, o imperfezioni nella lavorazione degli specchi).
Benché il procedimento di elaborazione di un’immagine possa fornire in apparenza un risultato esteticamente molto diverso a seconda del procedimento e della bravura di ogni astrofotografo, è altresì vero che ogni tipo di ripresa debba rappresentare la realtà, un fatto oggettivo.

A prescindere dal tipo di elaborazione, i dettagli visibili non devono quindi cambiare: può variare il colore, il contrasto e la luminosità; l’immagine può risultare più o meno rumorosa, più o meno sfocata, ma il numero, le dimensioni e la forma dei particolari devono prescindere dall’elaborazione. In altre parole, l’informazione originale non deve essere in alcun modo alterata ma solamente resa più visibile.

Qualsiasi immagine nella quale i particolari siano stati trasformati, oppure ancora ne sono apparsi di fittizi, non è più valida, né dal punto di vista scientifico, né estetico. Questo è il punto fondamentale che dovrebbe differenziare l’imaging astronomico (di natura estetica e a maggior ragione scientifica) da quello puramente artistico. In questo secondo caso, per definizione, non ci sono limiti alla creatività dell’artista, mentre nel primo non si può prescindere dai dati reali che vengono raccolti dai nostri sensori digitali. Chi non è interessato a fare delle proprie immagini dei dati di analisi scientifica non è vincolato a questa regola, ma comunque a una propria etica: gli astronomi amatoriali non sono artisti ma persone che cercano di rappresentare l’Universo per quello che è.

La comparsa degli artefatti può essere più frequente di quanto si possa pensare ed è bene che siano riconosciuti ed evitati, anche se non sempre è possibile.
Spesso è l’attaccamento alla propria immagine che impedisce di vedere ciò che un osservatore estraneo e imparziale noterebbe alla prima occhiata, da qui un consiglio generale e molto importante: noi dobbiamo essere i critici più severi dei nostri lavori. Non dobbiamo cercare di difendere un’immagine che dopo ore di elaborazione ci sembra perfetta, o che mostra dettagli mai ripresi da nessun altro fino ad ora.
Prima è meglio sottoporre il metodo di elaborazione a una serie di controlli e verifiche, aiutandoci con il confronto tra le decine di immagini che ormai con un semplice click del mouse si possono visualizzare quasi in tempo reale.
Poi manteniamo sempre il contatto con qualche legge fisica fondamentale: per quanto possiamo considerarci bravi, è impossibile riprendere la bandiera americana sventolare (davvero?) sul suolo lunare o gli alieni che ci salutano da Marte.
Questi sono naturalmente casi volutamente esasperati, ma spesso può succedere di prendere delle serie cantonate e non vederle. Quale esempio un po’ più verosimile?
È impossibile catturare dettagli su oggetti che sono molto al di sotto del potere di separazione del telescopio. Non possiamo sperare di risolvere Tritone, satellite di Nettuno, e vedere dettagli, poiché il suo disco ha un diametro inferiore a 0,1”! Non possiamo sperare di riprendere le formazioni sulla superficie di Titano con un telescopio di 20 centimetri, primo perché le dimensioni del satellite sono al limite del diametro della figura di diffrazione per lo strumento, secondo perché l’atmosfera nel visibile è completamente opaca.
Se quindi otteniamo un’immagine del genere su Urano



non dobbiamo gridare al miracolo e farci prendere dalla sindrome di onnipotenza, piuttosto dubitare fortemente del nostro operato.
Facile a dirsi, meno da farsi e io sono stato il primo a cadere, diversi anni fa, in questa trappola, alimentata dall’entusiasmo irrefrenabile di un giovane uomo.
Bisogna però mantenere la calma e capire una cosa importante: l’astronomia raramente gioca brutti scherzi. Se quei particolari sono davvero reali (difficilissimo) saremo in grado di riprenderli ogni volta che le condizioni atmosferiche lo permettono e devono corrispondere alle caratteristiche fisiche del corpo celeste.

Quando andiamo verso il limite della nostra strumentazione, e questo generalmente succede per i pianeti remoti come Urano e Nettuno, i piccoli satelliti di Giove, Venere e Mercurio, è necessario stare molto attenti.
Non possiamo pretendere che il telescopio, per quanto potente e utilizzato dalla persona più capace del mondo (ecco, giusto per confermare il fatto di mantenere i piedi per terra), sia stato in grado di catturare un’immagine più definita di quella del telescopio spaziale Hubble.
È più probabile che abbiamo commesso qualche errore in fase di elaborazione che ha creato dettagli che non esistono. Bene, rimbocchiamoci le maniche e cerchiamo di scovarlo. In questo modo metteremo in atto un processo di indagine che sarà utilissimo per noi e per tutti gli altri appassionati impegnati nel nostro stesso lavoro (o davvero pensiamo di essere gli unici in tutto?).

Non sempre è facile riconoscere gli artefatti, ma sicuramente su nessun pianeta compaiono cerchi concentrici, bande oblique, righe e spirali più regolari di un disegno ingegneristico.
Conoscere il pianeta aiuta moltissimo: se su Giove scopriamo una banda che attraversa i poli da nord a sud sappiamo già che a meno di un evento catastrofico, che in molti avrebbero già notato, questo particolare non può essere reale perché la circolazione atmosferica si sviluppa lungo i paralleli e non lungo i meridiani (non c’è proprio evento naturale che possa farlo!).
Stessa cosa per Venere, ma in modo più sottile: le nubi possiedono una certa simmetria attorno all’equatore, estendendosi principalmente proprio parallelamente a esso.
Una banda più scura simile a quelle di Giove che l’attraversa obliquamente, magari proprio parallela al lato lungo o corto del sensore, è sicuramente un difetto della nostra camera di ripresa che è venuto a galla con l’elaborazione.

La domande che sorge spontanea, a questo punto, è: come evitare gli artefatti?
Prima di tutto evitiamo di massacrare le nostre immagini con elaborazioni pasticciate e troppo intense. Semplici maschere di contrasto o filtri wavelet sono tutto ciò che ci serve per far emergere tutti i dettagli. Il resto dell’elaborazione serve solo per farli vedere al meglio, in un ritocco estetico alla ricerca della perfezione che non tutti, soprattutto gli astronomi professionisti, vedono di buon occhio. Ma, considerazioni tecniche a parte, i particolari, se ci sono, emergono subito, non dopo decine di passaggi con programmi nati per altri scopi, quali Photoshop o i deleteri software per l’eliminazione del rumore.
Oltre a questi consigli è sufficiente applicare il metodo scientifico.

Se un dettaglio è reale, questo deve emergere con diversi metodi elaborativi e non solo con l’applicazione di un determinato filtro di contrasto.
Ma è nella fase di ripresa che possiamo creare le condizioni per non prendere clamorosi abbagli.
Gli artefatti, in effetti, hanno una curiosa doppia tendenza: quelli generati dalla camera di ripresa restano stazionari, mantenendo sempre la stessa posizione sul sensore, mentre quelli creati da un’elaborazione eccessiva (il rumore casuale che sembra essersi organizzato) non si ripetono mai uguali da un’immagine all’altra.
Quali sono gli effetti di questo comportamento duale?
Che in nessun caso in riprese consecutive gli artefatti avranno la stessa forma e la stessa orientazione rispetto al pianeta.
Se effettuiamo due video ruotando la camera di almeno 50°, gli artefatti del primo tipo resteranno ancorati alla posizione del sensore e non ruoteranno con il pianeta.
Se le riprese sono distanziate di qualche minuto, questi non seguiranno nemmeno la rotazione planetaria attorno all’asse.
Quelli generati dall’enfatizzazione del rumore casuale tenderanno semplicemente a sparire o cambiare forma. Se sono causati dalle particolari condizioni di illuminazione del pianeta non seguiranno di certo la rotazione dei dettagli, come la famosa macchia di Therby sugli anelli di Saturno.
 
Una buona tecnica per riconoscere quasi il 100% dei falsi dettagli è quella di effettuare quindi più video durante la serata di ripresa, magari ruotando la camera e controllare bene l’aspetto delle immagini elaborate (ognuna per ogni filmato).
Sarà poi l’esperienza e il confronto civile e umile con gli altri astroimager a dirimere definitivamente la questione. In questo caso esistono due regole semplici:
1)      Non credersi dei supereroi o dei super esperti e avere l’umiltà di confrontarsi alla pari con gli altri competenti astroimager;
2)      Avere fiducia nel metodo scientifico. Questo, a differenza degli esseri umani che possono essere influenzati da mille e più motivi che spesso esulano il campo oggettivo, è infallibile se ben applicato e ha il bellissimo pregio di prescindere completamente.

Alcuni tipici artefatti nelle immagini in alta risoluzione


Sbagliare è possibile, anzi, spesso succede anche in ambiti ben più importanti. Non c’è nulla di male nell’errore se è stato fatto in buona fede e il confronto su basi oggettive è il modo migliore per dirimere una questione a volte troppo grande per una sola persona. Basti ricordare la fresca vicenda del gruppo di ricercaitaliano che dopo una moltitudine di esperimenti aveva concluso che i neutrini,particelle massicce e molto sfuggenti, sembravano viaggiare più veloci della luce, contraddicendo tutti i principi base della fisica. Dopo aver fatto tutti i controlli possibili, decisero di pubblicare i dati, ma con uno scopo ben preciso: non per proclamarsi geni indiscussi per aver scardinato tutta la fisica contemporanea, ma per chiedere aiuto all’intera comunità e cercare di capire se i loro risultati fossero reali o affetti da qualche errore che non erano riusciti a trovare.
 Il risultato di questo sforzo collettivo ha portato a dirimere la questione in nome della scienza, senza personalismi e insulti. Nessuno si è azzardato a dare epiteti poco simpatici a chi, con metodi oggettivi, ha cercato una spiegazione plausibile e nessuno si è rifiutato di fornire per questo scopo i propri dati. 

Perché la scienza è condivisione, non una gara all’ultimo sangue e spesso scorretta; perché il metodo di verifica è oggettivo e i risultati non possono cambiare, nemmeno se noi cerchiamo di restarci attaccati con qualsiasi forza irrazionale e cominciamo a dispensare insulti e diffamazioni. Gli insulti verso altre persone non cambiano il giudizio critico su un'immagine planetaria; prendiamone atto.
Perché condotta per hobby o professione poco importa; la conoscenza scientifica rappresenta qualcosa di infinitamente più alto e nobile di qualsiasi mania di grandezza umana. Una lezione etica e morale di cui tutti noi dovremo far tesoro per migliorare come scienziati amatoriali e soprattutto come esseri umani. Una lezione che dovremo digerire e accettare, mettendo da parte l’orgoglio. Impariamo a capire che non è l’errore il problema, piuttosto il difenderlo con qualsiasi mezzo. E che ci piaccia o meno, le nostre immagini saranno sempre sottoposte al giudizio critico e oggettivo del metodo scientifico. Una parte importante della scienza, anche amatoriale, è proprio quella di mettere alla prova i risultati, soprattutto quelli ritenuti eccezionali. Fa parte del gioco e garantisce, contrariamente a molti altri ambiti della vita, un'imparziale meritocrazia. Se non siamo disposti a metterci in gioco, allora dovremo riprendere i pianeti solamente per nostro sfizio personale ed evitare di rendere pubblici i risultati con il rischio di prendere in giro molte persone. Per questo scopo il mondo ne è già pieno, evitiamo quindi di aggravare la situazione.

venerdì 23 maggio 2014

Imminente pioggia di stelle cadenti? Non esattamente, ma vale la pena provarci

Nelle prossime ore (tra venerdì 23 maggio e sabato 24 maggio) la Terra si troverà ad attraversare una zona orbitale contenente i detriti lasciati dall'ultimo passaggio della cometa 209P/LINEAR nel 2009, che secondo alcuni studi potrebbero rivelarsi di una certa densità.
Questo, tradotto in linguaggio comprensibile, significa che nelle prossime ore nel cielo potrebbero comparire molte meteore, dette comunemente anche stelle cadenti.

Fin qui tutto bene, ma ci sono dei punti da mettere in chiaro per abbassare le nostre aspettative ed evitare di prendere cocenti delusioni:
1) Il tasso di stelle cadenti visibili, secondo le più ottimistiche previsioni, dovrebbe essere di circa 200 all'ora. Sembra un numero alto e in effetti non è male, ma le piogge di meteore vere e proprie sono ben altra cosa, per non parlare delle tempeste, che superano le 1000 meteore l'ora. Non si tratta quindi di un evento fuori dal comune, anzi, probabilmente, considerando anche l'incertezza nelle previsioni, lo spettacolo sarà simile a quello offerto dalle Perseidi ogni anno l'11 e il 12 agosto, o dalle sconosciute Geminidi, lo sciame più forte (circa 120 meteore l'ora di media) e costante, visibili ogni anno tra il 7 e il 17 dicembre.
2) Il picco nel numero di meteore secondo le previsioni si verificherà la mattina del 24 maggio tra le 6 e le 8 TU, ovvero tra le 8 e le 10 locali, cioè con il Sole ben alto sull'orizzonte. Solamente i fortunati osservatori dell'america settentrionale saranno quindi nella posizione ideale per assistere al massimo dell'attività meteorica; per noi, probabilmente, ci saranno solo delle piccole briciole e sarà già tanto se assisteremo a una ventina di meteore l'ora (ma spero di sbagliarmi).

La mattina del 24 maggio le meteore sembreranno provenire dalla costellazione dell Giraffa
Non si tratta quindi di una pioggia fuori da comune, come si è letto un po' ovunque in giro sulla rete, e se anche fosse stata, non l'avremmo comunque potuta vedere.
Ora che abbiamo le idee ben chiare, se disponiamo di un cielo sgombro da nubi (difficile in questo periodo di meteo "anglosassone") possiamo programmare una levataccia per domani mattina verso le 3, dirigerci in un posto molto buio e guardare verso nord. Le meteore, dette Camelopardali, sembreranno provenire dall'anonima costellazione della Giraffa (Camelopardalis in latino), posta non molto lontano dalla stella Polare. Un buon punto di osservazione, quindi, deve avere tutto l'orizzonte nord libero. Posizioniamoci di fronte alla stella polare e con un po' di pazienza potremo vedere qualche decina di stelle cadenti in almeno un'ora di osservazione.

Il fatto interessante, forse più della mini pioggia in sé che si prospetta, è che anche la Luna, in fase calante e ben visibile la mattina prima dell'alba, attraverserà la zona dei detriti e sperimenterà anch'essa un aumento dell'attività meteorica, anche se a modo suo.
Il nostro satellite, infatti, non ha praticamente atmosfera, quindi qualsiasi detrito spaziale, anche grande come un granello di sabbia (queste sono le dimensioni tipiche delle meteore) non viene vaporizzato dal calore dell'aria ma impatta direttamente con la superficie, producendo un piccolo e breve flash luminoso.

I flash prodotti dall'impatto delle meteore in superficie sono troppo deboli per essere visti nella porzione illuminata del nostro satellite, ma alcuni potrebbero rendersi facilmente visibili nella porzione in ombra, che in queste circostanze è molto maggiore di quella illuminata.
Osservando quindi con un piccolo telescopio la zona in ombra della Luna, o magari monitorando il tutto con una piccola videocamera ad esso collegata, potremo sperare di osservare le stelle cadenti su un altro corpo celeste. Basta l'impatto di un sasso poco più grande di una palla da golf per produrre un flash facilmente visibile attraverso il telescopio. Con un po' di fortuna, in un'ora di osservazioni potremo vedere qualche piccolo punto bianco accendersi e spegnersi quasi istantaneamente nel lato non illuminato.
Non pensiamo agli alieni o agli UFO, o a chissà quale fenomeno "esoterico" (e non mancherà qualcuno che ci proverà!): in questo caso la realtà è forse ancora più affascinante. Stiamo infatti assistendo in diretta all'impatto di piccoli meteoriti sul suolo di un altro corpo celeste, con una velocità di decine di migliaia di chilometri l'ora; stiamo assistendo in diretta alla nascita di nuovi (seppur piccolissimi) crateri, gli stessi che costellano la nostra amica Luna da miliardi di anni, e che probabilmente sono stati alla base dello sviluppo di condizioni adatte alla vita qui sul nostro pianeta azzurro.
Buone osservazioni!

Le zone della Luna soggette agli impatti con le meteore


lunedì 19 maggio 2014

Cosa sono i quasar?



Questo post è un estratto del mio libro: 125 Domande e curiosità sull'astronomia, disponibile in formato ebook e in cartaceo.
 
A cominciare dagli anni cinquanta del 900, gli astronomi hanno cominciato a scoprire degli oggetti peculiari, in breve tempo diventati una delle classi più misteriose dell’intero Universo.
All’osservazione telescopica apparivano come delle deboli stelle di colore rosso, niente di sorprendente. Ma contrariamente alle stelle, questi astri emettono grandi quantità di radiazioni elettromagnetiche su quasi tutto lo spettro, dagli intensi raggi x alle innocue onde radio.
Incuriositi da questa particolare proprietà mai osservata, gli astronomi cercarono di ottenere degli spettri nel visibile, per capire qualcosa di più sulla loro composizione chimica.

Rappresentazione artistica di un quasar
Dopo aver esaminato gli spettri di molte sorgenti, si accorsero che questi erano spostati tutti verso il rosso, mostravano, cioè, alti redshift.
In breve tempo la spiegazione cosmologica del redshift si rivelò l’unica ipotesi plausibile: non facevano parte di oggetti estesi in rotazione, né potevano essere astri dotati di elevato moto proprio, perché tutti sembravano spostarsi in una sola direzione, a prescindere da dove li si osservi nel cielo.
Ma se il redshift associato era interpretato come l’impronta dell’espansione dell’universo, questi deboli punti luminosi dovevano essere qualcosa di tremendamente energetico e terribilmente molto più esotico rispetto a tutti i fenomeni dell’Universo fino a quel momento osservati.

Questi punti arrossati dall’espansione dell’Universo vennero chiamati quasar, abbreviazione dei termini inglesi QUASi-stellAR radio source, ovvero sorgenti radio dall’aspetto quasi stellare.
Il termine “quasi” è fondamentale, perché la stima della distanza attraverso l’interpretazione del redshift cosmologico diede risultati incredibili.
Tutti i quasar si trovavano a distanze di diversi miliardi di anni luce. Non ne esiste nessuno entro un raggio di 2 miliardi di anni luce dalla Via Lattea.

Ma le sorprese non sono finite, perché dalla stima della distanza e della luminosità apparente, agli astronomi apparve subito chiaro che non poteva trattarsi di stelle, visto che un quasar medio emette in un secondo l’energia che il Sole produce in oltre 100.000 anni!
Tutti i quasar, oltre a trovarsi a distanze enormi, sono centinaia di miliardi di volte più luminosi di qualsiasi stella.
Ci vollero moltissime osservazioni di ottima qualità e le menti più brillanti per comprendere la natura di questi misteriosissimi oggetti.

Attualmente si crede, con una buona probabilità, che i quasar non siano altro che nuclei particolarmente brillanti di antiche galassie.
Proprio come le galassie a noi vicine, anche queste possiedono al centro dei grandi buchi neri, milioni o miliardi di volte più massicci del Sole.
Ma contrariamente agli oggetti recenti, i buchi neri delle galassie lontane sono attivi, ovvero stanno fagocitando una grandissima quantità di materia.
Il disco di accrescimento che si forma ha dimensioni di diversi anni luce; il gas riscaldato a milioni di gradi, prima di venire inghiottito, può trasformare circa metà della sua massa in energia, secondo la relazione di Einstein E = mc^2. L’efficienza dell’emissione è elevatissima; basti pensare che la grande energia proveniente dalla fusione nucleare nelle stelle deriva solamente dalla trasformazione dello 0,7% della massa delle particelle coinvolte in energia.
In questo modo il buco nero centrale comincia a emettere quantità spaventose di energia visibile fino ai confini dell’Universo.

giovedì 15 maggio 2014

Quanto è grande l'Universo?



A questa domanda si può rispondere in molti modi diversi, alcuni corretti, altri frutto di mere ipotesi.
Cominciamo dai punti fermi, poi potremo lasciarci andare a qualche congettura. 

L’Universo che possiamo vedere ha un raggio di 13,4 miliardi di anni luce, delimitato inevitabilmente dalla radiazione cosmica di fondo che ci impedisce di vedere regioni più lontane, semplicemente perché la luce non ha ancora fatto in tempo ad arrivarci. In effetti, sotto questo punto di vista possiamo dire che l’Universo è troppo giovane per mostrarsi tutto.
In prima approssimazione, quindi, il diametro della porzione osservabile di cosmo è di 13,4 X 2 = circa 26,5 miliardi di anni luce. 

Tuttavia, queste non sono dimensioni reali, perché le varie porzioni che stiamo osservando nello spazio, quindi anche nel tempo, nel corso dei miliardi di anni si sono espanse, di conseguenza in questo nostro istante non si troveranno più alla distanza che ci appare da queste misurazioni.
Una galassia distante 10 miliardi di anni luce lo era altrettanti anni fa, ma nel corso di questo lungo intervallo di tempo lo spazio tra noi ed essa si è continuato a espandere. Attualmente, quindi, non si troverà più alla distanza misurata.

Se si considera il tasso medio con cui si è espanso l’Universo, le regioni che noi vediamo a 13,4 miliardi di anni luce, quindi quelle che ci inviano il segnale della radiazione cosmica di fondo, si trovano attualmente a non meno di 40 miliardi di anni luce di distanza. 
Il diametro dell’Universo osservabile, quindi, rapportato al nostro tempo attuale, dovrebbe essere vicino agli 80 miliardi di anni luce!

Ora complichiamo a piacere lo scenario.
L'Universo osservabile è una minima parte di quello esistente
Secondo alcuni modelli questa potrebbe essere una parte infinitesima dell’Universo, che negli istanti iniziali ha conosciuto una super espansione ben più veloce della luce chiamata inflazione.
Nessuno a questo punto sa con certezza quanto sia in realtà grande l’Universo, alcuni pensano che possa essere almeno miliardi di miliardi di miliardi di volte più esteso di quello osservabile corretto per il valore dell’espansione. Per gli amanti dei numeri, parliamo di un raggio circa 1030 volte superiore all'Universo osservabile corretto per il valore dell'espansione, di 40 miliardi di anni luce.


Questo numero potrebbe essere vicino al concetto di infinito o addirittura diventare infinito qualora vengano avvalorati altri modelli che prevedono un’infinita generazione di bolle di universi a partire dalla super espansione di parte dello spazio. 

Infinito o meno, quello che sembra mettere d’accordo molti cosmologi è il fatto che l’Universo sia forse indefinito.
Questo concetto è più facile da immaginare, perché ce lo abbiamo sotto gli occhi continuamente.
La superficie della Terra, ad esempio, è naturalmente finita ma sferica. Se potessimo prendere un aereo, o una macchina senza problemi di carburante, potremo percorrere all’infinito la superficie del nostro pianeta senza mai trovare un confine, ma raggiungendo ogni volta il punto d’inizio.
Questo è il concetto di indefinito: una superficie che non ha dei confini.
Si pensa che l’intera struttura dell’Universo sia una speciale sfera a quattro dimensioni priva di un confine netto.
E d’altra parte uno scenario del genere, oltre a essere comune, è in perfetto accordo con il fatto che non esistono luoghi privilegiati dell’Universo che possano sperimentare proprietà fisiche diverse. Se esistesse un confine netto si aprirebbero molti paradossi: perché quella zona si dovrebbe comportare in modo diverso rispetto al resto? Cosa c’è fuori? Di quali proprietà gode la linea di confine? E com'è fisicamente fatta?

Dopo l’esperienza di Cristoforo Colombo, che sbagliando aveva comunque dimostrato in modo pratico che la Terra non aveva confini netti perché sferica, nessuno scienziato immagina più una struttura, o l’Universo stesso, con dei bordi delimitati dalle mitologiche colonne d’Ercole.
Qualche cosmologo ha pure cercato di replicare, su scala decisamente maggiore, l’esperienza pratica di Cristoforo Colombo. Se l’Universo è una specie di sfera senza confini, allora la luce delle stelle potrebbe “fare il giro” e presentarsi anche nella parte opposta. Di nuovo, benché questa ipotesi sia plausibile, l’Universo è troppo giovane e vasto affinché la luce di qualche corpo celeste, anche quelli più lontani, abbia avuto il tempo di fare un giro completo.

domenica 4 maggio 2014

[Presentazione] Pianeti extrasolari: alla scoperta di nuovi mondi

Nel mio girovagare per l'Italia, questa è una conferenza che nel corso degli anni ho sostenuto varie volte, aggiornata ogni pochi mesi grazie all'inarrestabile progresso scientifico in questo affascinante campo.

La presentazione che propongo in questo post, liberamente scaricabile, risale al Luglio 2013 ed è stata esposta nella piazza della Rocca di Cento il 24 Luglio 2013.
Nonostante non contempli l'ultimissima scoperta del pianeta Kepler-186f, è ancora estremamente attuale e cerca di fare una panoramica su come si scoprono i pianeti extrasolari, su quello che conosciamo attualmente e su cosa dovremo cercare per sperare di trovare forti indizi di forme di vita.
Per scaricare la presentazione in formato PDF, cliccate qui.

Ricordo che se volete approfondire questo argomento, il mio libro "Vita nell'Universo. Eccezione o regola?" è il manuale attualmente più completo e aggiornato disponibile in lingua italiana sull'argomento.
Buona lettura!

venerdì 2 maggio 2014

Perché siamo qui?



Questo post è estratto dal mio libro: "Conoscere, capire, esplorare il Sistema Solare", disponibile in formato elettronico e cartaceo su Amazon.it

Poco dopo la formazione del Sistema Solare, la Terra era molto diversa dall’ambiente che conosciamo attualmente.
L’atmosfera era simile a quella di Titano, con una consistente quantità di azoto e la quasi totale assenza di ossigeno, fuggito nello spazio o legatosi all’idrogeno per formare l’acqua.
Contrariamente a Venere e a Marte, che rappresentano gli antipodi dell’evoluzione planetaria, la fortuna iniziale della Terra è stata probabilmente quella di trovarsi alla giusta distanza dal Sole e di avere le dimensioni adatte. 

La distanza dal Sole superiore a quella di Venere ha impedito lo sviluppo di un effetto serra così marcato e consentito alle rocce di catturare l’anidride carbonica presente in cospicue quantità nell’atmosfera primordiale. Le dimensioni maggiori di quelle di Marte hanno permesso di trattenere l’atmosfera, anche grazie alla persistenza del campo magnetico, al contrario di quella del pianeta rosso che nel corso di un miliardo di anni si è persa per gran parte nello spazio, alterando profondamente un ecosistema probabilmente ricco di acqua liquida.

Le prime forme di vita sono presumibilmente nate nelle calde acque di quel grande e unico oceano che veniva chiamato brodo primordiale.
La diffusione della vita anaerobica e fotosintetica ha lentamente cambiato l’atmosfera del pianeta, trasformando l’anidride carbonica in prezioso ossigeno e moderando nella giusta quantità l’effetto serra.

Dopo miliardi di anni di evoluzione, l’atmosfera della Terra si è scoperta profondamente cambiata e pronta a ospitare le prime forme di vita che utilizzano l’ossigeno per i loro processi metabolici.
L’equilibrio che si è andato a creare tra la produzione di anidride carbonica e di ossigeno ha permesso alle specie vegetali e animali di continuare a sopravvivere in armonia.
Senza il prezioso contributo di entrambi, l’atmosfera della Terra non avrebbe mai raggiunto un punto di equilibrio stabile. Senza l’apporto della vita vegetale tutto l’ossigeno creatosi si sarebbe di nuovo trasformato in anidride carbonica, facendo estinguere le specie che lo utilizzavano in favore di un nuovo sviluppo delle forme di vita anaerobiche. Probabilmente la vita non si sarebbe mai estinta, ma l’evoluzione delle specie non avrebbe potuto procedere.
Fortunatamente le cose non hanno seguito questo poco piacevole ciclo, ma si sono stabilizzate su un periodo di tempo sufficientemente lungo da consentire l’evoluzione di specie sempre più complesse e intelligenti.

Questa analisi non è naturalmente completa, né vuole esserlo, anche perché tutte le variabili in gioco non sono chiare neanche ad astronomi e biologi.
Quello che ci appare è un incastro così perfetto che alcuni potrebbero vederci una mano divina. Qualunque sia il vostro pensiero a riguardo, merita rispetto e proprio per questo non esprimerò la mia opinione personale.

Mi piace però fare un ragionamento logico molto semplice.
Solamente nella nostra Galassia gli astronomi hanno stimato almeno altri 100 miliardi di sistemi planetari, arrivando alla conclusione che il numero di pianeti potrebbe essere addirittura superiore alle stelle.
L’Universo a noi accessibile, detto Universo osservabile, contiene almeno 300 miliardi di galassie. Se ognuna ha circa 100 miliardi di sistemi planetari, il numero di pianeti esistenti in questa porzione di Universo è davvero inimmaginabile.
Se lo sviluppo della vita così come la conosciamo ha richiesto la perfetta combinazione di condizioni così particolari, nelle infinite possibilità che l’Universo si è creato con un numero di pianeti superiore alla nostra immaginazione, non appare affatto impossibile che una di queste combinazioni abbia portato alla nostra nascita, in qualche angolo dell’Universo.

Perché proprio la Terra allora? Perché siamo qui a discutere delle nostre origini e delle meraviglie del cosmo?
Noi siamo il risultato cosciente di una delle infinite combinazioni provate dall’Universo. Se ci sembra tutto così unico e straordinariamente perfetto, è semplicemente perché non potrebbe essere altrimenti, poiché questa è l’unica combinazione che ci ha dato la possibilità di esistere per porci queste domande.
Mi spiego meglio aiutandomi con un esempio.

Vincere al superenalotto è un’impresa molto difficile.
Ci sono circa 622 milioni di combinazioni possibili e solamente una è quella esatta. Se giocassimo una schedina, la probabilità che i sei numeri estratti combacino con i nostri sarebbe quasi nulla, con il rischio molto alto di non vincere neanche tentando per 100 anni.
Se invece 622 milioni di persone si accordassero per giocare ognuno una combinazione differente, allora sicuramente una, in qualche parte del mondo, avrà indovinato la sestina vincente di quella specifica estrazione.
È certo che quel fortunato vincitore si chiederà perché proprio a lui è capitato un evento al limite dell’impossibile.
Il ragionamento razionale ci dice che doveva per forza verificarsi, perché tutte le combinazioni erano state tentate.
L’analisi logica suggerisce che qualsiasi vincitore si sarebbe posto esattamente le stesse domande.
Questa esperienza ci fa capire meglio quello che è stato detto poche righe sopra: per quanto improbabile, se un evento non è impossibile a priori prima o poi nella vastità dell’Universo si realizzerà.

È normale sentirsi fortunati a essere il risultato di questa combinazione vincente, proprio come il vincitore della lotteria. E proprio come in quel caso, prima o poi a qualcuno doveva pur succedere!
Il problema è, piuttosto, un altro.
Nelle estrazioni del superenalotto siamo coscienti del fatto di non aver vinto e magari un po’ delusi; nel caso della lotteria che crea la vita senziente, invece, solamente la combinazione vincente crea esseri in grado di porsi queste domande.
I “perdenti” non hanno la possibilità di rendersene conto, perché semplicemente non esistono.

Questo ragionamento ci porta anche a un’altra deduzione logica. Il fatto che almeno sulla Terra esista vita intelligente è di un’importanza fondamentale: significa che questo evento nell’Universo non è impossibile. Se si è verificato una volta, pur con tutte le numerose variabili richieste, potrebbe verificarsi benissimo altre volte.
L’Universo ha spazio e tempo in abbondanza per provare a indovinare la sestina vincente più di una volta; anzi, probabilmente il numero di combinazioni giocate è di gran lunga superiore a quelle possibili, cioè al numero totale di pianeti.

Non sappiamo quanto valga il rapporto tra il numero delle combinazioni giocate e quelle possibili, altrimenti avremmo un’idea abbastanza chiara del numero di pianeti abitati nell’Universo.
Sarebbe però presuntuoso considerarsi gli unici vincitori della lotteria che ci ha regalato la vita.

Tutto questo non si scontra affatto con il lato spirituale e religioso, perché scienza e logica non potranno mai rispondere in modo adeguato alle domande fondamentali, che in questi casi potrebbero essere: “Perché tra le innumerevoli combinazioni possibili c’è anche quella che genera vita senziente? Perché l’Universo esiste e funziona in questo modo? Chi o cosa ha deciso le combinazioni e fa le estrazioni?”
Per queste domande la logica rappresenta nient’altro che una delle infinite risposte, tutte ugualmente vere e allo stesso tempo false, che il nostro straordinario intelletto è in grado di regalarci.