Questo post è stato estratto dal mio ultimo libro: "Vent'anni sotto il cielo stellato", disponibile in formato cartaceo ed ebook.
L'osservazione del cielo
stellato diventa sempre più bella mano a mano che il cielo è scuro ma,
soprattutto, all'aumentare della potenza del telescopio. Nell'ambito
astronomico, potenza significa diametro dello strumento: maggiore è la sua
apertura, più deboli e dettagliati appariranno gli oggetti celesti.
Gli strumenti che di solito
possiamo permetterci ci danno ottime visioni dei pianeti e della Luna e
discrete immagini dei cosiddetti oggetti del profondo cielo, vale a dire
ammassi stellari, nebulose e lontane galassie.
Nel corso degli anni sono
stato assalito dall’irrefrenabile voglia di avvicinarmi sempre di più alle
perfette visioni fotografiche con i miei occhi, stregato dal contatto diretto
con l'Universo profondo. Le mie povere tasche da studente universitario non mi
hanno però permesso di andare oltre uno strumento da 36 centimetri di
diametro, che peraltro consente già di avere ottime visioni degli oggetti del
cielo profondo.
Nulla però in confronto a
quanto ho potuto provare, per ben due volte, grazie a un amico che ha potuto
realizzare in modo spettacolare un grande sogno: costruirsi un telescopio,
anzi, un enorme binocolo, così grande da permettere ai nostri occhi di vedere
dettagli molto simili a quelli delle fotografie astronomiche (colore escluso).
E grazie alla sua estrema cordialità, l'Universo diventa alla portata di tutti.
L'unica cosa richiesta? Voglia di meravigliarsi. Nient’altro.
La prima volta che vidi il
leggendario binodobson di Andrea Boldrini, un mega strumento composto da due
telescopi di ben 60
centimetri di diametro l’uno, era l'estate del 2012 dal
rifugio di ogni appassionato di astronomia del centro Italia: Forca Canapine.
Rimasi esterrefatto di
fronte alla mole dello strumento, alto circa tre metri e largo quanto una piccola
utilitaria. Mi avvicinai timido e intimorito, e mentre cercavo di trovare il
coraggio di chiedergli se avessi potuto metterci gli occhi dentro, fu lui ad
anticiparmi e a invitarmi alla vera festa delle stelle che si stava svolgendo
proprio lì.
Salii un po' spaventato
sulla scala che portava fino verso la cabina di pilotaggio di quella potente
astronave cosmica. Dopo le indispensabili indicazioni del comandante potei
volare libero verso il cielo sconfinato. Fu l'inizio di un nuovo amore per
l'Universo, perché lì dentro, non so davvero come dirlo, c'erano cose che pochi
umani avevano visto. Al centro del grande campo si stagliava nitida la sagoma
inconfondibile della nebulosa Velo, ciò che resta di un'antica esplosione di
una stella molto più grande del Sole. È uno degli oggetti più fotografati ma
poco osservati, perché richiede cieli scuri, telescopi di buon diametro e una
discreta dose di immaginazione per tracciare gli indistinti contorni di quei
filamenti gassosi dispersi nello spazio. È così evanescente che spesso richiede
filtri particolari, e in ogni libro di astronomia pratica è sottolineato quanto
sia difficile osservare la sua tenue immagine.
Niente di tutto questo mi
aspettava all'oculare e niente poteva prepararmi a quello che stavo per vedere.
Fluttuanti nello spazio aperto si stagliavano delicati ma contrastati i deboli
filamenti di gas interstellare, i pezzi di quell'antica stella, meglio di
qualsiasi fotografia. E quando il comandante mi consegnò la console di
controllo dell'astronave e mi disse: “Navigaci” mi sentii la persona più felice
di questo mondo perché stavo davvero esplorando una magnifica zona cosmica che
a ogni movimento mi rivelava sempre nuovi dettagli, nuove sfumature, nuove
emozioni.
Ricordo e ricorderò per
sempre quell'osservazione dell’ammasso di Ercole, che mi regalò la visione di
tutte le circa 500 mila stelle che lo popolano; la tenue sagoma della nebulosa
ad anello, una fotografia di come sarà il nostro Sole tra poco più di 5
miliardi di anni. Passai di fianco alle distese gassose della nebulosa
planetaria M27, mi imbattei nelle intricate trame che mai avrei pensato di
vedere della nebulosa Crescent. E cosa dire di M17, la nebulosa Cigno (o
Omega)? Non potevo non assistere al miracolo della nascita di migliaia di
stelle da un’immensa distesa di gas, tanto luminosa e contrastata che mi
sembrava di vederla in tre dimensioni.
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Ok, questa è una foto che ho
scattato con il mio telescopio, ma sono pronto a giurare che M13, nel
binodobson di Andrea Boldrini, si vedesse proprio così. E chi ha bisogno,
allora, di fare fotografie?
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Spesso ho sognato quella
fantastica serata ma impegni universitari e lavorativi mi hanno tenuto lontano
da quel cielo e dal mastodontico binodobson per più tempo di quanto fossi
disposto ad aspettare.
Poi, per caso, la sera del
19 Dicembre 2014 le previsioni meteo erano buone e un paio di amici della mia
associazione mi convinsero a tornare sotto quel cielo scuro. Mai, però, mi
sarei aspettato che sul piazzale freddo e deserto ci fosse anche Andrea e il
suo incredibile binodobson. Avrei potuto realizzare qualcosa che mi frullava
per la testa sin da quella lontana serata: osservare con quel gigante la
galassia di Andromeda e la nebulosa di Orione, due oggetti già spettacolari con
piccoli telescopi e che avrebbero riservato chissà quale sublime visione
attraverso quella stupenda astronave.
Fu in questo modo che una
serata improvvisata all’ultimo momento si trasformò in una nuova, appassionante
festa delle stelle, nella quale condividere le emozioni del cielo, sia quello,
bello, a occhio nudo ma soprattutto quello che avremmo potuto osservare a bordo
del binodobson.
Andrea ben sapeva che la
star della serata, la grande nebulosa di Orione, ci avrebbe rapito, così come
rapì lui che non poteva più fare a meno di osservarla ogni volta che la vedeva
sopra l'orizzonte. Questa, però,
era ancora troppo bassa sull'orizzonte
e sarebbe stata la parte finale di un tour che iniziò dagli oggetti estivi
ormai al tramonto, come la già vista nebulosa Velo, e gli ammassi globulari M15
e M13 (di Ercole) tutti spettacolari, proprio come me li ricordavo.
Il primo grande e nuovo
sussultò arrivò dalla galassia a spirale M33, famosa per essere molto estesa
(più della Luna piena) ma al contempo troppo debole e avara di dettagli. Bene,
in quell'astronave mi fece restare a bocca aperta e con me tutti i compagni di
avventura. Ben evidenti i tenui bracci di spirale su cui spiccavano ogni tanto
delle condensazioni di forma sferica. Incredibile ma vero, stavo osservando
nebulose di un'altra galassia, a 2,5 milioni di anni luce da noi. Stavo
vivendo, in quel momento, uno spettacolare viaggio attraverso un Universo che
per la prima volta potevo riuscire a comprendere quanto fosse vasto.
Quei tenui bracci di
spirale, quasi tridimensionali nel buio del cielo, potevano sembrare una tipica
opera di pittura astratta, ma quando si ha la consapevolezza che sono un
disegno cosmico immenso, costituito da decine di miliardi di stelle poste così
lontano da non poter immaginare, allora tutto cambia e dentro esplodono
sensazioni ineguagliabili. Sarei restato per ore su quella girandola cosmica.
L'unico modo per farmi scendere dalla scala e lasciare le redini dell'astronave
al comandante fu la promessa di puntare la galassia di Andromeda, che si
preannunciava ancora più spettacolare.
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M33 al telescopio si mostrava
per quella che era: una stupenda galassia a spirale ricca di stelle giovani e
gigantesche nebulose. Mai vista così!
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Pochi minuti di viaggio,
giusto per permettere all’esperto comandante di fare le delicate manovre di
avvicinamento, poi egli ci avvertì dell'arrivo nei pressi di quell’isola di
stelle. Non con uno sterile comunicato come quello dei comandanti di un aereo,
ma attraverso un’esplosione di aggettivi che tentavano di descrivere la
bellezza del panorama che stava osservando.
Bellezza che riuscii a
comprendere solo quando misi gli occhi agli oculari. Il nucleo della galassia
di Andromeda era lì, brillante come mai l'avevo visto. Ma non era questa la
caratteristica che cercavo. Estesa ben oltre il campo inquadrato dallo
strumento, cominciai a spostarmi navigando con prudenza alla ricerca di quei
dettagli che la fotografia cattura con estrema facilità, ma che nessun
telescopio di noi comuni appassionati ci ha mai mostrato. Ed ecco che laddove
tutti i telescopi usati mostravano nient’altro che il nero del cielo,
quell’astronave mi portò vicino al punto da riuscire a farmi vedere quello che
cercavo: i bracci di spirale. Zone più chiare e più scure, mescolate in modo
perfetto, sembravano non terminare più. Le due galassie satelliti erano così
grandi ed evidenti che per un attimo scambiai una di queste (M110) per il
nucleo di Andromeda.
Viaggiando ben più veloce
della luce verso periferie della galassia, ecco che nel braccio più esterno
comparve quella che sembrava una nuvola indistinta, ma che a uno sguardo più
attento rivelava centinaia di deboli stelline: si trattava dell'ammasso aperto
NGC206, situato in uno dei bracci di Andromeda e che non solo era evidente, ma
mostrava le singole stelle.
Un momento di silenzio,
perché quella era una visione memorabile: stavo osservando la luce di centinaia
di stelle distanti 2,3 milioni di anni luce, qualcosa come 23000000000000000000
chilometri! Non solo, ma la luce che stavo osservando era vecchia di 2,3
milioni di anni e lasciò la galassia di Andromeda quando qui sulla Terra non
esisteva ancora quasi nessuna traccia degli esseri umani.
Molti di quegli astri che
stavo osservando non esistevano più, ma per noi sulla Terra erano e sono
tutt'ora reali. E allora è meraviglioso pensare che tutto quello che facciamo,
anche nelle più piccole cose, viaggerà nell'Universo alla velocità della luce e
per qualcuno, anche milioni o miliardi di anni dopo che sarà accaduto, si
fonderà con il presente. Le nostre vite e le nostre azioni vengono registrate
su un lungo nastro che alla velocità della luce percorrerà tutto l'Universo,
senza mai perdere memoria di quello che è stato, chissà quanto tempo prima.
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A sinistra, il frastagliato
centro di Andromeda, a destra l’ammasso aperto osservato in uno dei suoi
bracci. Al binodobson si vedevano così!
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Perso come un ragazzino che
per la prima volta si sentiva innamorato alla follia, non mi resi conto di
quanto tempo passai fantasticando su quella splendida galassia, al punto che il
comandante mi comunicò che il momento tanto atteso era forse arrivato: potevamo
andare sulla nebulosa di Orione. “Ma ti avverto” disse con aria divertita e
orgogliosa, “Se la galassia di Andromeda ti è piaciuta così tanto, preparati a
quello che vedrai sulla nebulosa di Orione. Non puoi immaginare, è qualcosa che
toglie il respiro”.
Non ricordo molto bene il
momento tra questa sua frase e l’attimo in cui i miei occhi hanno visto la cosa
più bella di sempre. Ho dei flash che ogni tanto compaiono un po’
sconclusionati. Ad esempio, ricordo che per primi osservarono Federico e Giovanni
e che rimasero senza parole. Increduli, nonostante ormai decine di serate
osservative, nonostante aver visto la nebulosa di Orione tante volte con strumenti
più piccoli, nonostante in cuor loro sapessero che avrebbero assistito a uno
spettacolo mai visto. Eppure, come sempre dovrebbe accadere, non si è mai
preparati a qualcosa che non si è mai visto né vissuto. Ed è proprio questo il
segreto per vivere al massimo la vita e tutte le belle sorprese che da essa
possiamo trarre. Perché se tutto fosse prevedibile e ogni cosa potessimo
immaginarla già prima di affrontarla, sarebbe davvero una noia mortale. E
invece, le emozioni più belle sono quelle che non si possono immaginare prima
di viverle.
Quando venne il mio turno,
il cuore mi batteva forse più forte della mia prima cotta, più che il giorno
della laurea, più che in ogni altra situazione. Anche perché stavo per vivere
emozioni ben al di fuori del confine piccolo e protettivo di questo mondo;
stavo per affrontare sensazioni che avrebbero disgregato il limite terreno e si
sarebbero scatenate nel luogo più vasto e meraviglioso che esista: l’Universo.
Afferrate le aperture del
super telescopio e messi gli occhi agli oculari, non vidi subito la nebulosa.
La tecnica, suggerita da Andrea, era infatti quella di spostare lo strumento di
poco e navigare poi a vista verso di essa, scoprendola poco a poco.
Così al comando di
quell’astronave cominciai a viaggiare velocissimo tra le numerose stelle nel
campo, cercando la rotta per la nebulosa. A un certo punto un lieve bagliore mi
suggerì che c’ero vicino. Mi fermai, feci un gran respiro e mi spostai veloce
in quella direzione per far entrare la sua luce prepotente nel campo, fino a
riempirlo tutto. E fu l’apoteosi. Persino ora, mentre sto scrivendo queste
righe, non vedo le parole scorrere ma riesco ad accarezzare quelle delicate e
dettagliate regioni soffici come la seta. Molto meglio di qualsiasi fotografia,
perché gli occhi hanno maggiore dinamica, quindi consentono di avere una
visione inarrivabile da qualsiasi altro dispositivo.
Al centro il trapezio
luminoso ma non sovraesposto, era contornato da una nebulosa estesa quanto le
migliori foto, ma con la delicatezza unica che solo l’occhio umano può
restituire. Era senza alcun dubbio la visione più bella di sempre, non solo
riguardo all’astronomia, ma rispetto a tutto quello che avevo visto e che,
forse, mai vedrò. Mi persi con l’immaginazione tra le piccole nuvolette simili
a tante pecorelle della zona centrale. Mi spostai lungo le ali, che proprio
come avevo teorizzato in un articolo sui colori delle nebulose, apparivano
rosate a causa del contrasto con la regione centrale verdina. In realtà erano
grigie, ma il colore, di fronte a quei chiaroscuri così reali e vicini, era
l’ultima cosa che mi interessava.
Avevo davanti a me
un’immagine statica, ma nella mia mente non lo era affatto. Stava a me farla
muovere, viaggiando con la fantasia e l’immaginazione. E al contrario della
televisione, che ci dice quali sono le immagini che dobbiamo vedere senza darci
l’opportunità di pensare, qui, Signori, siamo noi a comandare il gioco e a
rendere una tale bellezza il Ricordo da non dimenticare mai più nella vita.
Quella sera restai più di
dieci minuti a volare sopra Orione e non mi sarei mai stancato di farlo. Quella
fucina di stelle ha un fascino unico, quasi stregato, del quale non si può più
fare a meno. E tornato a casa, con il cuore pieno di gioia, iniziai a contare i
minuti che mi separavano dalla successiva osservazione.
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Ci ho messo un po’, ma alla
fine credo di esserci riuscito. Ho manipolato una delle mie immagini della
nebulosa di Orione e questo è l’aspetto più vicino a ciò che ho visto
all’oculare del binodobson, con il vantaggio di avere un ingrandimento maggiore
di quello della foto.
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Quel telescopio dovrebbe
essere patrimonio dell’umanità; è una finestra migliore di qualsiasi astronave,
che può farci capire davvero quale sia il nostro posto nell’Universo, quali
sono le grandezze, le priorità, i veri problemi in gioco e quanto stupide e
superficiali siano condotte a volte le nostre vite. Viviamo troppo poco per
poterci permettere di perdere tempo in cose effimere. Ma come fare a capire se
qualcosa per noi è effimero o no? È semplice e forse l’ho già detto: se il suo
ricordo sopravvive immutato per mesi e addirittura anni, allora avremmo vissuto
un’esperienza unica, altrimenti la nostra mente, ben più furba della parte che
usiamo per sopravvivere, ce l’avrà già fatto dimenticare già pochi giorni dopo.
Le vere emozioni si possono
provare anche solo una volta nella vita, non importa: è il loro ricordo a
durare per sempre e a renderci felici e appagati per questa straordinaria
esistenza.