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lunedì 26 ottobre 2015

Quella sera che mi spararono mentre guardavo le stelle


Non sempre le serate sotto le stelle promettono di essere emozionanti, avventurose, indimenticabili. O meglio, non sempre questi aggettivi si sposano bene con le sensazioni positive (e forse persino un po' stucchevoli) che ho raccontato nei capitoli precedenti.
A volte, per fortuna poche, anzi, a me solo una, capita che l'avventura e l'indimenticabile momento di una serata non sia associato a ciò che di bello ha da offrire il cielo ma all'animale più pericoloso e mentalmente instabile che vive su questo pianeta: l'uomo.
Nelle mie avventure in giro per il mondo ho già raccontato dei canguri curiosi che osservavano con me in Australia, o dell'inquietante presenza misteriosa che ha accompagnato la mia prima e folle uscita sotto il cielo del sud a spasso nella foresta pluviale. In effetti, pensandoci ora a mente lucida e con qualche anno in più, a volte l'incoscienza della gioventù e la voglia di cielo mi hanno fatto affrontare certe situazioni un po' alla leggera. Mai, però, mi sarei aspettato di poter seriamente rischiare la vita a 15 km da casa mia, nella immediata periferia di Perugia, in un luogo pubblico e peraltro già frequentato assiduamente sia da escursionisti di giorno che da astrofili di notte.
Dopo diversi mesi di impegni e un periodo di maltempo degno delle piogge monsoniche che affliggono l'Asia (con il dettaglio che nel nostro caso sono durate un anno e non solo sei mesi), la voglia di cielo in una mite serata autunnale era ormai letteralmente alle stelle. Grazie all'incredibile clemenza del meteo che concesse un po' di sereno in prossimità del fine settimana e della Luna nuova (eventualità che si è verificata per ben 6 volte... in due anni!) poche ore prima di cena decisi di andare a osservare il cielo da un posto buio nelle vicinanze, insieme ai validi giovani dell'associazione astrofili Paolo Maffei, di cui ero (e chissà se lo sono ancora, dipende da che anno è) il presidente. Io, Giovanni, Federico e Kati, tutti nomi non di fantasia, decidemmo di andare in un posto che Giovanni e Federico avevano scoperto un mese prima e dal quale avevano fatto buone osservazioni.
Con un ritrovato entusiasmo dopo mesi bui passati su libri e sotto pioggia e nebbia, non riuscivo a credere che quella sera avrei finalmente rivisto le stelle e, a quanto pare, da un ottimo cielo, nonostante fosse vicino a Perugia.
Mentre con la macchina ci inerpicavamo su una collina sperduta, percorrendo una strada polverosa, stavo già pensando a cosa avrei fotografato e cosa invece avrei osservato con il mio fido binocolo.
Arrivati sul posto e parcheggiate le auto su un ampio prato ai bordi di un sentiero da mountain bike, riconobbi il luogo perché qualche anno addietro insieme all'associazione astrofili ci facemmo una serata pubblica di gran successo (anche se c'erano le nuvole, come solito).
Sceso dall'auto guardai verso l'alto e per la prima volta in diversi mesi vidi nel cielo una serie di puntini luminosi disposti apparentemente a caso. “Caspita, allora le stelle sono fatte così, questo è un cielo sereno!” pensai tra me e me, o forse lo sussurrai ai miei compagni di osservazione.
Ridendo e scherzando, come se alla fine di un lungo tunnel tutti avessimo ritrovato un sorriso che solo il cielo scuro e stellato può regalare, cominciammo a schierare la nostra attrezzatura fotografica, maledicendo il lampione acceso dell'unica casa della zona, distante circa 200 metri in linea d'aria ma alquanto fastidioso. “L'altra volta era spento” disse sicuro di sé Giovanni, seguito dalla conferma di Federico. “Sarà il caso di andare giù e dirgli se ci fa il favore di spegnerlo?” disse sempre Giovanni. “Per il momento no, dai, mi serve per fare il fuoco” risposi io tra l'ironico e il serio.
Pochi minuti e la mia attrezzatura minimale era pronta, ma quella volta fui battuto da Federico che aveva già iniziato a scattare foto verso il polo nord celeste, cercando di costruire la classica strisciata delle stelle che prometteva di diventare spettacolare, perché di fronte a noi, proprio verso il nord, c'era un rudere abbandonato che si stagliava sul cielo molto scuro.
Dopo aver sistemato gli ultimi dettagli, anche io divenni operativo ma come nella migliore tradizione, e nonostante tutte le previsioni, cominciarono a formarsi fastidiose nuvole proprio sopra le nostre teste. “Non è possibile” gridai per primo con un amaro sorriso, reso ancora più intenso dal fatto che le nuvole si stavano creando sopra le nostre teste e sembravano volerci stazionare, mentre il cielo tutt'intorno continuava a essere libero.
Ecco la nuvola di Fantozzi” rincarai la dose mentre gli altri preferivano star in silenzio, magari concentrandosi sul montaggio dei loro telescopi.
Anche io in quella circostanza, come qualsiasi persona matura di questa nostra seria società, preferii voltare le spalle al problema, iniziando a scattare foto nell’unica zona di cielo libera, verso il nord.
In un clima di festa e spensieratezza che solo un buon cielo (seppur mezzo nuvoloso) può regalare, cominciai come solito a fare un po’ il pagliaccio e a prendere in giro gli altri.
A un certo punto una macchina in lontananza percorse la strada sterrata e si fermò al cancello dell’abitazione. “Bene, i proprietari erano fuori, vedrai ora che ci spengono le luci!” commentò soddisfatto Giovanni. “Sì, o ci vedono qui e ci sparano!” ribattei io ridendo. Nessuno ovviamente aveva preso sul serio le mie parole, una frase che ripetevo sempre durante le uscite in posti remoti.
Dopo qualche minuto il faro fuori si spense e la serata sembrava volgere al meglio, anche perché le nuvole sembravano voler scomparire da lì a breve.
Purtroppo, però, le sorprese sono sempre dietro l’angolo e a quella non eravamo di certo pronti a reagire, ammesso che si potesse essere pronti a una cosa del genere.
A un certo punto dalla casa partì un potente fascio di luce, presumibilmente di una grossa torcia, proprio fuori da quella che sembrava essere l’entrata al primo piano. La luce illuminò in modo chiaro noi, le nostre auto e i nostri strumenti e di colpo su di noi cadde un po’ di preoccupazione. “Ragazzi, il proprietario forse si è preoccupato, perché non andiamo a dirgli chi siamo e cosa stiamo facendo?” disse Giovanni con voce seria, subito incoraggiato da Federico e Kati. Anche io ero d’accordo ma cercai di sdrammatizzare a modo mio: “Sì, andiamo a parlargli così se ne sta tranquillo, altrimenti questo ci spara!” Forse la battuta era fuori luogo perché i volti erano tutti preoccupati, al punto che non uscì una parola a seguito della mia frase. Ci incamminammo allora verso la casa, proprio pochi secondi dopo che la luce si era spenta.
Percorsi una decina di metri, forse venti, si accese la luce del portico al primo piano e uscì correndo una sagoma scura che imbracciava evidente un lungo fucile. Fu il panico tra di noi.
Federico fu il più reattivo e correndo verso la casa si mise a gridare: “Non spari, non spari! Stiamo venendo a spiegarle cosa stiamo facendo! Non spari!!”
Tutti insieme iniziammo a correre verso la recinzione esterna della casa, là dove la sagoma scura sembrava essersi diretta, in completo stato di shock, sussurrando tra di noi frasi tremolanti del tipo: “Questo è matto!”, “questo ora ci spara”, “questo è impazzito!”.
Quando arrivammo nei pressi della recinzione, in cuor mio sapevo che il grosso malinteso si sarebbe risolto con una sana risata. Alla fine eravamo su un luogo pubblico, centinaia di metri lontano dalla casa, non avevamo fatto casino, avevamo le macchine con la targa di Perugia in bella vista e quando ci illuminò con la torcia le vide bene, così come vide benissimo i nostri visi e i telescopi.
Sapevo che sarebbe andato tutto bene, se solo di fronte a noi avessimo avuto una persona sana di mente e non un pazzo squilibrato pronto a farci saltare in aria la testa nonostante avesse benissimo capito cosa stavamo facendo.
Quando Federico arrivò per primo al recinto, il pazzo iniziò a urlare verso di noi, puntando il fucile in direzione della sua testa e accecandolo con una torcia a led puntata in viso. Una scena degna di una banda criminale ben organizzata.
Non posso ripetere le ingiurie e le parole che il pazzo psicotico iniziò a pronunciare, così renderò il racconto un po’ più adatto ai lettori. “Che cavolo fate qui, io vi sparo, vi sparo! Chi cavolo siete, chi vi ha detto vi venire qui? Non siete mica al centro a Perugia, io se vi vedo qui vi buco!”
La litania delle minacce proseguì a oltranza senza che nessuno riuscisse a calmarlo; anzi, quando Federico provò a spiegare che eravamo solo appassionati del cielo a vedere le stelle, il tizio si avvicinò ancora di più con il fucile, minacciando di fargli saltare la testa: ”Non me ne frega niente che siete venuti a fare qui, io vi buco, vi sparo!” Senza via d’uscita e con Federico ormai bloccato dalla paura, presi coraggio, mi avvicinai fino a poche decine di centimetri dal recinto, che il codardo aveva lasciato tra noi e lui, e intervenni con garbo e con le braccia basse, cercando di non fare bruschi movimenti. “Signore, scusi, ci lasci spiegare!”
Questo bastò al folle per distogliere l’attenzione da Federico e rivolgerla verso di me, con una rabbia tanto immotivata quanto folle. “E tu chi cavolo sei? Che cavolo vuoi? Lo vuoi capire che ti sparo? Voi qui non ci dovete stare, dovete dirmelo prima altrimenti vi trovo e vi sparo, tanto non è la prima volta!” Con la canna del fucile puntata a circa 50 centimetri dalla mia testa e con il suo dito sempre sul grilletto, la mia unica paura era che potesse partire un colpo accidentale, anche se speravo che il fucile fosse scarico e quella fosse solo una scenata per spaventarci. Ero allora combattuto tra due contrapposte sensazioni. Da una parte ero spaventato, dall’altra ero talmente arrabbiato che se non ci fosse stato il recinto di mezzo gli sarei saltato al collo.
Come si permetteva di minacciare me e i miei amici in quel modo, senza che avessimo fatto niente e, soprattutto, senza voler sentire alcuna spiegazione? Ci può anche stare la paura di vedere a poche centinaia di metri da casa macchine e persone mai viste, di notte. Ci può stare anche che l’ignoranza sia tale da non aver capito cosa stavamo facendo, sebbene i telescopi fossero evidenti e non fosse la prima volta che degli appassionati si radunassero lì a veder le stelle. Ma tutto quello che era venuto dopo, l’isteria, l’odio, la cattiveria, l’intolleranza, la rabbia cieca e la voglia di sopprimere il prossimo come un animale che innocente si ritrovava semplicemente a passare di lì senza alcuna colpa, questo non lo accettavo.
Nella sua follia si notavano bene le azioni di chi sapeva perfettamente cosa fare e come farlo. La luce forte puntata sugli occhi, le urla da pazzo isterico, il fucile in testa mentre con l’altra mano sorreggeva la lampada sempre puntata sui nostri occhi. Era, purtroppo, una follia organizzata e non improvvisata. E quello che accadde subito dopo confermò tutto quanto.
Con le sue insistenti minacce di spararmi e la canna del fucile sempre più vicina, la mia sete di giustizia prese il sopravvento, così invece di abbassare lo sguardo, alzare le mani o indietreggiare, lo sfidai avvicinandomi di un altro passo e guardandolo dritto negli occhi, che non potevo vedere, ed esclamai con voce ferma: “Se abbassa il fucile e la luce le spieghiamo con calma cosa stiamo facendo qui. Io così non riesco neanche a vederla!”. Fu la goccia che scatenò l’inferno.
Indispettivo dalle mie parole di sfida, iniziò a inveire come se fosse in preda a una crisi isterica. Puntandomi il fucile in faccia e facendo dei rapidi movimenti avanti e indietro con la canna come se avesse l’irresistibile voglia di sparare solo per il gusto di farlo, cominciò a esclamare: “Tu non mi devi dire un cavolo. Tu non devi vedermi, a me non interessa sapere chi siete e che fate perché io adesso vi sparo! Hai capito? Vi sparo!” Nei 5 secondi successivi cadde un silenzio di ghiaccio. Io non ero indietreggiato di un centimetro e avevo lo sguardo fisso nella sua direzione con le braccia distese lungo il corpo e non avevo intenzione di farlo. Se voleva spararmi avrebbe dovuto farlo mentre i miei occhi erano puntati su di lui.
Forse i miei amici capirono che la situazione sarebbe potuta degenerare, così Kati prese coraggio e chiedendo scusa cercò di spiegare che noi eravamo lì per osservare le stelle e non volevamo dar fastidio a nessuno. La sua aria più pacata, sommessa e la voce dolce di una ragazza spaventata, lo fecero tornare in sé quel tanto che bastava per fargli inveire frasi diverse: “Voi me lo dovete dire prima che venite quassù, allora se lo so potete restare anche tutta la notte senza problemi.” Kati ripeté di scusarsi, così intervenni io, di nuovo, in modo un po’ provocatorio: “Quindi ora possiamo restare?” E lui, apparentemente più calmo: “Se so cosa state facendo potete starci ma le prossime volte me lo dovete dire, mi chiamate il pomeriggio e poi io lo so e state tranquilli”.
All’improvviso abbassò la torcia, fece un paio di passi indietro, sembrò che stesse per andarsene e invece puntò il fucile verso l’alto e sparò, facendoci saltare dalla paura. Con una faccia da psicopatico che non dimenticherò mai, esclamò: “Perché faccio sul serio, ci siamo capiti? Ora potete pure restare”.
Con questa conclusiva scenata ritornò verso casa lasciando i miei amici basiti e spaventati. La mia reazione, invece, era diversa, perché quell’ultima sceneggiata finale se la poteva risparmiare. In me era forte il desiderio di giustizia, la voglia di fargli pagare un’azione sconsiderata, oltraggiosa e pericolosissima per la nostra stessa vita. Così la mia prima reazione verso gli altri fu chiara: “Bene, io adesso chiamo i carabinieri e lo faccio arrestare! Eh no, non la può mica passare liscia, col cavolo che la fa franca questo delinquente!”
Non mi aspettavo tanta popolarità da questa frase e in effetti la paura aveva fatto, come al solito, la sua parte: nessuno era convinto di questa mia scelta. Kati e Giovanni, addirittura, erano contrari perché: “Tu chiami i carabinieri e questo ci ammazza!”. Io allora mi arrabbiai: “Ma ragazzi, che vogliamo fare? Critichiamo sempre certi comportamenti tipici dell’italiano e poi, quando tocca a noi, ci comportiamo da conigli codardi e lasciamo correre un fatto così grave? Se questo Paese va a rotoli ci dobbiamo adeguare anche noi? No, non se ne parla; avete due possibilità. O restate qui con me e aspettiamo i carabinieri o ve ne andate ora a casa e resto io da solo ad aspettarli!” “Ma che dici, quello ti ammazza se resti da solo” replicò spaventata Kati. “Intanto torniamo dagli strumenti e mettiamoli via, poi possiamo chiamare i carabinieri e nasconderci nel caso dietro le macchine” rispose Giovanni cercando di accontentare entrambi.
Mentre gli altri smontavano gli strumenti, io decisi di lasciare il mio lì e, anzi, di scattare qualche foto visto che il cielo si era aperto. Non volevo che quel pazzo mi rovinasse la serata, era qualcosa che non riuscivo a tollerare. Posso infatti accettare poteri ben più grandi di me, come quello della Natura, che rispetto e ammiro, ma lasciarmi rovinare anche solo un minuto della mia vita da un altro essere umano, per di più socialmente pericoloso, non potevo e non potrò mai accettarlo.
Mentre i miei amici in preda al panico mi consideravano pazzo a fare foto, io cercavo di persuaderli che anche quando tutto va male, anche quando non c’è giustizia e la corruzione e la delinquenza regnano sovrani, ci dovrebbe essere qualcosa dentro di noi, ben prima della legge, che ci faccia reagire invece di accettare tutto questo schifo. Le cose giuste non ce le può dire uno stato quali sono, ma il nostro senso morale e la nostra etica, tutte quelle cose che mancano a questo Paese per definirsi davvero civile, la cui latitanza fa sentire un povero imbecille in diritto di arrivare a minacciare di morte dei calmi ragazzi che il sabato sera hanno deciso di andar a vedere le stelle invece che distruggersi in discoteca.
Insistendo e forzando la mano, io i carabinieri li chiamai e, a prescindere da tutto l’apparato di (in)giustizia e malaffare che sta al di sopra di loro, quella sera il loro comportamento fu esemplare.
Esemplare per la gentilezza e la pazienza di chi era al telefono dall’altra parte che cercava di capire dove eravamo. Perfetto per la velocità con cui dopo pochi minuti una volante ci raggiunse. Ammirevole per il modo in cui appena arrivati cercarono di tranquillizzarci e presero molto sul serio la situazione.
In pochi minuti la volante fece visita alla casa dell’uomo, che li fece entrare con qualche, sospetto, minuto di ritardo. Con il nostro aiuto ritrovarono il bossolo sparato poco prima dal suo fucile, la prova che non ci eravamo inventati nulla, e tutti finimmo in caserma a lasciare la nostra deposizione.
Un piccolo paese, una caserma piccola, così quando arrivammo c’era lui seduto su una sedia nel corridoio con la testa china, in compagnia della sua sorella avvocato. E mi fece ribrezzo in quel momento e forse per sempre, l’aria arrogante e di sfida della sorella, che mise subito in dubbio la nostra versione, al punto che il Maresciallo le fece notare che era stato ritrovato pure il bossolo del colpo sparato dal fratello. Lì, di fronte a noi, quei due esseri spregevoli non solo non ci chiesero scusa, ma negarono pure l’accaduto. Ecco perché la compagnia che meno preferisco è quella degli esseri umani, gli unici in grado di mostrare un comportamento così viscido e senza ritegno che è ben peggiore della più spregevole bestia che sia mai esistita su questo pianeta.
E così, quella serata che doveva essere una rinascita sotto un cielo finalmente sereno, si trasformò nell’avventura più pericolosa che abbia mai vissuto fino a questo momento. Ho visitato tutti i continenti del mondo; mi sono spinto a tu per tu con le renne selvagge nel circolo polare artico. Ho sfidato la notte gelida della Lapponia con una felpa e delle scarpe da ginnastica. Ho attraversato da solo, di notte, la foresta pluviale australiana, ho osservato al buio totale da un campo che poteva ospitare serpenti letali, scorpioni, ragni. Ho percorso con un’utilitaria oltre 70 chilometri di strada sterrata e deserta, ho viaggiato nel Sahara sulla gobba di un cammello… Eppure, il pericolo più grande per la mia vita l’ho trovato a 12 km da casa, a causa della malignità di una bestia folle che in casa aveva un vero e proprio arsenale e che, forse, quella sera se non ci fossimo precipitati da lui, ci avrebbe sparato da lontano.

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