Con
un interesse sempre minore da parte del pubblico, che ormai si era stancato dei
“noiosi” viaggi lunari, Apollo 13 decollò l’11 aprile 1970 alle ore 13:13, sfidando
tutta una serie di superstizioni che circondano il numero 13 nella cultura anglosassone.
Sfortuna
volle, però, che nel mezzo della traversata, durante un normale rimescolamento
dei serbatoi di ossigeno, una serpentina difettosa si staccò e produsse una
scintilla che fece esplodere uno dei quattro serbatoi, danneggiò seriamente
l’altro che in poco tempo si svuotò e costrinse gli altri due alla chiusura
forzata.
Il lancio di Apollo 13 |
È
entrata nella storia la comunicazione con cui Jim Lovell avvertì il controllo
missione, con voce apparentemente fredda e distaccata, che qualcosa di grave e
inaspettato era successo all’astronave: “Ok Houston, abbiamo avuto un
problema”.
Ci
vollero interminabili minuti per comprendere la gravità della situazione, così
imprevedibile che inizialmente si pensò a un errore del computer di bordo. In
effetti, cos’altro pensare leggendo improvvisamente sul monitor oltre 30
messaggi d’errore e una presunta quadrupla avaria?
Sfortunatamente
non fu così, se non altro perché l’astronave era completamente fuori controllo
e gli astronauti a bordo stavano pure osservando dall’oblò del gas incolore
uscire dalla parte posteriore del modulo di servizio: il prezioso ossigeno.
La
chiusura di tutti i serbatoi di ossigeno lasciò al modulo di comando solamente
pochi minuti di aria e causò l’interruzione dell’alimentazione elettrica (che
utilizzava proprio l’ossigeno), temporaneamente provvista dalle batterie di
emergenza.
In
poco tempo Apollo 13 si trasformò in una disperata missione di salvataggio.
Non
solo la Luna non si sarebbe potuta raggiungere, ma sarebbe stata una sfida
riportare a casa sani e salvi gli uomini a bordo. Con
il modulo di comando che sarebbe presto diventato inabitabile, i dati del
computer di bordo furono trasferiti in quello del LEM, che diventò una
scialuppa di salvataggio.
Per
riportare gli astronauti sani e salvi fu deciso di far loro raggiungere
l’ormai vicina orbita lunare e accendere il razzo nel lato nascosto della Luna,
proprio come nelle normali missioni. Il problema era il motore del modulo di
comando: se fosse rimasto danneggiato, la sua accensione avrebbe potuto distruggere
l’astronave. Si decise allora di eseguire la manovra utilizzato il LEM e il
motore che doveva scendere sulla Luna. Ma un’operazione del genere non era mai
stata tentata fino a quel momento e non si era sicuri dell’esito positivo.
Tutto questo, inoltre, sarebbe avvenuto durante il black-out delle comunicazioni
che si verifica quando la Luna si frappone tra l’astronave e la Terra. Fortunatamente
la manovra riuscì, ma i problemi di Apollo 13 non erano di certo
finiti.
Con
la poca alimentazione elettrica del LEM, gli astronauti furono costretti a
spegnere tutti i sistemi non essenziali, tra cui l’impianto di riscaldamento,
passando interminabili giorni con temperature di alcuni gradi sotto lo zero.
Il
LEM, inoltre, era stato progettato per ospitare due astronauti per due giorni,
ora invece ve ne erano da mantenere in vita tre per quattro giorni.
Uno
dei problemi principali fu rappresentato dai filtri per lo smaltimento
dell’anidride carbonica, che non erano sufficienti per tre persone. Quelli del
modulo di comando non potevano essere adattati al LEM perché di forma diversa.
I
tecnici a Terra trovarono una soluzione spartana ma efficace per l’adattamento,
utilizzando nastro adesivo, bustine di plastica e un calzino, tutti i pochi
materiali a disposizione degli astronauti nell’astronave Apollo.
Seguendo
passo passo le istruzioni comunicate in tempo reale, gli astronauti riuscirono
ad adattare i filtri ed evitare una fine scontata e ormai prossima.
Un
altro momento delicato fu la correzione di traiettoria che si rese necessaria a
circa metà della traversata. Senza
l’aiuto del computer di navigazione che avrebbe consumato le ultime risorse
energetiche rimaste, gli astronauti dovevano accendere per 36 secondi il motore
del LEM e pilotare manualmente l’astronave, prendendo come riferimento la Terra
visibile in uno degli oblò.
Se
gli astronauti non fossero riusciti a mantenere la rotta, non avrebbero mai più
fatto ritorno a casa e niente e nessuno li avrebbe potuti soccorrere.
Se
volare manualmente nello spazio senza possibilità di sbagliare non fosse già
abbastanza rischioso, la situazione era resa ancora più pesante e incerta dal
fatto che i motori del LEM non erano stati mai testati per una seconda accensione.
Si sarebbero quindi riaccesi? Avrebbero resistito a un nuovo e forte sollecito,
dopo il già grande stress a cui erano stati sottoposti per abbandonare l’orbita
lunare? Fortunatamente
anche questa manovra riuscì tra la tensione degli astronauti e l’apprensione
dei tecnici del controllo missione. Il
piccolo LEM Acquarius si era dimostrato più resistente e affidabile di quanto
pensassero gli stessi ingegneri che lo avevano costruito.
Superata
con successo questa delicata manovra, l’astronave Apollo sarebbe di certo tornata sulla Terra, ma le incognite in merito alla reale sopravvivenza degli
astronauti erano ancora numerose. Lo
scudo termico del modulo di comando, estremamente delicato e così vicino al
luogo dell’esplosione, era stato danneggiato? Le
batterie di rilascio dei paracadute, necessarie per frenare la discesa, erano
ancora cariche dopo i giorni passati a diversi gradi sotto zero?
La
condensa all’interno del modulo di comando avrebbe mandato in corpo circuito
tutto il sistema, una volta riattivato per le operazioni di rientro in
atmosfera?
Trovare
risposta a tutti questi interrogativi non era comunque utile, poiché nessuno
avrebbe potuto intervenire per sistemare il problema.
I
tecnici del controllo missione cercarono di rincuorare gli astronauti e scelsero
di non comunicare tutte le variabili che rendevano piuttosto incerta la loro
sopravvivenza.
Il modulo di servizio di Apollo 13 semi distrutto dall'esplosione, dopo essere stato sganciato poco prima del rientro in atmosfera. |
Con
l’ingresso nell’atmosfera terrestre a decine di migliaia di chilometri l’ora,
le comunicazioni tra il modulo di comando e i tecnici si interruppero, come
previsto. In queste delicate fasi, il forte disturbo dell’atmosfera terrestre,
che riscalda lo scudo termico fino a oltre 1500°C, rende impossibile per circa
3 minuti ogni comunicazione radio. L’ansia
e la preoccupazione dei tecnici seduti su quelle sedie diventate scomode raggiunsero
livelli altissimi quando alla fine del previsto silenzio radio tutti i
tentativi di contattare l’astronave fallirono. Nessuna missione aveva avuto un
blackout radio per più di tre minuti.
Quando
il silenzio arrivò a ben cinque minuti, molti ormai pensarono al peggio.
L’astronave era stata disintegrata nel rientro in atmosfera?
Una
flebile speranza cominciò ad accendersi quando gli uomini addetti al recupero
avvistarono il modulo di comando, che lentamente scendeva con i paracadute
spiegati. Purtroppo,
ancora nessun segnale radio proveniva dall’abitacolo della capsula Odyssey che
sembrava scendere quasi a tempo di una tristissima marcia funebre. Ma
dopo oltre sei interminabili minuti di silenzio, finalmente il saluto del
capitano Lovell interruppe l’angoscia della sala di controllo e la litania
dell’addetto alle comunicazioni che cercava ancora di mettersi in contatto con
l’astronave, ripetendo sempre la stessa frase ormai quasi priva di speranza.
Un
applauso scrosciante salutò il tuffo del modulo di comando Odyssey nell’Oceano Pacifico,
ponendo fine all’avventura più pericolosa della storia dell’astronautica.
La
missione Apollo 13 fu l’unica a fallire l’allunaggio, ma i tecnici della NASA
la definirono un fallimento di grande successo.
Per approfondire:
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