Non sempre le serate sotto le
stelle promettono di essere emozionanti, avventurose,
indimenticabili. O meglio, non sempre questi aggettivi si sposano
bene con le sensazioni positive (e forse persino un po' stucchevoli)
che ho raccontato nei capitoli precedenti.
A volte, per fortuna poche,
anzi, a me solo una, capita che l'avventura e l'indimenticabile
momento di una serata non sia associato a ciò che di bello ha da
offrire il cielo ma all'animale più pericoloso e mentalmente
instabile che vive su questo pianeta: l'uomo.
Nelle mie avventure in giro
per il mondo ho già raccontato dei canguri curiosi che osservavano
con me in Australia, o dell'inquietante presenza misteriosa che ha
accompagnato la mia prima e folle uscita sotto il cielo del sud a
spasso nella foresta pluviale. In effetti, pensandoci ora a mente
lucida e con qualche anno in più, a volte l'incoscienza della
gioventù e la voglia di cielo mi hanno fatto affrontare certe
situazioni un po' alla leggera. Mai, però, mi sarei aspettato di
poter seriamente rischiare la vita a 15 km da casa mia, nella
immediata periferia di Perugia, in un luogo pubblico e peraltro già
frequentato assiduamente sia da escursionisti di giorno che da
astrofili di notte.
Dopo diversi mesi di impegni e
un periodo di maltempo degno delle piogge monsoniche che affliggono
l'Asia (con il dettaglio che nel nostro caso sono durate un anno e
non solo sei mesi), la voglia di cielo in una mite serata autunnale
era ormai letteralmente alle stelle. Grazie all'incredibile clemenza
del meteo che concesse un po' di sereno in prossimità del fine
settimana e della Luna nuova (eventualità che si è verificata per
ben 6 volte... in due anni!) poche ore prima di cena decisi di andare
a osservare il cielo da un posto buio nelle vicinanze, insieme ai
validi giovani dell'associazione astrofili Paolo Maffei, di cui ero
(e chissà se lo sono ancora, dipende da che anno è) il presidente.
Io, Giovanni, Federico e Kati, tutti nomi non di fantasia, decidemmo
di andare in un posto che Giovanni e Federico avevano scoperto un
mese prima e dal quale avevano fatto buone osservazioni.
Con un ritrovato entusiasmo
dopo mesi bui passati su libri e sotto pioggia e nebbia, non riuscivo
a credere che quella sera avrei finalmente rivisto le stelle e, a
quanto pare, da un ottimo cielo, nonostante fosse vicino a Perugia.
Mentre con la macchina ci
inerpicavamo su una collina sperduta, percorrendo una strada
polverosa, stavo già pensando a cosa avrei fotografato e cosa invece
avrei osservato con il mio fido binocolo.
Arrivati sul posto e
parcheggiate le auto su un ampio prato ai bordi di un sentiero da
mountain bike, riconobbi il luogo perché qualche anno addietro
insieme all'associazione astrofili ci facemmo una serata pubblica di
gran successo (anche se c'erano le nuvole, come solito).
Sceso dall'auto guardai verso
l'alto e per la prima volta in diversi mesi vidi nel cielo una serie
di puntini luminosi disposti apparentemente a caso. “Caspita,
allora le stelle sono fatte così, questo è un cielo sereno!”
pensai tra me e me, o forse lo sussurrai ai miei compagni di
osservazione.
Ridendo e scherzando, come se
alla fine di un lungo tunnel tutti avessimo ritrovato un sorriso che
solo il cielo scuro e stellato può regalare, cominciammo a schierare
la nostra attrezzatura fotografica, maledicendo il lampione acceso
dell'unica casa della zona, distante circa 200 metri in linea d'aria
ma alquanto fastidioso. “L'altra volta era spento” disse sicuro
di sé Giovanni, seguito dalla conferma di Federico. “Sarà il caso
di andare giù e dirgli se ci fa il favore di spegnerlo?” disse
sempre Giovanni. “Per il momento no, dai, mi serve per fare il
fuoco” risposi io tra l'ironico e il serio.
Pochi minuti e la mia
attrezzatura minimale era pronta, ma quella volta fui battuto da
Federico che aveva già iniziato a scattare foto verso il polo nord
celeste, cercando di costruire la classica strisciata delle stelle
che prometteva di diventare spettacolare, perché di fronte a noi,
proprio verso il nord, c'era un rudere abbandonato che si stagliava
sul cielo molto scuro.
Dopo aver sistemato gli ultimi
dettagli, anche io divenni operativo ma come nella migliore
tradizione, e nonostante tutte le previsioni, cominciarono a formarsi
fastidiose nuvole proprio sopra le nostre teste. “Non è possibile”
gridai per primo con un amaro sorriso, reso ancora più intenso dal
fatto che le nuvole si stavano creando sopra le nostre teste e
sembravano volerci stazionare, mentre il cielo tutt'intorno
continuava a essere libero.
“Ecco la nuvola di Fantozzi”
rincarai la dose mentre gli altri preferivano star in silenzio,
magari concentrandosi sul montaggio dei loro telescopi.
Anche io in quella
circostanza, come qualsiasi persona matura di questa nostra seria
società, preferii voltare le spalle al problema, iniziando a
scattare foto nell’unica zona di cielo libera, verso il nord.
In un clima di festa e
spensieratezza che solo un buon cielo (seppur mezzo nuvoloso) può
regalare, cominciai come solito a fare un po’ il pagliaccio e a
prendere in giro gli altri.
A un certo punto una macchina
in lontananza percorse la strada sterrata e si fermò al cancello
dell’abitazione. “Bene, i proprietari erano fuori, vedrai ora che
ci spengono le luci!” commentò soddisfatto Giovanni. “Sì, o ci
vedono qui e ci sparano!” ribattei io ridendo. Nessuno ovviamente
aveva preso sul serio le mie parole, una frase che ripetevo sempre
durante le uscite in posti remoti.
Dopo qualche minuto il faro
fuori si spense e la serata sembrava volgere al meglio, anche perché
le nuvole sembravano voler scomparire da lì a breve.
Purtroppo, però, le sorprese
sono sempre dietro l’angolo e a quella non eravamo di certo pronti
a reagire, ammesso che si potesse essere pronti a una cosa del
genere.
A un certo punto dalla casa
partì un potente fascio di luce, presumibilmente di una grossa
torcia, proprio fuori da quella che sembrava essere l’entrata al
primo piano. La luce illuminò in modo chiaro noi, le nostre auto e i
nostri strumenti e di colpo su di noi cadde un po’ di
preoccupazione. “Ragazzi, il proprietario forse si è preoccupato,
perché non andiamo a dirgli chi siamo e cosa stiamo facendo?”
disse Giovanni con voce seria, subito incoraggiato da Federico e
Kati. Anche io ero d’accordo ma cercai di sdrammatizzare a modo
mio: “Sì, andiamo a parlargli così se ne sta tranquillo,
altrimenti questo ci spara!” Forse la battuta era fuori luogo
perché i volti erano tutti preoccupati, al punto che non uscì una
parola a seguito della mia frase. Ci incamminammo allora verso la
casa, proprio pochi secondi dopo che la luce si era spenta.
Percorsi una decina di metri,
forse venti, si accese la luce del portico al primo piano e uscì
correndo una sagoma scura che imbracciava evidente un lungo fucile.
Fu il panico tra di noi.
Federico fu il più reattivo e
correndo verso la casa si mise a gridare: “Non spari, non spari!
Stiamo venendo a spiegarle cosa stiamo facendo! Non spari!!”
Tutti insieme iniziammo a
correre verso la recinzione esterna della casa, là dove la sagoma
scura sembrava essersi diretta, in completo stato di shock,
sussurrando tra di noi frasi tremolanti del tipo: “Questo è
matto!”, “questo ora ci spara”, “questo è impazzito!”.
Quando arrivammo nei pressi
della recinzione, in cuor mio sapevo che il grosso malinteso si
sarebbe risolto con una sana risata. Alla fine eravamo su un luogo
pubblico, centinaia di metri lontano dalla casa, non avevamo fatto
casino, avevamo le macchine con la targa di Perugia in bella vista e
quando ci illuminò con la torcia le vide bene, così come vide
benissimo i nostri visi e i telescopi.
Sapevo che sarebbe andato
tutto bene, se solo di fronte a noi avessimo avuto una persona sana
di mente e non un pazzo squilibrato pronto a farci saltare in aria la
testa nonostante avesse benissimo capito cosa stavamo facendo.
Quando Federico arrivò per
primo al recinto, il pazzo iniziò a urlare verso di noi, puntando il
fucile in direzione della sua testa e accecandolo con una torcia a
led puntata in viso. Una scena degna di una banda criminale ben
organizzata.
Non posso ripetere le ingiurie
e le parole che il pazzo psicotico iniziò a pronunciare, così
renderò il racconto un po’ più adatto ai lettori. “Che cavolo
fate qui, io vi sparo, vi sparo! Chi cavolo siete, chi vi ha detto vi
venire qui? Non siete mica al centro a Perugia, io se vi vedo qui vi
buco!”
La litania delle minacce
proseguì a oltranza senza che nessuno riuscisse a calmarlo; anzi,
quando Federico provò a spiegare che eravamo solo appassionati del
cielo a vedere le stelle, il tizio si avvicinò ancora di più con il
fucile, minacciando di fargli saltare la testa: ”Non me ne frega
niente che siete venuti a fare qui, io vi buco, vi sparo!” Senza
via d’uscita e con Federico ormai bloccato dalla paura, presi
coraggio, mi avvicinai fino a poche decine di centimetri dal recinto,
che il codardo aveva lasciato tra noi e lui, e intervenni con garbo e
con le braccia basse, cercando di non fare bruschi movimenti.
“Signore, scusi, ci lasci spiegare!”
Questo bastò al folle per
distogliere l’attenzione da Federico e rivolgerla verso di me, con
una rabbia tanto immotivata quanto folle. “E tu chi cavolo sei? Che
cavolo vuoi? Lo vuoi capire che ti sparo? Voi qui non ci dovete
stare, dovete dirmelo prima altrimenti vi trovo e vi sparo, tanto non
è la prima volta!” Con la canna del fucile puntata a circa 50
centimetri dalla mia testa e con il suo dito sempre sul grilletto, la
mia unica paura era che potesse partire un colpo accidentale, anche
se speravo che il fucile fosse scarico e quella fosse solo una
scenata per spaventarci. Ero allora combattuto tra due contrapposte
sensazioni. Da una parte ero spaventato, dall’altra ero talmente
arrabbiato che se non ci fosse stato il recinto di mezzo gli sarei
saltato al collo.
Come si permetteva di
minacciare me e i miei amici in quel modo, senza che avessimo fatto
niente e, soprattutto, senza voler sentire alcuna spiegazione? Ci può
anche stare la paura di vedere a poche centinaia di metri da casa
macchine e persone mai viste, di notte. Ci può stare anche che
l’ignoranza sia tale da non aver capito cosa stavamo facendo,
sebbene i telescopi fossero evidenti e non fosse la prima volta che
degli appassionati si radunassero lì a veder le stelle. Ma tutto
quello che era venuto dopo, l’isteria, l’odio, la cattiveria,
l’intolleranza, la rabbia cieca e la voglia di sopprimere il
prossimo come un animale che innocente si ritrovava semplicemente a
passare di lì senza alcuna colpa, questo non lo accettavo.
Nella sua follia si notavano
bene le azioni di chi sapeva perfettamente cosa fare e come farlo. La
luce forte puntata sugli occhi, le urla da pazzo isterico, il fucile
in testa mentre con l’altra mano sorreggeva la lampada sempre
puntata sui nostri occhi. Era, purtroppo, una follia organizzata e
non improvvisata. E quello che accadde subito dopo confermò tutto
quanto.
Con le sue insistenti minacce
di spararmi e la canna del fucile sempre più vicina, la mia sete di
giustizia prese il sopravvento, così invece di abbassare lo sguardo,
alzare le mani o indietreggiare, lo sfidai avvicinandomi di un altro
passo e guardandolo dritto negli occhi, che non potevo vedere, ed
esclamai con voce ferma: “Se abbassa il fucile e la luce le
spieghiamo con calma cosa stiamo facendo qui. Io così non riesco
neanche a vederla!”. Fu la goccia che scatenò l’inferno.
Indispettivo dalle mie parole
di sfida, iniziò a inveire come se fosse in preda a una crisi
isterica. Puntandomi il fucile in faccia e facendo dei rapidi
movimenti avanti e indietro con la canna come se avesse
l’irresistibile voglia di sparare solo per il gusto di farlo,
cominciò a esclamare: “Tu non mi devi dire un cavolo. Tu non devi
vedermi, a me non interessa sapere chi siete e che fate perché io
adesso vi sparo! Hai capito? Vi sparo!” Nei 5 secondi successivi
cadde un silenzio di ghiaccio. Io non ero indietreggiato di un
centimetro e avevo lo sguardo fisso nella sua direzione con le
braccia distese lungo il corpo e non avevo intenzione di farlo. Se
voleva spararmi avrebbe dovuto farlo mentre i miei occhi erano
puntati su di lui.
Forse i miei amici capirono
che la situazione sarebbe potuta degenerare, così Kati prese
coraggio e chiedendo scusa cercò di spiegare che noi eravamo lì per
osservare le stelle e non volevamo dar fastidio a nessuno. La sua
aria più pacata, sommessa e la voce dolce di una ragazza spaventata,
lo fecero tornare in sé quel tanto che bastava per fargli inveire
frasi diverse: “Voi me lo dovete dire prima che venite quassù,
allora se lo so potete restare anche tutta la notte senza problemi.”
Kati ripeté di scusarsi, così intervenni io, di nuovo, in modo un
po’ provocatorio: “Quindi ora possiamo restare?” E lui,
apparentemente più calmo: “Se so cosa state facendo potete starci
ma le prossime volte me lo dovete dire, mi chiamate il pomeriggio e
poi io lo so e state tranquilli”.
All’improvviso abbassò la
torcia, fece un paio di passi indietro, sembrò che stesse per
andarsene e invece puntò il fucile verso l’alto e sparò,
facendoci saltare dalla paura. Con una faccia da psicopatico che non
dimenticherò mai, esclamò: “Perché faccio sul serio, ci siamo
capiti? Ora potete pure restare”.
Con questa conclusiva scenata
ritornò verso casa lasciando i miei amici basiti e spaventati. La
mia reazione, invece, era diversa, perché quell’ultima sceneggiata
finale se la poteva risparmiare. In me era forte il desiderio di
giustizia, la voglia di fargli pagare un’azione sconsiderata,
oltraggiosa e pericolosissima per la nostra stessa vita. Così la mia
prima reazione verso gli altri fu chiara: “Bene, io adesso chiamo i
carabinieri e lo faccio arrestare! Eh no, non la può mica passare
liscia, col cavolo che la fa franca questo delinquente!”
Non mi aspettavo tanta
popolarità da questa frase e in effetti la paura aveva fatto, come
al solito, la sua parte: nessuno era convinto di questa mia scelta.
Kati e Giovanni, addirittura, erano contrari perché: “Tu chiami i
carabinieri e questo ci ammazza!”. Io allora mi arrabbiai: “Ma
ragazzi, che vogliamo fare? Critichiamo sempre certi comportamenti
tipici dell’italiano e poi, quando tocca a noi, ci comportiamo da
conigli codardi e lasciamo correre un fatto così grave? Se questo
Paese va a rotoli ci dobbiamo adeguare anche noi? No, non se ne
parla; avete due possibilità. O restate qui con me e aspettiamo i
carabinieri o ve ne andate ora a casa e resto io da solo ad
aspettarli!” “Ma che dici, quello ti ammazza se resti da solo”
replicò spaventata Kati. “Intanto torniamo dagli strumenti e
mettiamoli via, poi possiamo chiamare i carabinieri e nasconderci nel
caso dietro le macchine” rispose Giovanni cercando di accontentare
entrambi.
Mentre gli altri smontavano
gli strumenti, io decisi di lasciare il mio lì e, anzi, di scattare
qualche foto visto che il cielo si era aperto. Non volevo che quel
pazzo mi rovinasse la serata, era qualcosa che non riuscivo a
tollerare. Posso infatti accettare poteri ben più grandi di me, come
quello della Natura, che rispetto e ammiro, ma lasciarmi rovinare
anche solo un minuto della mia vita da un altro essere umano, per di
più socialmente pericoloso, non potevo e non potrò mai accettarlo.
Mentre i miei amici in preda
al panico mi consideravano pazzo a fare foto, io cercavo di
persuaderli che anche quando tutto va male, anche quando non c’è
giustizia e la corruzione e la delinquenza regnano sovrani, ci
dovrebbe essere qualcosa dentro di noi, ben prima della legge, che ci
faccia reagire invece di accettare tutto questo schifo. Le cose
giuste non ce le può dire uno stato quali sono, ma il nostro senso
morale e la nostra etica, tutte quelle cose che mancano a questo
Paese per definirsi davvero civile, la cui latitanza fa sentire un
povero imbecille in diritto di arrivare a minacciare di morte dei
calmi ragazzi che il sabato sera hanno deciso di andar a vedere le
stelle invece che distruggersi in discoteca.
Insistendo e forzando la mano,
io i carabinieri li chiamai e, a prescindere da tutto l’apparato di
(in)giustizia e malaffare che sta al di sopra di loro, quella sera il
loro comportamento fu esemplare.
Esemplare per la gentilezza e
la pazienza di chi era al telefono dall’altra parte che cercava di
capire dove eravamo. Perfetto per la velocità con cui dopo pochi
minuti una volante ci raggiunse. Ammirevole per il modo in cui appena
arrivati cercarono di tranquillizzarci e presero molto sul serio la
situazione.
In pochi minuti la volante
fece visita alla casa dell’uomo, che li fece entrare con qualche,
sospetto, minuto di ritardo. Con il nostro aiuto ritrovarono il
bossolo sparato poco prima dal suo fucile, la prova che non ci
eravamo inventati nulla, e tutti finimmo in caserma a lasciare la
nostra deposizione.
Un piccolo paese, una caserma
piccola, così quando arrivammo c’era lui seduto su una sedia nel
corridoio con la testa china, in compagnia della sua sorella
avvocato. E mi fece ribrezzo in quel momento e forse per sempre,
l’aria arrogante e di sfida della sorella, che mise subito in
dubbio la nostra versione, al punto che il Maresciallo le fece notare
che era stato ritrovato pure il bossolo del colpo sparato dal
fratello. Lì, di fronte a noi, quei due esseri spregevoli non solo
non ci chiesero scusa, ma negarono pure l’accaduto. Ecco perché la
compagnia che meno preferisco è quella degli esseri umani, gli unici
in grado di mostrare un comportamento così viscido e senza ritegno
che è ben peggiore della più spregevole bestia che sia mai esistita
su questo pianeta.
E così, quella serata che
doveva essere una rinascita sotto un cielo finalmente sereno, si
trasformò nell’avventura più pericolosa che abbia mai vissuto
fino a questo momento. Ho visitato tutti i continenti del mondo; mi
sono spinto a tu per tu con le renne selvagge nel circolo polare
artico. Ho sfidato la notte gelida della Lapponia con una felpa e
delle scarpe da ginnastica. Ho attraversato da solo, di notte, la
foresta pluviale australiana, ho osservato al buio totale da un campo
che poteva ospitare serpenti letali, scorpioni, ragni. Ho percorso
con un’utilitaria oltre 70 chilometri di strada sterrata e deserta,
ho viaggiato nel Sahara sulla gobba di un cammello… Eppure, il
pericolo più grande per la mia vita l’ho trovato a 12 km da casa,
a causa della malignità di una bestia folle che in casa aveva un
vero e proprio arsenale e che, forse, quella sera se non ci fossimo
precipitati da lui, ci avrebbe sparato da lontano.