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giovedì 9 febbraio 2017

La scoperta dell'Universo, parte 3: l'espansione dello spazio

Quando Edwin Hubble dimostrò che le nebulose spiraliformi, e in generale tutti gli oggetti diffusi dal colore e dallo spettro simile a quello delle stelle, erano delle galassie come la Via Lattea e molto, molto lontane, si aprì la caccia a quella che in breve tempo sarebbe diventata una popolazione di milioni di nuovi oggetti celesti.
Il padre delle galassie diede naturalmente il suo fondamentale contributo, classificandole dapprima secondo la forma in tre grandi classi: ellittiche, spirali e irregolari. Oggi sappiamo che alla base di questa divisione, che era puramente osservativa, ci sono differenze morfologiche e fisiche molto importanti.

Il secondo studio che fece Hubble fu analizzare l’intensità della luce in funzione della lunghezza d’onda, in altre parole lo spettro. Cosa sperava di trovare scomponendo la luce delle galassie con un prisma? Non lo sapeva neanche lui, ma è uno dei pochi modi per sperare di carpire i segreti dell’Universo a distanze così incolmabili.
Grazie al metodo di misura della distanza delle Cefeidi, che stava diventando sempre più preciso, il terzo studio che si poteva fare era quello di scovare queste stelle e determinare poi la distanza. Quanto erano dense le galassie nell’Universo? Quale la loro distanza media? C’era qualche proprietà poi che dipendeva da quanto fossero lontane nello spazio e nel tempo? La sfida era affascinante e grazie al fatto che l’Universo è una spettacolare macchina del tempo si poteva rispondere di certo a una domanda molto interessante: come cambiano le galassie con gli anni? Quelle che vediamo lontane centinaia di milioni di anni luce sono simili alla nostra o mostrano segni di una qualche evoluzione? Quando nella scienza si hanno delle aspettative, molte volte vengono disattese e non è raro che la realtà possa superarle di milioni di volte. Quello che stiamo per vedere è uno dei casi più emblematici.

Già prima che Hubble aveva dimostrato la natura extragalattica di queste nebulose, molti astronomi si erano accorti di una cosa un po’ particolare: gli spettri di quelle che all’epoca erano le più deboli sembravano essere tutti spostati verso la regione rossa. La questione era intrigante, ma solo dopo che erano disponibili stime della distanza poté assumere la portata devastante che nascondeva.
Hubble e i suoi colleghi si accorsero che tutte le galassie, a esclusione di qualche rara eccezione come Andromeda, mostravano uno spettro spostato verso il rosso. Cosa significa questo? Che, ad esempio, le regioni di formazione stellare HII, che brillano principalmente a causa dell’emissione della riga alpha dell’idrogeno, a 656,3 nm, mostravano questa riga spostata verso le porzioni più rosse, a 670, 680 o più nm e con essa tutto lo spettro era traslato. Non era però questo il fenomeno che gettò le basi per una nuova branca dell’astronomia e costrinse molti scienziati autorevoli a fare mea culpa. Un comportamento del genere non era infatti sconosciuto: non si tratta di qualche bizzarro e imprevedibile scherzo della Natura, ma di una caratteristica chiamata effetto Doppler.

L’effetto Doppler è il responsabile di quel bizzarro cambio di tonalità quando la sirena di un veicolo ci sfreccia di fronte a grande velocità. Mentre è in avvicinamento le onde sonore, che viaggiano nell’aria a velocità fissa, vengono compresse dal movimento. Il risultato è un accorciamento della loro lunghezza e un aumento della frequenza sentita. Quando la sirena ci sorpassa e si allontana le onde sonore vengono stirate, aumentandone la lunghezza e diminuendo la frequenza sentita.
Con la radiazione elettromagnetica accade la stessa cosa: un oggetto che si avvicina a noi mostra uno spettro spostato verso le lunghezze d’onda più corte, quindi verso il blu. Un corpo celeste che si allontana mostra tutto lo spettro delle onde elettromagnetiche di cui è composto più “stirato”, quindi spostato verso la parte rossa. Le osservazioni di Hubble mostravano spettri di galassie spostati tutti verso lunghezze d’onda più lunghe (verso il rosso), quindi la conclusione era scontata: tutte le galassie, in ogni parte di cielo si guardi, si allontanano da noi. Ma com’è possibile? Le nostre antenne si sono drizzate: qui c’è puzza di paradosso!
Il problema delle osservazioni di Hubble era legato proprio all’interpretazione di questa conclusione paradossale. Com’era possibile che tutte le galassie del cielo, in ogni parte lo si guardi, si allontanassero dalla nostra? Com’è possibile, poi, che la velocità con cui si allontanano è direttamente proporzionale alla distanza? Perché le galassie più lontane si muovono con velocità maggiori da noi rispetto a quelle più vicine? Stiamo impazzendo? Stiamo sbagliando qualcosa nelle nostre misure? O siamo di fronte al segreto più grande del nostro Universo?

Hubble, in preda a tutti questi dubbi, ripeté, ricontrollò e migliorò le osservazioni, ma nulla cambiò nel risultato: le galassie dell’Universo si allontanano dalla Via Lattea con una velocità proporzionale alla distanza, non c’è alternativa a questo punto fermo. La costante di proporzionalità per trasformare la distanza in velocità sarebbe ben presto stata conosciuta come costante di Hubble. Il suo significato racchiude in un numero e un’unità di misura, con l’eleganza unica della fisica, quello che le parole descriverebbero a fatica in una o più pagine.

Quando tutte le soluzioni possibili sono da scartare, nella scienza non resta che ammettere quello che era considerato impossibile, o quasi. Non è infatti sensato pensare che tutte le galassie dell’Universo evitino la Via Lattea come se fosse portatrice di una brutta malattia, per di più con una velocità tanto maggiore quanto più sono distanti. Non è neanche possibile spiegare come in un Universo statico e immobile tutte le galassie a una certa distanza, in ogni parte del cielo, debbano avere la medesima velocità di allontanamento. Come avrebbero fatto a mettersi d’accordo, separate da miliardi di anni luce di spazio?

L'Universo si espande come un palloncino che si gonfia
L’unica spiegazione, per quanto assurda, fuori da ogni esperienza, dalle conseguenze non ben comprensibili e dalla portata sicuramente distruttiva su quanto credevamo di conoscere dell’Universo, era in realtà semplice. In tre parole possiamo spiegare benissimo tutto, senza eccezioni alle nostre osservazioni: Universo in espansione. Sì, l’Universo non può essere statico come si pensava, non è possibile. E d’altra parte anche la teoria della relatività generale di Einstein aveva dimostrato quello che grazie ad Hubble era diventata una palese prova osservativa. Il problema è che a quel tempo l’idea di un Universo in evoluzione non era per niente facile da accettare, ecco perché il padre della relatività si inventò quel parametro chiamato costante cosmologica per sistemare, ai suoi occhi, una teoria che in realtà aveva previsto tutto prima che Hubble la provasse con le osservazioni.

Einstein, il grande genio che aveva rivoluzionato la fisica e l’astrofisica, questa volta aveva sbagliato. Fu lui stesso a riconoscerlo, dicendo che quel parametro era stato l’errore più grande della sua vita. Questa lezione di umiltà testimonia ancora una volta a cosa dovrebbe ambire un ottimo scienziato e un bravo essere umano ben integrato nella società. Tutti possiamo sbagliare, anzi, l’errore spesso è il modo migliore per progredire. Mettiamo da parte la rabbia e l’orgoglio e concentriamoci piuttosto sul lavoro che dobbiamo fare prima per riconoscerlo, poi per accettarlo e infine per cambiare idea. Non è concepibile continuare a difendere le proprie convinzioni contro tutte le prove contrarie, arrivando persino a screditare chi le ha scoperte. È questa la differenza tra un uomo intelligente e uno stupido.

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