Pagine

lunedì 28 marzo 2016

Un asteroide impatta (di nuovo) su GIove

Giove ha da poco passato l'opposizione e si trova quindi nel periodo migliore dell'anno per essere osservato. Grazie alla numerosa schiera di appassionati di astronomia e di fotografia planetaria, il gigante gassoso è continuamente monitorato con un'ottima risoluzione e può quindi regalare sorprese inaspettate.

L'impatto scoperto dall'austriaco Kernbauer
Lo scorso 17 Marzo, alle ore 00:17 UT (Tempo Universale) è arrivato il momento di una di quelle sorprese che ogni appassionato spera di ricevere e che di certo ci fanno ben comprendere come l'Universo non sia affatto un luogo statico e pacifico come potremmo erroneamente pensare.
Almeno due osservatori indipendenti hanno registrato un breve flash proveniente dal bordo del pianeta gassoso, che ha raggiunto una luminosità superiore a quella dei satelliti medicei. L'evento è stato scoperto per primo dall'astronomo dilettante austriaco Kernbauer e poi confermato da
John McKeon, a nord di Dublino.
Con molta probabilità il flash, della durata dell'ordine di un secondo, è associabile all'impatto di un piccolo asteroide o di una cometa con l'atmosfera del gigante gassoso.
L'impatto confermato da John McKeon

Non sono ancora disponibili stime delle dimensioni del corpo celeste che ha deciso di soccombere all'enorme forza di gravità di Giove e nemmeno una stima precisa della posizione, anche a causa del fatto che l'evento si è verificato proprio nei pressi del bordo, laddove la determinazione esatta della posizione presenta grossi problemi, all'altezza della banda equatoriale nord. L'impatto è comunque reale perché è stato registrato dalle camere planetarie che molti astronomi dilettanti utilizzano per catturare splendide immagini in alta risoluzione dei pianeti, quindi su un supporto di certo ben più oggettivo dell'occhio umano. I due video che mostrano il flash sono stati pubblicati su YouTube e sono visualizzabili qui e qui.

Osservando a occhio i filmati disponibili è ragionevole stimare che il corpo impattante potrebbe avere avuto un diametro massimo di qualche decina di metri, probabilmente non troppo dissimile dal meteorite di 17 metri di diametro che nel Febbraio del 2013 solcò i cieli della Siberia, portandosi dietro una lunga scia di danni causati dalle onde d'urto generate dall'impatto con gli strati atmosferici più densi, a circa 30-50 km di altezza. Si tratta tuttavia di una rozza stima, perché l'evento potrebbe essere avvenuto nella porzione di Giove non visibile dalla Terra in quel momento. Se questa ipotesi si rivelasse vera, l'energia liberata potrebbe essere stata maggiore, quindi l'asteroide (o la cometa) aumentare di dimensioni.
Sarà interessante notare l'eventuale presenza di cicatrici nell'atmosfera di Giove, che potrebbero presentarsi come delle zone molto scure, quasi come l'ombra lasciata dal passaggio di un satellite mediceo, ma dalla forma più irregolare. Queste cicatrici sono lasciate dagli impatti più violenti che hanno un'alta penetrazione nell'atmosfera gioviana, al punto da bloccare in modo temporaneo i possenti moti convettivi che mantengono sempre in movimento i gas atmosferici. Se il corpo celeste era più grande di 10-20 metri potrebbe aver lasciato una traccia visibile anche con telescopi di piccolo diametro (10 cm).

Assistere in diretta all'impatto di un asteroide, o una piccola cometa, con un corpo celeste che si trova a una distanza che non ha bisogno di scomodare l'anno luce per essere espressa, e che orbita attorno alla nostra stessa stella, rappresenta di certo una forte emozione ma anche un piccolo campanello d'allarme perché ci rende partecipi in prima persona, e quasi in diretta, di quanto sia affollato il Sistema Solare, quindi potenzialmente pericoloso.


Una zona più affollata del previsto
L'impatto registrato lo scorso 17 Marzo non è infatti che l'ultimo di una lunga serie.
L'evento più spettacolare e violento è avvenuto nell'estate del 1994 con una ventina di frammenti della cometa Showmaker-Levy 9 che hanno lasciato profondi e duraturi segni nell'atmosfera di Giove, grandi fino al diametro del nostro pianeta. Fu la prima volta che l'essere umano osservava un oggetto schiantarsi contro un pianeta.

Tutti gli altri impatti registrati risalgono agli ultimi 7 anni e sono opera di astronomi dilettanti.
Il 19 Luglio 2009 l'australiano Anthony Wasley ha scoperto per primo le cicatrici lasciate da un probabile impatto asteroidale, simili a quelle prodotte dai frammenti cometari del 1994. Nessuno, però, aveva assisito in diretta all'evento vero e proprio, che si è stimato essere stato prodotto da un asteroide compreso tra 200 e 500 metri di diametro.
Il 3 Giugno 2010 il famoso imager planetario Christopher Go ha registrato per la prima volta il flash prodotto dall'ingresso nell'atmosfera Gioviana di un asteroide o una cometa dal diametro di una decina di metri.
Il 20 Agosto dello stesso anno sempre Go, con la conferma di altri osservatori, registrò un altro flash associabile a un nuovo impatto.
Il 10 Settembre 2012 un altro flash associato a un impatto è stato avvistato questa volta visualmente dall'astronomo dilettante Dan Petersen e poi confermato da una ripresa di George Hall. Erano quindi quattro anni e mezzo che non si osservavano più eventi di questo tipo, che ora molti planetologi ritengono più frequenti di quanto si pensasse prima del prezioso aiuto arrivato dalla comunità amatoriale nel corso degli ultimi 10 anni.
Capire quanto sia affollato il Sistema Solare e il ruolo che ha Giove nel proteggerci attirando su di sé molte comete e asteroidi sono attività fondamentali per ogni abitante della Terra che spera che la sua e le altre specie possano sopravvivere ancora per molto tempo.

Come si è formato il Sistema Solare?



Rispondere in modo esauriente a questa domanda non è affatto facile perché non possiamo invertire il tempo e osservare i pianeti come erano miliardi di anni fa. Dobbiamo quindi trasformarci in scrupolosi storici e cercare di ricostruire le vicende del nostro vicinato cosmico analizzando i pochi indizi di cui disponiamo, senza dimenticare di sfruttare a nostro favore l’enorme vastità dell’Universo.
Un aiuto molto importante può arrivare dallo studio degli asteroidi e delle comete, poiché si pensa che le loro caratteristiche non siano mutate radicalmente dal tempo della loro formazione. Questi, quindi, possono darci informazioni sull’età delle più antiche rocce del Sistema Solare e sulla composizione chimica del materiale con cui si sono formati i pianeti.
Un altro aiuto potrebbe arrivare dall’analisi dei crateri da impatto su corpi celesti senza atmosfera, come Luna e Mercurio. Il numero degli impatti e una stima dell’età dei terreni che hanno subito il bombardamento consentono di caratterizzare l’ambiente interplanetario nel corso della storia.
Molti degli impatti lunari sono avvenuti tra i 3,5 e i 4 miliardi di anni fa. Porzioni di superficie più recenti, come i mari, hanno una concentrazione nettamente minore di crateri.
La conclusione più logica è pensare che in quelle remote ere il Sistema Solare fosse un posto molto più affollato, popolato da miliardi di asteroidi e addirittura molti piccoli pianeti.

Dischi di detriti attorno a stelle in formazione
Degli importanti indizi per cercare di far luce sulla storia del Sistema Solare arrivano anche dall’esterno.
L’osservazione di numerose stelle, nebulose e sistemi planetari di diverse età, quindi a diversi stadi evolutivi, fornisce un’istantanea abbastanza precisa delle tappe che presumibilmente ha percorso il Sistema Solare dal momento della sua formazione. Non ci sono in effetti motivi per considerare lo sviluppo del Sistema Solare in qualche modo diverso e privilegiato rispetto a quanto accade alle altre stelle dell’Universo. A conferma di ciò, sembra che la formazione di dischi di detriti, quindi sistemi planetari, possa essere un fenomeno comune quanto quello che porta alla nascita delle stelle, probabilmente addirittura inevitabile per tutti gli astri, tranne forse le grandi stelle blu, la cui vita potrebbe essere più breve del tempo richiesto ai pianeti per formarsi.



La teoria attualmente più accreditata per la formazione dei sistemi planetari, compreso il Sistema Solare, è quella della “nebulosa primordiale". Un'immensa nube di gas e polvere in rotazione dalla quale si sarebbero formati il Sole e i pianeti, insieme ad altre decine o centinaia di stelle. È curioso come questa teoria sia stata ipotizzata ben prima delle evidenze scientifiche da alcuni illustri filosofi del passato, tra i quali il grande Immanuel Kant.

Lo scenario della formazione del Sistema Solare potrebbe allora essere il seguente.
Una nube fredda molto estesa di gas interstellare composta di idrogeno, elio, e una piccola parte di elementi pesanti aggregati in forma di polveri (meno del 2% in massa), vaga per la Galassia. Questo miscuglio di sostanze è probabilmente ciò che resta della morte di diverse stelle più antiche, raggruppato dai moti galattici e dalla forza di gravità.
A un certo punto la quantità di gas della nube interstellare è così elevata che la forza di gravità comincia a far sentire i suoi effetti, magari a causa di qualche perturbazione esterna, come l’esplosione di una supernova o la compressione dovuta all’ingresso di uno dei bracci a spirale della Via Lattea. Quando si rompe il delicato equilibrio che sostiene la nube contro la sua stessa forza di gravità, questa prende il sopravvento e inizia a comandare il gioco.
Gas e polveri cominciano a contrarsi sotto il loro stesso peso; la nebulosa si frammenta in regioni più piccole. In ognuna di queste regioni nascerà una stella e, se non ci saranno grossi problemi, anche un sistema planetario.

Concentriamoci quindi solo sulla porzione di nebulosa che produrrà il Sole e i pianeti, la nostra nebulosa primordiale.
Durante la fase di contrazione, che dura diversi milioni di anni, la nube comincia a ruotare sempre più velocemente a causa del principio di conservazione del momento angolare.
Cos’è il momento angolare e cosa implica la sua conservazione? Senza ricorrere a formule fisiche, facciamo un esperimento: proviamo a sederci su una sedia girevole, allarghiamo braccia e gambe e facciamoci mettere in rotazione da un amico. Quando stiamo per fermarci chiudiamo velocemente braccia e gambe, portandole più vicino possibile al corpo: la sedia a questo punto riprenderà a ruotare!
Questo effetto è un principio valido per ogni oggetto e in qualsiasi luogo dell’Universo.
Se la nube protosolare possiede una piccolissima rotazione, quando riduce il suo diametro di diverse decine di volte aumenta per forza la velocità di rotazione. La rotazione globale spiega perfettamente anche perché tutti i pianeti e una grandissima parte dei corpi celesti del Sistema Solare odierno ruotino attorno al Sole nello stesso senso.

A causa della forza centrifuga, la nube assume la forma di un disco, con un diametro della parte più densa di circa 10 miliardi di chilometri e uno spessore di 100 milioni di chilometri.
Nel centro, laddove nascerà il Sole, si accumula una grande quantità di gas.
La contrazione gravitazionale riscalda la zona centrale da una temperatura iniziale di circa -260°C fino a circa 2000°C: si e' formata una protostella, un embrione dalla forma sferica che si trasformerà presto in una stella a tutti gli effetti.
Alla fine del processo il Sole conterrà ben il 99,86% della massa dell’intero Sistema Solare.

Le briciole del gas e polveri rimaste in rotazione attorno alla protostella formano quello che si chiama disco di accrescimento. Le porzioni più vicine alle zone centrali lentamente vengono inglobate dalla protostella, in un processo che aumenta il calore interno a causa della compressione sempre maggiore.
Abbastanza lontano dal centro, il gas si raffredda a sufficienza, a tal punto che una parte si ricondensa in polveri e ghiaccio; le particelle ora sono molto più vicine tra di loro rispetto a quando si trovavano nella nebulosa primordiale, che era migliaia di volte più grande.
Le continue collisioni e la forza di gravità danno inizio a un lento processo di aggregazione fino a formare dei pezzi di roccia di cospicue dimensioni, detti planetesimi. A causa dell’estrema debolezza della forza di gravità, si pensa che le primissime fasi di formazione dei detriti a partire da granelli di polveri dalle dimensioni tipiche di qualche micron, siano in realtà dominate da un’altra forza. Proprio come le goccioline di pioggia di una nube, scontrandosi tra di loro si caricano di elettricità statica che scaricano poi a terra attraverso un fulmine, anche nella nebulosa primordiale il materiale nel disco di carica per sfregamento. La forza elettrostatica risultante è abbastanza forte, di certo ben più della gravità, per iniziare ad accumulare i granelli di polvere e formare dei piccoli nuclei che mano a mano inizieranno a sentire anche la reciproca forza di gravità.
Non si sa bene quando avvenga il passaggio di consegne tra forza elettrostatica e gravità, ma di certo, quando si arriva ad avere dei planetesimi, che si possono considerare dei piccoli asteroidi, la gravità ormai è l’unica forza a comandare il gioco, in un crescendo Rossiniano.
Fasi principali della formazione del Sistema Solare

Presenti probabilmente a migliaia di miliardi lungo il disco di accrescimento, i planetesimi, mano a mano che si scontrano e si fondono generano sempre maggiore forza di gravità, che aumenta il tasso e la violenza delle collisioni con altri planetesimi. Le elevatissime temperature indotte dalle collisioni sempre più violente fondono il planetesimo e lentamente gli conferiscono una forma sferica, cancellando completamente qualsiasi segno evolutivo precedente, compresi i materiali più volatili, che si aggregheranno solamente nelle più tranquille periferie o formeranno successivamente le atmosfere.

Dopo queste violente fasi, i planetesimi sono diventati dei protopianeti completamente fusi, con temperature di diverse migliaia di gradi.
I protopianeti sono gli embrioni dei pianeti attuali. Le loro dimensioni dipendono criticamente dalla distanza dal Sole e dalla densità del disco di polveri.
In questa fase si produce anche il fenomeno della differenziazione gravitazionale: i materiali più pesanti, come nichel e ferro, sprofondano verso il centro lasciando sulla superficie principalmente silicati e metalli leggeri.
Il calore lentamente si disperderà nello spazio raffreddando la superficie, ma non il nucleo, che potrà mantenersi a migliaia di gradi per diversi miliardi di anni, grazie anche al calore generato dal decadimento radioattivo di alcuni elementi, tra cui l’uranio, almeno per i corpi celesti massicci almeno quanto la Terra.

Nelle regioni interne, la grande quantità di radiazione emessa dalla protostella che si sta accendendo e l’intenso calore tendono a vaporizzare e disperdere verso l’esterno gas e polveri del disco. La maggiore concentrazione si raggiunge in una zona a circa 600-800 milioni di chilometri di distanza.
La differenza di dimensioni tra i pianeti rocciosi e quelli giganti prova la validità di questo scenario, con Giove, il più grande, aggregatosi proprio a circa 800 milioni di chilometri dal centro.
La formazione dei protopianeti può richiedere da circa centomila a venti milioni di anni.

A un certo punto, però, qualcosa interrompe bruscamente la fase di accrescimento.
Il calore nel nucleo della protostella sta superando la temperatura critica di 10 milioni di gradi.
Il Sole si accende finalmente di energia propria attraverso i processi di fusione termonucleare: la nostra stella è nata.
In conseguenza dell’accensione, il Sole primordiale emette un grande flusso di particelle cariche, un vento solare piuttosto violento in grado di spazzare via il gas residuo dalle regioni interne del Sistema Solare.
Da questo momento il destino dei pianeti è determinato dalla massa raggiunta fino a quel momento e dalla distanza dal neonato Sole.
Se il protopianeta è abbastanza massiccio da trattenere una parte del gas con la propria gravità, si formerà un pianeta gassoso, altrimenti parte o addirittura tutto l’inviluppo gassoso formatosi verrà spazzato via dal vento solare. Il risultato in questo caso sarà un pianeta roccioso.

Le osservazioni dei nuclei dei pianeti gassosi confermano questa ipotesi: le loro dimensioni sono simili a quelle dei pianeti interni, a conferma che sotto un certo punto di vista i pianeti rocciosi non sono altro che nuclei di pianeti gassosi privati dell’inviluppo atmosferico a causa del vento solare e delle alte temperature nelle regioni in cui si sono formati.
La pulizia operata dal vento solare di fatto blocca completamente il processo di formazione dei corpi celesti, dando inizio a una nuova e violenta fase.

L'evoluzione successiva è infatti una strenua lotta per la sopravvivenza.
Nel Sistema Solare non c’è posto per tutti: molti degli inquilini vengono distrutti da violenti impatti, confinati nelle periferie o addirittura espulsi a seguito di incontri ravvicinati.
Alcuni corpi riescono ad assestare dei colpi micidiali ai principali, modificandone caratteristiche e proprietà orbitali.
Presumibilmente questa sorte è toccata alla Terra, colpita da un planetesimo delle dimensioni di Marte circa 100 milioni di anni dopo la sua formazione, che ne ha rallentato il moto orbitale, inclinato l’asse di oltre 23° e scagliato nello spazio una quantità di materiale sufficiente per formare la Luna.
Per quanto possa sembrare distruttivo, un impatto del genere è probabilmente stato provvidenziale per lo sviluppo tranquillo della vita sul nostro pianeta e un’evoluzione garantita per miliardi di anni. La presenza della Luna, infatti, svolge un ruolo fondamentale nello stabilizzare l’inclinazione dell’asse terrestre. Senza la sua presenza l’asse avrebbe cambiato inclinazione nel tempo, portando a sconvolgimenti climatici che avrebbero rallentato o addirittura impedito l’evoluzione degli esseri viventi complessi.

Violentissimi impatti sembrano aver interessato anche altri pianeti, producendo risultati diversi, ma altrettanto evidenti. Una sorte simile potrebbe essere accaduta a Venere: un impatto probabilmente centrale ha invertito e reso lentissimo il periodo di rotazione, cancellando anche il campo magnetico.
Probabilmente neanche Urano si è salvato, nonostante si trovasse in una regione presumibilmente più tranquilla: un impatto ha fatto ruotare il pianeta e inclinato l’asse di rotazione di quasi 100°.
Questo duro combattimento consumatosi entro 200 milioni di anni dalla formazione ha modificato i corpi principali e distrutto i planetesimi più pericolosi. Si pensa infatti che il Sistema Solare primordiale fosse molto più affollato dei pianeti che possiamo vedere ora. Qualcuno ipotizza l’esistenza di una ventina di corpi di taglia planetaria. Molti si sono scontrati e distrutti, altri potrebbero essere stati scagliati nella periferia del Sistema Solare e altri ancora potrebbero essere stati espulsi dai complicati giochi di fionde gravitazionali e condannati a vagare in solitudine per la Galassia.

La prima battaglia termina quindi con l’eliminazione dei corpi celesti superflui, che non avrebbero potuto garantire la stabilità del Sistema Solare.
La seconda battaglia ha visto protagonisti i corpi minori che ancora popolavano le regioni del Sistema Solare in grandissimo numero. Nel successivo miliardo di anni scagliarono tutta la loro forza distruttiva contro i pianeti superstiti.
Alla fine della guerra, 3,5 miliardi di anni fa, dei miliardi di piccoli corpi celesti e planetesimi che popolavano le zone interne del Sistema Solare non vi era più traccia, mentre i corpi superstiti avrebbero portato, alcuni per sempre, le ferite di uno scontro terribile che non ha conosciuto pietà.
La lotta per la sopravvivenza non è solo una prerogativa degli animali che popolano la superficie della Terra, ma una legge naturale attraverso cui l’Universo effettua le proprie scelte evolutive.

giovedì 24 marzo 2016

Se le stelle utilizzano l’energia nucleare, perché non esplodono come delle enormi bombe?



Nell’Universo ci sono molti corpi celesti, addirittura particelle atomiche, che mostrano, persino senza rendersene conto, molta più responsabilità e amor proprio degli esseri umani.
Per quanto tu possa esplorare, viaggiare tra gli sterminati spazi, osservare e studiare attentamente tutti i costituenti della materia, dagli atomi ai gruppi di galassie, dalle stelle ai buchi neri, non troverai mai nulla che farebbe qualcosa per mettere a rischio la propria esistenza. Ma anche qui sulla Terra non troverai specie animale che userebbe le regole base dell’Universo per porre fine prematuramente alla propria vita. 
È una legge non scritta questa, ma molto potente: nell’Universo si cerca sempre di vivere nel modo più tranquillo e lungo possibile. A volte ci si riesce, altre no, ma nessuno si autodistruggerebbe volontariamente nel momento più stabile e florido della propria esistenza.
Nessuno, tranne l’essere umano, che sembra provare piacere nel cercare modi per mettere a repentaglio la propria presenza nel Cosmo.  
 Se nel corso della tua vita avrai bisogno di una guida, un modello da seguire, farai sicuramente molto prima ad alzare gli occhi al cielo, viaggiare per milioni di miliardi di chilometri sulle spalle di un raggio di luce, piuttosto che muoverti su questo minuscolo pianeta cercando di riporre le tue speranze su un essere umano.

Le stelle non hanno la minima intenzione di utilizzare la loro grande riserva di energia nucleare per farsi esplodere o per distruggere nemici inesistenti. Anche in questo caso, gli strabilianti e perfetti meccanismi della Natura non si smentiscono. Per capirlo dobbiamo iniziare dal principio, ma non ti preoccupare, non mi dilungherò troppo. 

Le reazioni principali di fusione negli interni stellari non avvengono tra due nuclei di idrogeno, ma tra un nucleo di idrogeno e uno di deuterio.
Il deuterio non è altri che un nucleo di idrogeno al quale è legato un neutrone. All’interno delle stelle, però, il deuterio non esiste in grandi quantità, perché non vi sono neutroni liberi con cui i protoni possono legarsi. Ti dirò di più: un neutrone libero ha una vita limitata ad appena 15 minuti, dopodiché si trasforma spontaneamente in altre particelle. Sono proprio queste due proprietà a regolare la velocità delle reazioni ed evitare alle stelle di esplodere. 

Il neutrone necessario per formare il deuterio deriva da una trasformazione molto rara, detta decadimento beta inverso.
In parole semplici, quando un protone, un elettrone, una particella chiamata antineutrino e un po’ di energia si incontrano, possono dare vita a un neutrone, che dovrà essere catturato da un altro protone entro 15 minuti per formare il deuterio necessario per la fusione. Perché questo piccolo intervallo di tempo? perché i neutroni liberi non vivono più di 15 minuti.
La reazione che porta alla nascita di un neutrone libero però, è estremamente rara e lenta. La probabilità che avvenga in un qualsiasi istante di tempo è pari a circa una su 10 milioni! È questa rarissima trasformazione che limita la produzione del deuterio e controlla quindi le reazioni di fusione, che procedono esattamente al ritmo necessario alla stella per mantenere integra la struttura. Se procedessero più lentamente collasserebbe sotto la sua stessa forza di gravità; se andassero più velocemente esploderebbe.
L'equilibrio che si raggiunge è stabile; se potessimo perturbare il sistema, questo ritornerebbe allo stato di equilibrio. Non si tratta quindi di un caso rarissimo, come una penna che si tiene in piedi sulla punta, ma di una situazione che somiglia di più a una biglia in una ciotola: per quanto possiamo spostarla questa tenderà sempre a tornare nel fondo, a meno che non ci mettiamo d'impegno nel far  uscire la biglia dalla ciotola.
In ogni caso, perché le stelle si comportano tutte in quesot modo? Perché esiste questo equilibrio che regola il numero di reazioni nucleari? Coincidenza o mano di una mente superiore? I credenti vedranno la mano di Dio; i non credenti solamente l’unica combinazione, tra le infinite provate dalla Natura, che ha potuto far sviluppare l’Universo e degli esseri senzienti che ora sono qui a porsi queste domande.
Pensiamo un attimo prima di scegliere una risposta: se l’Universo si fosse comportato diversamente, se le stelle non avessero brillato, tu ci saresti stato qui, ora, a osservarle? Probabilmente no. Ma chi ti dice che questa combinazione non sia stata provata? Potrebbe essere già accaduta, magari prima di questo Universo, ma se tu non c’eri non hai potuto vederla e nessuno te ne potrà mai parlare. 

Di certo, qualsiasi Universo che non funzionasse secondo questi perfetti meccanismi non ci avrebbe dato tempo necessario per nascere, quindi per ammirarlo. Noi esseri umani siamo l'ultimo gradino dell'evoluzione di un Cosmo che ha dovuto pazientare quasi 14 miliardi di anni prima di vederci nascere; siamo quindi la prova più concreta della stabilità e del perfetto incastro delle leggi fisiche che lo governano. Solo quando ogni tassello si è inserito nel posto giusto ci siamo potuti sviluppare noi, miliardi e miliardi di anni più tardi. 

Meglio tornare alle nostre stelle, prima di chiudere il post.
In effetti qualche stella nell’Universo esplode ogni tanto. Ma quando succede, con un evento chiamato supernova, il motivo è semplice: l’astro è giunto al capolinea della propria vita, in quel momento in cui niente può più evitare l’inevitabile e la fonte di energia al centro si è esaurita. La forza di gravità è molto, molto più paziente di un saggio eremita; prima o poi arriverà sempre il momento della sua vittoria.

lunedì 21 marzo 2016

Cosa si prova ad assistere al decollo di un razzo?

Me lo sono sempre chiesto, mentre sognavo di fronte alla tv che trasmetteva i lanci delle varia missioni spaziali, da quelle lunari agli Shuttle. Purtroppo non ho avuto la possibilità di assistere alla partenza del grande Saturn V verso la Luna perché sarei nato 11 anni dopo l'ultima missione lunare. Non ho visto partire neanche lo Space Shuttle perché nel 2011, anno dell'ultimo volo, ancora non avevo le risorse economiche per affrontare un viaggio intercontinentale.
Il mio desiderio, comunque, è diventato realtà lo scorso 21 Dicembre 2015. Mi trovavo in Florida per una vacanza e proprio in quei giorni avrebbe dovuto partire un razzo Falcon 9 della compagnia privata SpaceX. L'occasione diventò importantissima perché per la prima volta nella storia il primo stadio, invece di precipitare in mare ormai esausto, avrebbe tentato un atterraggio automatico e controllato su una rampa non troppo lontana da quella di partenza.
Tutto andò bene, come forse già sapete se seguite questo blog da almeno un paio di mesi.

Ora, a distanza di diverse settimane, ho trovato il tempo di montare il filmato della partenza e dell'atterraggio che ripresi con il cellulare, per cercare di rendere meglio l'idea di cosa voglia dire assistere al lancio notturno di un razzo diretto verso lo spazio.
Il filmato è stato fatto con il cellulare e un obiettivo grandangolare, quindi non ha una gran qualità ma rende l'idea di cosa significhi assistere al lancio notturno di un razzo. La scena era più brillante (e "vicina") a occhio nudo rispetto al video; la luminosità del razzo ben maggiore di quella della Luna piena, tanto che rischiarava tutto il panorama intorno. Se avete pazienza sentirete il suono arrivare... quasi un minuto e mezzo dopo la partenza! All'atterraggio, invece, si sente un doppio boom sonico dovuto al rientro del razzo a gran velocità negli strati alti dell'atmosfera, oltre alle scene di giubilo tipicamente americane della folta schiera di spettatori che si era radunata. Che emozione.

venerdì 18 marzo 2016

Quante sono state le missioni spaziali verso altri corpi celesti?


Dall’inizio dell’era spaziale, nel 1958, sono tante le sonde inviate verso altri corpi celesti, molte di più di quanto si possa immaginare.
Negli anni sessanta e settanta Stati Uniti e Unione Sovietica, in piena guerra fredda, non risparmiarono risorse per dimostrare al mondo la propria supremazia nello spazio.
Tutti abbbiamo avuto qualche compagno di scuola che doveva far vedere quanto era forte e spaccone, picchiando e mostrando di essere invincibile ai suoi compagni, vero? I grandi li chiamano bulli e cercano giustamente di impedirgli di fare del male agli altri; i ragazzini, invece, di solito subiscono.

Lo Sputnik 1, nel 1957, inaugurò la corsa allo spazio.
Quando i bulli diventano adulti, i grandi li chiamano in diversi altri modi: politici, industriali, magnati, speculatori, grandi finanzieri, banchieri... Cambiano  i modi con cui esercitano potere e terrore sulla gente, ma i risultati sono gli stessi. Inspiegabilmente, però, queste persone sono osannate e spesso prese come esempio dalle stesse che vanno nelle scuole cercando di separare i ragazzini che si azzuffano.
 
Come due perfetti bulli, che però disponevano di un potere illimitato ed enormi quantità di denaro, Stati Uniti e Unione Sovietica dovevano dimostrare al mondo chi fosse il più forte e chi avrebbe avuto il diritto di comandare su tutta la popolazione mondiale. Scelsero di farlo a suon di astronavi inviate in ogni punto del Sistema Solare; se non altro hanno contribuito, di certo involontariamente, a un enorme sviluppo tecnologico e scientifico. Ma questa sembra essere una regola: se uno stato sembra far del bene all’intera popolazione è perché non poteva fare altrimenti per raggiungere i suoi, personali e per nulla altruistici, obiettivi. La beneficienza è qualcosa che molti pubblicamente osannano ma che tutti, almeno oltre un certo livello, disprezzano. 

Per circa 30 anni la gara tra Unione Sovietica e Stati Uniti è andata avanti senza esclusione di colpi e senza l’intervento di nessun’altro stato poi, lentamente, anche altre potenze economiche hanno timidamente iniziato ad affacciarsi allo spazio.
Il programma spaziale con equipaggio umano è stato il meno sviluppato.
Sei missioni Apollo hanno portato astronauti sulla superficie lunare; altre tre quelle che hanno raggiunto la Luna, la distanza maggiore compiuta fino ad ora dagli esseri umani.
I voli con equipaggio umano nella bassa orbita terrestre sono invece molti di più: solamente gli Shuttle hanno effettuato 135 lanci, di cui 134 hanno raggiunto lo spazio.

Le missioni dedicate all’esplorazione automatica dei pianeti sono state circa 190. Contando i satelliti dedicati allo studio del Sole, delle comete e degli asteroidi, potremmo superare la straordinaria cifra di 200!
Quasi la metà riguarda l’esplorazione della Luna, con ben 88 missioni attualmente all’attivo, in gran parte concentrate negli anni 60 e 70 durante l’apice della gara allo spazio tra Stati Uniti e Unione Sovietica. 

La percentuale di successi, tuttavia, non è per niente elevata. Una rapida stima ci suggerisce che poco più del 50% delle missioni ha raggiunto gli obiettivi.
Le percentuali di fallimento erano elevatissime nei primi anni di esplorazione, a causa delle scarse conoscenze di una scienza ancora tutta da scoprire, ma anche soprattutto per la fretta imposta dai ritmi serrati della guerra fredda tra Sovietici e Americani. Non c’era tempo per accumulare conoscenze attraverso un percorso lento e prudente, bisognava produrre risultati. Poco importava se l’obiettivo veniva raggiunto dopo decine di fallimenti: era sufficiente per dimostrare la propria superiorità tecnologica al mondo e all’avversario.

La fretta non è mai una buona consigliera; ti rende nervoso, vulnerabile, ti fa dimenticare quello che sai e quello che sei, e spesso ti fa commettere azioni stupide che non avresti mai fatto se fossi stato più lucido. Ma a quanto pare il mondo, anche quello della ricerca e della conoscenza, sembra andare in questo insensato verso: meglio produrre qualcosa di pessimo che impiegare anni per arrivare a un risultato sensato e di qualità. Ecco perché il mondo è destinato a un'inesorabile involuzione.

domenica 13 marzo 2016

ExoMars in partenza per Marte

Mentre la Nasa è impegnata a risolvere i problemi al sismografo della nuova missione Insight, che per questo motivo è stata posticipata di due anni (verrà lanciata nel 2018), l'agenzia spaziale europea sta per iniziare un ambizioso programma di esplorazione marziana, denominato ExoMars, in collaborazione con l'agenzia spaziale russa. ExoMars consiste di due importanti missioni che verranno lanciate a distanza di due anni, con l'obiettivo di cercare segni di attività biologica nel suolo e nell'atmosfera del pianeta rosso. Una terza è in programma per il gli anni '20 e avrà il compito ancora più ambizioso, di riportare a Terra campioni di suolo marziano, se le due missioni precedenti avranno avuto successo. Di fatto, almeno fino al 2018, sarà solo l'Europa a portare verso Marte un altro piccolo pezzo di umanità con l'obiettivo di migliorare ancora di più la nostra conoscenza del pianeta più simile alla Terra che conosciamo al momento.

Il razzo Proton pronto per spedire ExoMars verso Marte
La prima missione ExoMars è in partenza dal cosmodromo di Bajkonur: il lancio è previsto per le 10:31, ora italiana, del 14 Marzo, a bordo di un razzo russo Proton-M. Si può seguire la diretta del lancio qui, a partire dalle 9:30 ora locale: http://www.esa.int/Our_Activities/Space_Science/ExoMars/Watch_ExoMars_launch


Nell'involucro del grosso vettore dell'ex Unione Sovietica trova posto un orbiter (TGO = Trace Gas Orbiter) e un piccolo lander chiamato Schiaparelli, in onore dell'astronomo italiano che per primo effettuò dettagliate osservazioni del pianeta rosso e scoprì i fantomatici canali marziani. L'obiettivo principale della missione è quello di studiare in dettaglio la composizione atmosferica di Marte e la sua eventuale variazione nel corso del tempo. Il sacro Graal si chiama metano, un gas che sulla Terra è presente in forma stabile solo grazie all'attività biologica e che quindi segue cicli giornalieri e annuali. Studiare la composizione chimica, l'abbondanza e l'eventuale variazione del metano marziano su un lungo periodo temporale potrebbe dare importanti indizi sull'eventuale esistenza di forme di vita in grado di produrlo.

Schiaparelli (in alto) attaccato alla sonda madre TGO
Il piccolo lander Schiaparelli è invece costruito sulla falsa riga del lander Huygens, che nel Gennaio 2005 si separò dalla sonda madre Cassini e si gettò nell'atmosfera di Titano.
Si tratta di una piccola stazione meteorologica, alimentata a batterie, che opererà per un massimo di 8 giorni marziani e studierà le condizioni atmosferiche e superficiali del pianeta rosso, come intensità e direzione dei venti, andamento della temperatura, umidità, pressione e trasparenza dell'atmosfera.

Schiaparelli dovrebbe atterrare, in modo del tutto autonomo, nella Meridiani Planum, 3 giorni dopo l'arrivo di ExoMars nei pressi di Marte, dopo un viaggio di circa 7 mesi. Il sofisticato e automatico sistema di atterraggio, che prevede diverse fasi delicate come il dispiegamento dello scudo termico, la sua corretta angolazione, la sua espulsione, l'apertura del paracadute e l'ultima fase gestita dai razzi per un atterraggio morbido, è fondamentale per la riuscita della missione ed è stato il tallone d'achille di quasi tutti i lander che hanno tentato di raggiungere il suolo integri. L'obiettivo principale di ESA per Schiaparelli è proprio quello di testare il complicato sistema di atterraggio in preparazione allo sbarco del rover, più complicato, costoso e longevo, che verrà inviato nella successiva missione del 2018. Siamo quindi ancora lontani dalle complicate macchine mobili spedite dalla NASA negli anni passati, il cui punto più alto si è raggiunto con Curiosity, un complesso rover di quasi una tonnellata alimentato a energia nucleare, ma è comunque un passo fondamentale per avere un'ottima probabilità di successo nel 2018.

La sequenza di discesa del piccolo rover Schiaparelli
Si potrebbe pensare che ormai una missione verso Marte sia qualcosa quasi di routine, ma in realtà non è così: nessun corpo celeste ha mietuto più vittime del piccolo pianeta rosso. Fino a questo momento solo gli americani sono riusciti a far poggiare qualcosa sulla sua superficie senza farlo schiantare in mille pezzi. I russi ci hanno provato decine di volte, ma la maledizione marziana con loro è stata davvero impietosa: venti(!) missioni e nessuna è arrivata sana e salva nemmeno nell'orbita del pianeta rosso e quelle che hanno provato ad atterrare sono finite sempre in mille pezzi. Anche l'Europa ha provato a far posare con delicatezza un lander: si tratta dell'inglese Beagle 2, che nel 2003 si separò dalla navicella madre Marx Express e tentò di atterrare sulla superficie. Nessuno ebbe più sue notizie. Nel 2013 il potente obiettivo della sonda della NASA Mars Reconnaissance Orbiter riuscì a trovare il piccolo Beagle 2, in apparenza sano e salvo, sulla superficie. Perché non contattò mai la Terra resta e resterà per sempre un mistero.
Il più recente fallimento di una missione verso Marte appartiene ai Russi (e chi altri!). Fobos-Grunt era una missione in collaborazione con l'azenzia spaciale Cinese che avrebbe dovuto portare per la prima volta in orbita marziana un satellite e un lander su Phobos, piccola luna di Marte. La missione rimase bloccata nella bassa orbita terrestre a causa di un'avaria e dopo pochi giorni precipitò in atmosfera, distruggendosi.

Dopo tutti questi fallimenti quindi, c'è da augurarsi che con questa missione vengano abbattuti i due grandi tabù: la prima missione con partecipazione russa che arriva sana e salva nei pressi di Marte e il primo manufatto non americano a riuscire ad atterrare e a trasmettere dati verso la Terra. Noi, che alla superstizione non crediamo, facciamo un grande in bocca al lupo a ExoMars e aspettiamo di vedere le prime immagini della storia della superficie del nostro vicino cosmico provenienti da un manufatto non americano. Sarebbe un gran successo per la scienza, l'Europa e l'Italia, che nella costruzione di ExoMars ha avuto un ruolo molto importante.

mercoledì 9 marzo 2016

Nuvole e neve su Plutone

Continuano ad arrivare, con il ritmo di una al giorno, tutte le migliaia di immagini che la sonda New Horizons ha scattato di Plutone durante il passaggio ravvicinato avvenuto il 14 Luglio 2015 e ogni volta c'è di cui stupirsi.

Questa volta il pianeta nano, che in realtà mostra un'attività e una complessità geologica superiore a quella di altri pianeti "titolari" (ad esempio Mercurio, giusto per non fare nomi) sembra presentarci delle caratteristiche che ricordano, seppur da lontano, qualcosa di tipicamente terrestre: nuvole e neve.

Alcune riprese in alta risoluzione centrate sulla zona ribattezzata, in modo informale, Cthulhu Regio, mostrano delle appuntite vette di una lunga catena montuosa stagliarsi su una pianura ricoperta da materiale rosso. Questo dovrebbe essere costituito da toline, un composto che si forma dall'interazione tra il metano atmosferico e i deboli raggi solari, che poi precipita al suolo e gli conferisce la colorazione rossastra che possiamo osservare. La cima delle montagne, invece, sembra una fotografia delle nostre Alpi durante l'inverno, perché tra le punte e i crepacci sembra insinuarsi un materiale bianco candido. Se questa fosse stata una fotografia di qualche luogo terrestre non avremmo avuto dubbi sulla sua origine: neve e ghiaccio d'acqua che cade dalle nuvole. Tuttavia, qui siamo su Plutone e di certo non abbiamo un ciclo dell'acqua che consente, alla fresca temperatura di oltre -230°C, l'esistenza allo stato liquido con conseguente evaporazione e trasformazione in fiocchi di neve in quota.

Cime innevate su Plutone da uno strato di metano ghiacciato.


Se quelle cime imbiancate non contengono di certo la nostra neve, cosa possono essere? E' una qualche specie di precipitazione, oppure una zona povera di quel materiale rossastro che circonda le pianure sottostanti e che per contrasto assomiglia a una recente nevicata terrestre? la risposta è arrivata sempre da New Horizons, in particolare dalle analisi spettroscopiche della regione. Sulle cime delle montagne più alte della Cthulhu Regio ci sono grandi quantità di metano ghiacciato: in pratica si tratta di depositi di neve e ghiaccio, solo che al posto dell'acqua sono formati da metano precipitato dall'atmosfera. Sono davvero pochi i luoghi del Sistema Solare in cui potersi fare una bella sciata su una distesa di neve fresca: Plutone, un giorno, potrebbe diventare meta di sciatori interplanetari alla ricerca delle zone più belle su cui scivolare a grande velocità!
 
Dove c'è neve fresca, di qualsiasi tipo sia, si sa che ci debbano essere, quasi sempre, delle nuvole dalle quali questa neve si forma e precipita. Potrebbe la tenue atmosfera di Plutone ospitare sistemi nuvolosi di metano in grado di imbiancare le cime più alte delle montagne? Oppure il fenomeno osservato assomiglia più a una specie di brina, prodotta dalla solidificazione del metano in quota a causa della bassa temperatura, senza la necessità di sistemi nuvolosi? Will Grundy, astronomo del Lowell Observatory, ha proposto l'idea che in alcune immagini della sonda New Horizons si vedano delle sottili strisce bianche che non fanno parte della superficie, ma che potrebbero essere proprio delle nuvole nell'atmosfera di Plutone. Questa notizia è ancora da confermare, ma conferisce a Plutone l'allettante prospettiva di essere uno dei pochi corpi celesti del Sistema Solare con nuvole e precipitazioni: un club che include al momento solo la Terra e Titano.

Le frecce indicano le probabili nubi identificate da Grundy. Molte appaiono lungo l'orizzonte, mentre una, abbastanza definita, sembra essere presente nella zona centrale, a sinistra.
 
Per fare maggiore luce sulla complessa atmosfera plutoniana, probabilmente basterà solo aspettare l'arrivo delle centinaia di immagini ancora custodite a oltre 5 miliardi di chilometri di distanza da quel manufatto umano partito sulla Terra nel 2006 e che adesso si trova in un luogo molto diverso rispetto al nostro pianeta, pur essendo ancora nel giardino di casa di un Universo immenso. Da lì il Sole appare un puntino 250 volte più luminoso della Luna piena (sulla Terra è circa 400 mila volte più luminoso!), il cielo è sempre scuro anche a mezzogiorno, le ombre e gli oggetti sono illuminati, al massimo, come il nostro paesaggio circa 40 minuti dopo il tramonto del Sole. Tutti i pianeti li troveremo sempre in prossimità del Sole, mai dalla parte opposta e anche il più vicino, Nettuno, non sarà che un debole puntino in un cielo costellato solo da stelle. Benvenuti su Plutone, uno spettacolare ultimo terrazzo sui pericoli, i misteri e le meraviglie dello spazio profondo.

Fonte: http://www.nasa.gov/feature/methane-snow-on-pluto-s-peaks/

lunedì 7 marzo 2016

Qual è la galassia più lontana?

E' una domanda ricorrente, sia tra gli appassionati che tra gli astronomi e la risposta spesso cambia, perché cambiano le nostre conoscenze dell'Universo.
Se quindi questa domanda viene riproposta nonostante abbia già fatto un post a riguardo qualche anno fa è perché ci sono delle novità, sorprendenti sia dal punto di vista astronomico che strumentale.

La galassia più distante mai scoperta.
L'autore del nuovo record, battendo sé stesso per l'ennesima volta, è l'ormai vetusto telescopio spaziale Hubble, che tra un paio d'anni sarà rimpiazzato dal suo successore, il James Webb Telescope. Nonostante però la veneranda età di 26 anni, il telescopio Hubble è considerato obsoleto solo per quanto riguarda la mera anagrafe: i suoi strumenti, aggiornati più volte nel corso della sua vita, sono ancora in perfetta forma e la profondità che riesce a raggiungere è inarrivabile, ancora, dalla superficie terrestre.

Il telescopio spaziale, guidato da Pascal Oesch, astronomo della Yale University,  ha scovato una galassia remota alla stratosferica distanza di 13,4 miliardi di anni luce. Poiché guadando lontano nello spazio guardiamo lontano anche nel tempo, vista la velocità finita della luce, Hubble ha osservato questa galassia come era 13,4 miliardi di anni fa. Nessuno, fino a questo momento, aveva visto un oggetto dell'Universo tanto vecchio.

Questo numero fa già girare la testa ai non addetti, ma se lo si inserisce in un contesto più dettagliato diventa un grattacapo persino per gli astronomi, che con numeri di tale portata sono abituati a convivere.
La galassia, denominata GN-Z11, è stata osservata in un'epoca in cui l'Universo si era formato solo da 400 milioni di anni, in uno spazio 10 volte più piccolo di quello attuale e in un ambiente molto diverso dall'attuale. Per i più addetti ai lavori, il redshift misurato è pari a 11,1. Il precedente record apparteneva a una galassia posta a redshift 8,68, a 13,2 miliardi di anni luce. Data la sua per forza giovane età, GN-Z11 non è una galassia già formata e tranquilla come la nostra. E' circa 25 volte più piccola della Via Lattea e contiene solo l'1% delle stelle, ma presenta una forte attività di formazione stellare; insomma, è una galassia che sta rapidamente crescendo in un Universo molto giovane e diverso rispetto a quello attuale.

L'Universo di 13,4 miliardi di anni fa aveva poche galassie e non era ancora del tutto ionizzato come quello attuale.

Dopo la formazione dell'Universo a seguito del Big Bang, per milioni di anni non è successo nulla di evidente. Come qualsiasi contenitore di gas in espansione, l'Universo si è raffreddato dai miliardi di gradi subito dopo il Big Bang alle poche centinaia di gradi di qualche centinaio di milioni di anni dopo. Questa discesa della temperatura ha scandito diversi cambiamenti di stato del gas contenuto, una miscela composta per il 76% di idrogeno e il 24% di elio. Da plasma completamente ionizzato dei primi minuti di vita, a gas atomico con una temperatura inferiore ai 3000°K  dopo circa 400 mila anni, a gas molecolare e freddo, completamente oscuro. Il bagliore della ricombinazione dei nuclei atomici con gli elettroni che ha generato la radiazione cosmica di fondo, a una temperatura dell'ordine di 3000°K, sarebbe stata l'ultima scintilla dell'Universo per centinaia di milioni di anni.

Durante l'era oscura, il gas freddo non emetteva luce visibile ma nascondeva grandi manovre che avrebbero portato alla comparsa delle prime stelle, dette di popolazione III, e poi delle prime galassie.
La nascita di corpi celesti con grandi emissioni di luce, soprattutto ultravioletta, ha riscaldato il gas di tutto l'Universo e l'ha ionizzato di nuovo, proprio come lo era stato fino all'emissione della radiazione cosmica di fondo. Da questo processo di ionizzazione non si tornerà più indietro, tanto che anche oggi l'Universo è fato per il 99% di gas ionizzato, mantenuto caldissimo proprio dala luce di stelle, galassie ed esplosioni stellari. Si pensa che prima siano nate le stelle e poi le galassie, ma non si sa quando di preciso è accaduto tutto questo.

Sono molti i modelli che cercano di spiegare quando sono nate le prime strutture galattiche e quando l'Universo si è ionizzato di nuovo a causa della forte luce emessa da stelle e galassie. Ma i modelli sono tali finché non si trovano dati osservativi in grado di confermarli o smentirli. La scoperta di GN-Z11 rappresenta la prima di una lunga serie di oggetti remoti che saranno alla portata del prossimo telescopio spaziale, il successore di Hubble e che faranno luce su una delle ere più lontane ma importanti della nostra storia cosmica. Intanto, con questo record di distanza cominciano ad arrivare i primi dubbi: è possibile osservare una galassia già formata in un'epoca in cui l'Universo era così giovane? Quanto tempo serve per formare una galassia? Che tipo di stelle sta formando? Sono come le nostre, oppure ci sono anche astri di popolazione III, che dovrebbero essere molto diversi rispetto a quelli che vediamo nell'Universo attuale? Com'era l'ambiente di quel lontanissimo tempo? Tante domande e poche risposte, ma questo è il bello della scienza: per ogni scoperta si aprono nuovi e illimitati orizzonti che ora sembrano irraggiungibili ma che piano piano avvicineremo proprio come facciamo ogni giorno.

venerdì 4 marzo 2016

Quante stelle ci sono nell'Universo?



Il Sole è la stella a noi più vicina, appena 150 milioni di chilometri. 
Di certo non è l’unica stella dell’Universo. Se in una notte serena e senza Luna riuscissimo ad andare in campagna lontano dalle luci artificiali e alzassimo gli occhi al cielo, vedremmo migliaia di altre stelle, così tante da non riuscirle a contare. Il cielo, quindi, è pieno di stelle, ma lo è più di quanto possiamo immaginare. Quelle che vediamo a occhio nudo, infatti, sono solo le più vicine e brillanti. Se prendessimo prima un binocolo e poi un piccolo telescopio, di stelle ne vedremmo centinaia di migliaia o addirittura decine di milioni. Ma staremmo ancora guardando in una zona prossima al Sole, quindi al nostro pianeta. 

La verità è che le stelle dell’Universo sono molte più di tutti i granelli di sabbia che formano le spiagge e i deserti della Terra. Sono così tante che non esiste un numero che abbia un nome per esprimerne la quantità e sono concentrate in immense isole chiamate galassie.
Le galassie sono le oasi dell’Universo. Proprio come un assetato viaggiatore vaga senza meta nella desolazione di un grande deserto fino a trovare una verde, piccola e rigogliosa isola di salvezza, così nell’Universo le galassie sono oasi che pullulano di attività, luce ed energia, immerse in uno spazio sterminato, buio, freddo e quasi del tutto vuoto. In queste oasi, minuscole rispetto alla sterminata estensione di quel deserto oscuro chiamato Universo, vivono in modo pacifico centinaia di miliardi di stelle. Sì, centinaia di miliardi per ogni galassia, ecco quante sono le stelle.

La nostra galassia è chiamata Via Lattea e tutte le stelle che vediamo appartengono a questa oasi che per noi è enorme, visto che è estesa per circa 100 mila anni luce!
La Via Lattea, pur essendo immensa e ospitando qualcosa come 200 miliardi di stelle, non è che una piccolissima oasi tra le tante sparse nell’Universo. Si pensa che di galassie ce ne siano, nell'Universo osservabile, più di 300 miliardi, ognuna contenente in media 100 miliardi di stelle. Qualcuno riesce a capire quante stelle possono esserci nell’Universo?
Qualcuno riesce a leggere questo numero? 30000000000000000000000