martedì 1 luglio 2014

Cosa sono i bracci di spirale delle galassie?

Questo post è un estratto del mio libro: 125 Domande e curiosità sull'astronomia, disponibile in formato ebook e in cartaceo.


Le galassie a spirale, che rappresentano i ¾ della popolazione dell’Universo, hanno degli stupendi bracci a spirale. Ma cosa sono realmente?
Per scoprirlo partiamo da una semplice osservazione: nei bracci di spirale vi è una densità maggiore del 15-20% di materiale. Questi, quindi, si rendono visibili perché ci sono più stelle e gas che nel resto del disco.
Le stelle nelle galassie non hanno tutte la stessa velocità angolare. Questo significa che un giro completo attorno al centro richiede un periodo diverso a seconda della distanza dal centro.
Si potrebbe pensare, quindi, che il problema sia stato risolto. Per qualche motivo esistono delle concentrazioni di stelle che mano a mano che ruotano con velocità diverse attorno al centro formano i bracci di spirale.
Questo modello, però, ha un piccolo problema: non funziona!
Se i bracci fossero composti sempre dallo stesso materiale, deformato poi dalla rotazione, non potrebbero esistere per più di poche centinaia di milioni di anni. Dopo appena un paio di orbite risulterebbero così distorti da mescolarsi e scomparire.
Poiché osserviamo milioni di galassie a spirale, è impossibile pensare che le stiamo vedendo tutte in quei pochi milioni di anni nei quali mostrano i bracci, se non altro perché basta guardare lontano nello spazio per farlo anche nel tempo e riuscire a scoprire oggetti delle più diverse età.
 
Ma allora, cosa sono e come si creano i bracci di spirale?
Può sembrare assurdo, ma i bracci di spirale non sono altro che delle enormi onde sonore che si propagano in modo indipendente dalla materia sul disco delle galassie a spirale.
In linguaggio più tecnico si definiscono onde di densità, ma il principio fisico alla base della loro formazione è identico a quello che ci consente di sentire il suono qui sulla Terra, con una piccola differenza: stiamo infatti osservando dei mostri estesi per decine di migliaia di anni luce, quindi anche le onde sonore che si sviluppano sono mostri con una lunghezza d’onda di altrettante migliaia di anni luce. 
Di fatto, è impossibile per qualsiasi apparato percepire il suono associato a queste speciali onde sonore, ma questo non rende di certo meno valida la loro esistenza.
L’onda sonora in un disco galattico ha una vita a se stante indipendente dalla materia, per questo motivo non si attorciglia a causa delle diverse velocità di rotazione di gas e stelle.
I bracci di spirale quindi non sono altro che le onde sonore rese visibili dal materiale che si ritrova ad attraversarle. 

Possiamo concepire un tale fenomeno con un paragone molto più familiare. Immaginiamo di percorrere un’autostrada trafficata, ma senza rallentamenti. Poi, si incontra un camion in lento movimento. In questo punto le auto rallentano e si avvicinano, probabilmente formando una coda che una volta superato l’ostacolo si dissolverà.
Il camion è un’onda di densità di una galassia: un punto nel quale il materiale deve rallentare la sua corsa e comprimersi, prima di superare l’ostacolo e riprendere la velocità di crociera originaria.
Una tipica stella impiega qualche milione di anni per percorrere un braccio di spirale, ma l’attraversamento produce degli effetti imprevedibili e importantissimi.
Quando le grandi quantità di gas freddo entrano in un braccio di spirale, sono costrette a comprimersi. Questa compressione innesca dei vivaci processi di formazione stellare, che probabilmente non sarebbero stati possibili senza il calcio iniziale offerto dall’onda di densità.



Non è infatti un caso che all’esterno dei bracci di spirale si rendano visibili ingenti quantità di nebulose oscure, mentre nel mezzo del braccio compaiono brillanti stelle azzurre estremamente giovani e immense distese di nebulose ad emissione.
I bracci a spirale delle galassie sono di fatto coloro che innescano e regolano i processi di formazione stellare, garantendo un ricambio generazionale costante nella popolazione stellare della galassia.
Davvero magnifico!

venerdì 27 giugno 2014

Ganimede ripreso al telescopio

Pratico imaging planetario da ormai 15 anni, eppure ancora continuo a stupirmi delle grandi potenzialità della strumentazione amatoriale accoppiata a un buon sensore di ripresa, tecnica e metodo scientifico, soprattutto per quanto riguarda l'alta risoluzione planetaria.
Sin da piccolo mi chiedevo spesso quale fosse il limite dei nostri telescopi, fino a quali dettagli era possibile osservare.
In questa mia ricerca, che ormai va avanti da molti anni, mi sono imbattuto pochi giorni fa in qualche mia ripresa di Giove risalente al 2010 e ho notato che una in particolare poteva ben rendere l'idea di cosa si è in grado di fare oggi con la nostra strumentazione.

In un'immagine del 23 luglio 2010, ottenuta con ottima stabilità atmosferica, c'era Ganimede, la Luna più grande del Sistema Solare, in transito sul disco di Giove, che sembrava mostrare molti dettagli superficiali.
Ho allora isolato il satellite, l'ho ingrandito e ho cercato di capire se quelli che sembravano dettagli superficiali potessero essere confermati in qualche modo.
Gli astroimager planetari con maggiore esperienza sanno che questa luna mostra spesso particolari, grazie al loro elevato contrasto, ma fin dove si può arrivare?
Confrontando la mia immagine con le mappe cartografiche ho scoperto che non solo è visibile la famosa Galileo Regio, una regione più scura che compare quasi sempre nelle immagini, ma anche un punto bianco in basso che corrisponde a un grande cratere da impatto, il cratere Osiris.
Questo è il limite, probabilmente, di un telescopio da 35-40 centimetri: mostrare un cratere di poche centinaia di chilometri di diametro a una distanza media di 800 milioni di chilometri!
E se non è affascinante questo, non so cos'altro potrebbe esserlo.

Ganimede ripreso con il mio telescopio

martedì 24 giugno 2014

L'imponente razzo Saturn V

Questo post è un estratto del mio libro: Conoscere, capire, esplorare il Sistema Solare, disponibile in formato ebook e in cartaceo.


Difficile riuscire a immaginare cosa si possa provare nel trovarsi di fronte all’imponente Saturn V, a meno che non si abbia la fortuna di visitare il museo Smithsonian, negli Stati Uniti, e capire che in uno degli scarichi dei motori del primo stadio potrebbe tranquillamente viverci una persona, tanto è grande. 
Difficile anche comprendere come questo gigantesco agglomerato di metallo, cavi e carburante, dal peso di 3 mila tonnellate, potesse far volare tre impavidi uomini e portarli in una regione di spazio dove nessuno era mai arrivato e soprattutto nessun’altro si è più avventurato.
E si fatica non poco ad accettare il fatto che questo manufatto, così enorme e imponente, sia stato partorito interamente dalla genialità della mente umana.
L’ideatore del Saturn V, Werner Von Braun.



Il Saturn V, l’unico a portare uomini oltre la bassa orbita terrestre, era un imponente razzo costituito da oltre 3 milioni di pezzi, alto 111 metri, capace di portare in orbita lunare un peso di circa 45 tonnellate.
Gran parte della sua struttura era piena di carburante e riservata a lasciare la superficie e l’atmosfera terrestre, un’impresa molto più difficile di quanto si possa  pensare, soprattutto se si deve trasportare un’astronave con equipaggio umano dal peso di diverse tonnellate.
Ben 80 metri del Saturn V servivano proprio per questo scopo. Con un consumo massimo di circa 15 tonnellate di carburante al secondo, il razzo doveva portare in orbita la “parte superiore” che alloggiava la vera e propria astronave Apollo.

Il vettore aveva tre stadi, ovvero era formato da tre unità che avevano diversi compiti.
Il primo stadio era individuato dalla parte inferiore ed era il più potente, riservato al decollo e ai primi istanti di salita in atmosfera terrestre.
Alto 42 metri e con un diametro di 10, era pieno di ossigeno liquido e cherosene e dotato di 5 motori.
L’accensione durava 168 secondi, dalla partenza fino a un’altezza di circa 65 km, quando finito il propellente veniva espulso e ricadeva in pieno oceano.
L’espulsione liberava il secondo stadio alto 24 metri e formato da 5 motori, con il compito di fornire la spinta necessaria all’astronave per raggiungere gli strati più alti dell’atmosfera.
Esaurito il carburante, veniva espulso per liberare il terzo e ultimo stadio, alto circa 18 metri.
Il terzo stadio era l’unico razzo del complesso sistema modulare del Saturn V che poteva essere riacceso. Questo infatti serviva inizialmente per porre l’astronave in orbita terrestre di parcheggio, in attesa del via libera da parte del controllo missione per la seconda e ultima accensione che avrebbe portato l’astronave verso la Luna.

Schema del Saturn V in una rappresentazione degli anni 60
Se il Saturn V era indubbiamente il gigante dello spazio, il rimorchio cingolato che doveva trasportarlo dalla base alla rampa di lancio era sicuramente il gigante della strada.
Pochi giorni prima della partenza, l’enorme vettore in configurazione di lancio veniva trasportato verso la rampa da questo super rimorchiatore dal peso di oltre 2500 tonnellate, dotato di due motori da 2700 cavalli e altrettanti da 1000, che alla velocità di crociera di 1,7 km/h impiegava diverse ore per giungere a destinazione.
Rimorchi simili sono stati utilizzati per trasportare lo Space Shuttle e per tutti gli altri razzi diretti verso la rampa di lancio.

sabato 21 giugno 2014

Che cos'è l'airglow?

Da cieli perfettamente scuri, oltre alla luce zodiacale e tantissime stelle, è osservabile anche la debole luminosità della nostra atmosfera, chiamata airglow. 
Questo sottile velo luminoso si rende meglio visibile vicino all'orizzonte come una luce verdastra, spesso frastagliata, simile a quella delle aurore polari, ma molto, molto più debole.
Riguardando le mie immagini dell'Australia mi sono accorto di averlo ripreso casualmente una sera e di averlo poi ben osservato la sera prima dell'eclisse, quando il cielo appariva inspiegabilmente lattiginoso pur non avendo alcuna fonte di luce nel raggio di centinaia di chilometri.


L'airglow ripreso dall'Australia
Contrariamente alle aurore, l'airglow è osservabile da qualsiasi luogo della superficie terrestre, in ogni periodo dell'anno, anche se statisticamente alcune stagioni, come l'autunno e la primavera, sembrano essere più avvantaggiate. 

Il meccanismo che accende l'alta atmosfera è sostanzialmente lo stesso responsabile delle aurore: l'aria, a circa 100 km di altezza, emette luce quando le molecole e gli atomi di cui è composta si ricombinano insieme dopo essere stati allontanati da urti con raggi cosmici e con la stessa luce UV del Sole durante il giorno. 
 
Dallo spazio vicino alla Terra, in particolare dalla privilegiata posizione degli astronauti a bordo della stazione spaziale internazionale, l'airglow è evidentissimo se si osserva lungo la linea dell'orizzonte terrestre, come un tenue e uniforme arco verdastro.

Airglow sopra l'Italia ripreso dalla ISS

La naturale emissione dell'alta atmosfera della Terra è il motivo per cui il cielo notturno, anche se osservato lontanissimo da qualsiasi luce artificiale, non è perfettamente nero come invece lo sarebbe se visto dallo spazio. Ed è proprio questo il motivo per cui il telescopio spaziale Hubble, benché abbia uno specchio di 2,4 metri di diametro, ottiene immagini più profonde dei mastodontici colleghi terrestri di 8 e più metri di diametro.

martedì 17 giugno 2014

Uno stralcio del mio ultimo libro



Un paio di settimane fa ho pubblicato, solo in formato ebook, il mio ultimo libro: “Astronomia amatoriale 2.0” dedicato alle idee e alle tecniche per osservare e fotografare il cielo con un telescopio amatoriale.

Il libro è un manuale che raccoglie gli articoli che nel corso degli anni ho scritto per riviste del settore. Si prefigge di essere una guida per chi ha già una minima esperienza con il cielo e vuole sfruttare nel migliore dei modi le opportunità uniche che la tecnologia e il benessere economico attuali mettono a disposizione di tutti noi appassionati di Universo.
Parleremo di eclissi, di cielo australe, di aurore, di mineral moon, di filmati time-lapse, di derotazione delle immagini planetarie, di calibrazione delle immagini del cielo profondo e molto altro, in un percorso attraverso tutte le branche dell’astronomia amatoriale.

Il libro è disponibile al momento solo su Amazon e informato Kindle. Ricordo comunque che può essere acquistato e letto anche da chi non  ha un Kindle: basta un account Amazon e un’applicazione gratuita per smartphone, tablet o pc messa a disposizione da Amazon stesso.

Se siete curiosi di sapere di cosa parla “Astronomia amatoriale 2.0”, ho preparato un estratto in PDF contenente l’indice e le prime 40 pagine che potete scaricare gratuitamente seguendo questo link.

Se il libro vi interessa, è disponibile qui a soli 3,25 euro.