mercoledì 1 febbraio 2017

La scoperta dell'Universo, parte 1: i primi del '900 e le Cefeidi di Henrietta Leavitt

 Questo rappresenta il primo di una serie di post, estratti dal mio libro "La straordinaria bellezza dell'Universo", in cui si caratterizzano le sorprendenti proprietà dell'Universo a grande scala: dalla scoperta di alcune stelle particolari che hanno consentito rivelare la vera natura delle "nebulose spiraliformi" alla sorprendente espansione dell'Universo, fino alla caratterizzazione del Big Bang e delle prove osservative arrivate nel corso degli anni. Si tratta di poco più di un secolo di astronomia moderna che ha rivoluzionato la nostra idea dell'Universo, della scienza, della fisica e persino del nostro posto nel Cosmo. Una rivoluzione scientifica e culturale che, forse, non ha conosciuto eguali in tutta la nostra storia. 


A partire dalla seconda metà del diciannovesimo secolo, fino agli anni 20 del novecento, l'astronomia si trasformò rapidamente in astrofisica: dallo studio della posizione dei corpi celesti (astronomia) si iniziò a indagare con sempre maggiore dettaglio la loro natura e le loro proprietà (astrofisica). Grazie a telescopi sempre più potenti, alla nascita della spettroscopia che permetteva di scomporre la luce degli oggetti celesti e della fotografia, che forniva uno straordinario e oggettivo strumento di misurazione e confronto tra diversi osservatori, l'Universo divenne in breve tempo un ambiente sempre meno sconosciuto.

Se la seconda metà del diciannovesimo secolo aveva fornito le basi tecnologiche per la seconda rivoluzione astronomica della nostra storia, il nuovo secolo fu caratterizzato da un personaggio eccezionale: Albert Einstein. Nel 1905 diede una risposta definitiva al bizzarro comportamento dell'effetto fotoelettricoo, lo stesso alla base del funzionamento di tutti i sensori digitali, che aprì la strada alla meccanica quantistica. Nello stesso anno (anzi, nella stessa pubblicazione!) espose la teoria della relatività ristretta, rivoluzionando i concetti di spazio e tempo. Nel 1916 descrisse più in dettaglio le straordinarie proprietà dello spazio-tempo e raccontò di un Universo statico, che probabilmente era sempre esistito. Sir Arthur Eddington utilizzò a stretto giro le scoperte di Einstein per teorizzare e provare la struttura delle stelle, il loro ciclo vitale, la loro composizione chimica e la fonte della loro energia. In questo contesto la spiegazione dei diversi tipi di nebulose divenne una logica conseguenza dei modelli di evoluzione stellare. Era l’età d’oro dell’astronomia: la nebbia su quel cielo oscuro si era diradata in modo spettacolare e con una velocità esponenziale.

Restavano due punti delicati, che sembravano solo dettagli in attesa di essere chiariti da lì a breve con migliori osservazioni, che non avrebbero comunque messo in pericolo tutto l’apparato di conoscenze che si era creato.
Il primo punto era un cruccio di Einstein, chiamata costante cosmologica. Tra tutta l’eleganza e l’ineccepibile apparato fisico e matematico della teoria della relatività generale, quel parametro, identificato come Lambda (Λ), stonava un po’ perché appariva più come un atto di fede che una grandezza con un fondamento fisico. L’atto di fede, consapevole o meno, era la convinzione più forte che l’uomo si era mai creato, ancora più vigorosa dell’immutabilità dello spazio e del tempo: la certezza di un Universo immobile.
Le equazioni della relatività di Einstein dimostravano, invece, che in un Universo dominato dalla forza di gravità, capace di alterare spazio e tempo, non era previsto il concetto di staticità. Tutta la struttura dello spazio e del tempo avrebbe dovuto variare in dimensioni con il passare del tempo, come se tutto l’Universo fosse una rete elastica che poteva allungarsi e accorciarsi. Impossibile anche solo concepire una cosa del genere! Sarebbe come dire che lo spazio che separa me e tutte le altre persone è destinato a cambiare nel corso del tempo, che un giorno l’Universo potrebbe disintegrarsi e che un tempo lontano non doveva nemmeno esistere! Così Einstein introdusse il parametro di costante cosmologica, assegnandogli il giusto valore per convalidare la propria convinzione e quella di tutta l’umanità: l’Universo non si stava né contraendo né espandendo e aveva quindi vita infinita.

Il secondo punto delicato riguarda una questione puramente osservativa. In effetti fino a questo momento ci siamo concentrati a cercare oggetti peculiari come ammassi stellari e nebulose diffuse lungo la porzione più evidente della Via Lattea, là dove si concentra la grandissima parte delle stelle della Galassia. Tuttavia, puntando il telescopio lontano dalle zone più affollate scopriamo che il numero di stelle diminuisce in modo drastico, come ci si aspetta, ma non accade la stessa cosa agli oggetti diffusi. Lontano dalla Via Lattea si trovano ancora migliaia di nebulose, solo che hanno un aspetto molto particolare e in qualche modo differente rispetto a quelle finora classificate. Di cosa si tratta? Che tipo di nebulose sono? Perché si trovano dove le stelle, gli ammassi e tutte le nebulose conosciute diminuiscono in numero? E perché non ne vediamo di forme simili lungo la Via Lattea? Forse già sappiamo la risposta a queste domande, ma per rendere giustizia agli sforzi di generazioni di astronomi che hanno impegnato la loro vita per dare risposte che a noi sembrano scontate, ma che non lo erano affatto solo 100 anni fa, ripercorriamo in modo sintetico il percorso che deve fare la scienza per fornire prove oltre ogni ragionevole dubbio della realtà che vogliamo descrivere.

Henrietta Swan Leavitt
La storia che ha portato alla classificazione della classe di nebulose spiraliformi si intreccia in modo inevitabile con le vicende umane di quel periodo e riguarda personaggi e situazioni che ora ci sembrano lontanissimi dal nostro modo di pensare.
Presso l’osservatorio di Harward, il direttore Pickering era un amante delle donne, giudicate piacevoli da guardare, di basso costo e molto brave nello svolgere mansioni noiose e ripetitive. Era la fine dell’800 e in attesa dei primi computer digitali ci si accontentava dei cosiddetti calcolatori manuali: le donne. Il loro compito era molto semplice ma piuttosto noioso: elaborare e catalogare i dati fotometrici e spettroscopici di migliaia e migliaia di stelle attraverso l’attenta analisi di grosse lastre fotografiche. La più famosa calcolatrice umana è di sicuro Annie Jump Cannon, il computer più potente del mondo che riusciva a classificare e archiviare fino a 3 spettri stellari al minuto. Nella sua vita si dice che abbia classificato più di mezzo milione di stelle.
Ma questa storia non riguarda lo straordinario lavoro o la proverbiale pazienza di Miss Cannon, piuttosto le vicende di un’altra calcolatrice umana di umili origini, con una famiglia da sfamare e per di più sorda: Henrietta Leavitt. Il suo compito era catalogare e calcolare la luminosità apparente delle stelle delle Nubi di Magellano. Con una lente di ingrandimento e pochi altri strumenti rudimentali, annotava la posizione degli astri ripresi sulle lastre fotografiche, ne stimava la luminosità apparente e si curava di vedere se questa fosse variata da una fotografia all’altra.

Questo lavoro lungo e noioso, che avrebbe messo a dura prova la sanità mentale di molte persone, venne ripagato con una straordinaria scoperta: alcune stelle cambiavano la propria luminosità in modo regolare, con un periodo legato alla magnitudine apparente media. Stelle più brillanti impiegavano più tempo per variare luminosità e tornare allo splendore iniziale, mentre quelle meno potenti compivano il percorso in un tempo minore. Poiché le stelle che stava osservando si trovavano tutte alla stessa distanza dalla Terra, in una piccola galassia satellite distante qualche centinaio di migliaia di anni luce, queste differenze in luminosità non erano dovute a differenti distanze, ma a variazioni reali della struttura delle stelle, a cambiamenti nella quantità di potenza emessa. Fu la svolta: Henrietta Leavitt aveva appena scoperto su scala cosmica un meccanismo simile a quello che nelle fredde serate di Dicembre fa variare la luminosità delle luci dell’albero di Natale, con la fondamentale proprietà che nell’Universo le luci più potenti hanno un periodo di pulsazione più lungo di quelle meno potenti.

Queste stelle vennero chiamate Cefeidi e rappresentano ancora oggi uno straordinario strumento per misurare la distanza degli oggetti. Una volta calibrata quella che viene chiamata relazione periodo-luminosità, ovvero una volta che si ha un campione di Cefeidi di distanza conosciuta a cui associare una potenza reale e non più una luminosità apparente che dipende dalla distanza, possiamo usare questi astri come se fossero i cartelli che sulle nostre strade segnano i chilometri percorsi. Questa è infatti un’altra spettacolare e inaspettata legge dell’Universo: tutte le Cefeidi si comportano allo stesso modo, senza eccezioni. Tutte le Cefeidi dell’Universo possono quindi essere utilizzate per stimare la distanza in modo piuttosto preciso, annotando semplicemente il periodo che impiegano a compiere un’intera pulsazione. Il metodo è potentissimo e straccia tutti gli altri, molto limitati, che erano fino a quel tempo serviti per misurare in modo piuttosto rozzo la distanza degli oggetti celesti. Per di più le Cefeidi sono tra le stelle più luminose dell’Universo, quindi visibili anche a enormi distanze.





Questa nuova scoperta diede un forte impulso all’astronomia, che stava cercando con enorme fatica un modo per determinare con facilità le distanze degli oggetti che in cielo, a noi, sembrano purtroppo tutti proiettati sulla stessa cupola di cristallo.
Cosa c’entra il metodo di misura delle distanze attraverso le Cefeidi con la natura di quelle misteriose nebulose spiraliformi e con la struttura dell'Universo? Se il caso nel funzionamento dell’Universo non esiste, molte delle vicende umane legate alla sua comprensione sembrano invece caratterizzate da eventi fortuiti; quei colpi di fortuna che nessuno si aspetta e che di punto in bianco rivoluzionano la nostra conoscenza delle cose. Nell’astronomia dell’ultimo secolo sono stati due i colpi di fortuna più spettacolari. Uno lo vedremo nel prossimo post; per l’altro dovremo aspettare un po' di più. Prestissimo, però, capiremo che, a un certo punto del nostro percorso di indagine di un fenomeno, la fortuna si limiterà a scegliere il chi e il come, ma raramente determinerà il se. In altre parole: quello che sembra un colpo di fortuna spesso è solo la naturale conseguenza di un processo di avanzamento tecnologico e mentale che non può più evitarci quella scoperta.

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