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giovedì 28 febbraio 2013

Una cometa sfiorerà Marte nel 2014

Sono ormai un po' di giorni che nell'ambiente astronomico girano interessanti notizie in merito a una cometa chiamata C/2013 A1 (Siding Spring).
Scoperta all'inizio del 2013, ha suscitato enorme interesse quando i primi calcoli del suo percorso orbitale prevedevano un incontro estremamente ravvicinato con Marte previsto per il 19 Ottobre 2014.
Dopo 74 osservazioni astrometriche c'era addirittura la possibilità che la cometa potesse impattare sul pianeta rosso.
Con un diametro stimato in 50(!) km avrebbe provocato un cratere dal diametro di 500 km e sconvolto la superficie e l'atmosfera marziana, rilasciando un'energia di circa 20 miliardi di megatoni (la bomba di Hiroshima aveva una potenza di circa 15 chilotoni!)

L'incontro tra Marte e la cometa siding Spring del 20/10/2014
La prudenza, però, in questi casi è d'obbligo.
Per prevedere il percorso preciso con così tanto preavviso è necessario disporre di numerose osservazioni.
E' una storia che in effetti si ripete anche per gli asteroidi potenzialmente pericolosi per il nostro pianeta: i primi dati, a causa dell'elevata incertezza, non riescono a escludere del tutto l'eventualità di un disastroso impatto, ma poi, fortunatamente, mano a mano che giungono nuove osservazioni il pericolo scompare quasi del tutto.

Nel caso della cometa Siding Spring potremmo stare comunque tranquilli e goderci da spettatori lo spettacolo, che sembra delinearsi sempre di più mano a mano che i giorni trascorrono.
Le ultime osservazioni astrometriche hanno ristretto il margine d'incertezza e sembrano escludere l'eventualità di un catastrofico impatto con Marte.
Però la cometa passerà molto vicino al pianeta. Le ultime stime la danno a meno di 37.000 km dalla superficie!
Lo spettacolo potrebbe essere quindi entusiasmante e allarmante, anche senza che si compia l'apocalisse marziana.
A quella distanza, infatti, la chioma cometaria dovrebbe avere un diametro di circa 100.000 km e investire quindi il pianeta rosso producendo, probabilmente, una pericolosa pioggia di polveri e detriti alcuni dei quali, a causa della rarefatta atmosfera, potrebbero raggiungere la superficie. Il pericolo per i rover e soprattutto per le sonde in orbita è quindi tutt'altro che nullo. Ma se riusciranno a sopravvivere si godranno inaspettatamente uno spettacolo assolutamente unico. Sono pochissime le comete studiate nel dettaglio, eppure questi corpi celesti potrebbero essere stati fondamentali per la diffusione dell'acqua e dei semi della vita sulla Terra.
Dalla superficie di Marte la visione, pioggia di detriti a parte, potrebbe essere mozzafiato, con la cometa facilmente visibile anche di giorno e la diffusa chioma occupare molti gradi di cielo.

L'astronomo russo Elenin, esperto di comete e padre di un'altra che avrebbe dovuto rendersi visibile nei nostri cieli, ma che è poi stata disintegrata dall'abbraccio solare, si dice convinto al 100% di questo scenario, se i dati non cambieranno (ma a questo punto è difficile avere sorprese inaspettate).
Dopo il meteorite russo e il masso spaziale DA14 2012 che ci ha sfiorato, questo potrebbe essere un altro avvertimento (l'ultimo?) per accelerare i programmi per la previsione degli impatti.
Questa volta tocca a Marte; ma se fosse stato il nostro turno, un anticipo di meno di due anni da un probabile impatto sarebbe stato troppo breve per qualsiasi piano di difesa e terribilmente enorme per farci cadere nel baratro della disperazione. Si, perché un oggetto del genere cancellerebbe quasi istantaneamente gran parte della vita sulla Terra: il masso che si pensa abbia causato l'estinzione dei dinosauri aveva un diametro di "appena" 10 km.

Per approfondire: 
http://spaceobs.org/en/2013/02/25/comet-c2013-a1-siding-spring-a-possible-collision-with-mars/ 
http://spaceobs.org/en/2013/02/27/new-data-concerning-the-close-approach-of-comet-c2013-a1-to-mars/
C/2013 A1 (Siding Spring)C
C/2013 A1 (Siding Spring)
C/2013 A1 (Siding Spring)
C/2013 A1 (Siding Spring)

lunedì 25 febbraio 2013

L'ultimo libro: Tecniche, trucchi e segreti dell'imaging planetario

Aggiornamento: qui è possibile scaricare la prefazione, l'indice e l'introduzione per avere meglio idea della struttura del libro.

Quando tempo fa ho detto di voler smettere di scrivere non stavo mentendo. Le mie intenzioni non sono cambiate, ma prima di finire avevo ancora alcuni manoscritti da correggere e terminare che non potevano andare persi.
Anzi, nel corso di quesi ultimi mesi sono giunto anche a un altro addio: quello alle riprese in alta risoluzione dei corpi del Sistema Solare.

Mio libro sull'imaging planetario
Per salutare degnamente gli ultimi 10 anni della mia vita passati con il telescopio quasi sempre puntato tra i pianeti, ho deciso di terminare il lavoro che avevo iniziato ormai un paio di anni fa e poi avevo abbandonato. Il mio intento è quello di lasciare in eredità a chi ne ha voglia e passione, quella stessa che mi ha accompagnato per tanto tempo, tutto quello che ho imparato, da solo, sulle riprese in alta risoluzione. I miei sogni li ho vissuti ma non posso più permettermi i lusso di farlo.

Spesso gli astroimager più preparati tecnicamente tengono ben nascoste le preziose tecniche che gli permettono di ottenere risultati migliori degli altri. Io ho deciso di rompere questo muro di omertà e rivelare senza filtri tutto quello che nessun libro, nessuna conferenza e neanche nessuna confidenza amichevole ha mai svelato.
Non ho mai creduto ai segreti nella scienza, piuttosto alla condivisione di dati ed esperienze; questo è il mio piccolo contributo.

Nel libro si trovano molti esempi di elaborazione e ripresa ottenuti con la mia strumentazione e per facilitare la comprensione ho messo a disposizione in un apposito spazio all'interno del mio sito (il link si trova nel libro) molte delle immagini (più di 40) grezze. Così possiamo finalmente far pratica, riprodurre i passi descritti nel testo e confrontare la qualità delle riprese con quelle ottenute con i vostri strumenti.

Come solito sono disponibili pù versioni:
-  L'edizione cartacea si trova su Lulu e Amazon.it  (stampa in bianco e nero)
-  L'edizione Kindle è qui
-  L'edizione digitale in formato PDF con immagini in alta risoluzione è invece disponibile qui.

Se acquistate l'edizione cartacea avete diritto anche a quella in PDF senza spendere un euro. Basta mandarmi una mail a : infoATdanielegasparri.com sostituendo AT con @

Continuerò naturalmente a fare divulgazione con il progetto "Astronomia per tutti" che pesca da tutti i testi pubblicati e crea un corso trasversale attraverso tutti i livelli dell'astronomia.
L'astronomia in Italia non ha mai pagato, l'editoria è a un punto morto, figuriamoci cosa succede all'editoria indipendente astronomica. Lo dico io: 12 libri pubblicati mi rendono ben 100 euro al mese quando va bene e alcuni di questi si trovano costantemente in cima alle classifiche di vendita della categoria astronomia di Amazon(!).
Quei due volumi messi a disposizione gratuitamente vendono invece quasi le copie dei bestseller: fino a 20 al giorno ciascuno, vale a dire quasi settemila l'anno, che moltiplicato i due euro che avrei ricevuto se li avessi messi a pagamento mi avrebbero concesso di continuare a sognare.
Un giorno, se avrò voglia, farò meglio i conti e li renderò pubblici perché visti con occhi esterni potrebbero sembrare pure divertenti. Di sicuro lo sono per qualcuno che vive in un Paese normale, non in questo.

Domande e risposte: Lo spazio è completamente vuoto?



No, in Natura non esiste il vuoto assoluto. 
Anche nel più remoto ed isolato angolo di Universo è possibile rilevare una minima quantità di materia ed energia. 

Il vuoto, il nulla, è qualcosa non contemplato neanche dalle stesse leggi fisiche che descrivono il funzionamento e le proprietà dell’Universo.
Senza addentrarci in questioni complesse, limitiamoci a parlare della materia.
Sotto questo punto di vista, lo spazio aperto è il luogo più vuoto che possiamo immaginare, centinaia di volte maggiore del più spinto vuoto che possiamo creare sulla Terra.
Ma le particelle sono ovunque, sebbene possano diventare merce molto più rara dell’oro terrestre.

Nello spazio interplanetario, quello che riempie le distanze tra i pianeti del Sistema Solare, la densità media delle particelle è di appena cinque ogni centimetro cubo di volume, alla distanza della Terra.
Per un paragone, l’atmosfera terrestre a livello del mare contiene qualcosa come dieci miliardi di miliardi di molecole ogni centimetro cubo. In effetti, anche se non perfettamente vuoto, lo spazio contiene davvero poca materia!

Ancor più rarefatto è quello che viene chiamato mezzo interstellare, il gas presente negli spazi tra le stelle all’interno di una galassia. La sua densità media, per la Via Lattea, si attesta su una particella ogni centimetro cubo.
In un cubo con lati di un metro, abbastanza grande per contenere una persona, si contano in media appena un milione di particelle, contro i circa sette miliardi di miliardi di miliardi (1027) di atomi che compongono una persona di 70 kg!

Il vuoto più spinto lo possiamo trovare negli sterminati spazi che separano due galassie. Il mezzo intergalattico ha una densità stimata pari a un atomo ogni metro cubo.
Nella stessa scatola di prima, quindi, troverebbe posto solamente un atomo, un volume circa 1000 volte più rarefatto del già poco affollato mezzo interstellare.

mercoledì 20 febbraio 2013

Cos'è la radiazione cosmica di fondo?


Questo post è estratto dal mio libro "Nella mente dell'Universo", disponibile in formato ebook a soli 2,99 euro, e in versione cartacea

 
Nel 1964 due ingegneri della società telefonica Bell Telephone, Arno Penzias e Robert Wilson, stavano conducendo degli esperimenti per testare il disturbo causato dall’atmosfera terrestre in previsione del lancio del primo satellite per telecomunicazioni (Telestar).
Durante questi test la loro antenna captò uno strano rumore di fondo, un segnale debole ma sempre presente. I due tecnici si misero subito all’opera per capire la ragione di questo segnale. Smontarono e rimontarono l’antenna, addirittura trovarono un nido di piccione al suo interno, ma nulla cambiò l’esito delle misurazioni, il rumore di fondo era sempre presente.
Ben presto arrivarono alla conclusione che doveva trattarsi di qualcosa esterno all’atmosfera terrestre, addirittura allo stesso sistema solare, che permeava tutto lo spazio indistintamente, visto che non era sensibile all’orientazione dell’antenna, ne alla posizione della Terra attorno al Sole durante l’anno.

I due scienziati ottennero anche un primo spettro di questa misteriosa sorgente, raccogliendo l’intensità del segnale luminoso in funzione della lunghezza d’onda, scoprendo che si trattava di un segnale prodotto da un corpo nero praticamente perfetto alla temperatura di circa 3 K.
Il loro lavoro si limitò a escludere meticolosamente qualsiasi fonte di disturbo locale; una volta eseguiti tutti i possibili test, che risultarono negativi, pubblicarono i risultati il 13 maggio 1965 nella rivista Astrophysical Journal, senza fare alcuna ipotesi fisica sulla natura di questa radiazione elettromagnetica.

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Spettro della radiazione cosmica di fondo: la temperatura dell'Universo
Appena letto l’articolo, gli astronomi dell’università di Princeton, alla ricerca di questa radiazione come prova dei loro modelli di Universo, subito capirono che quello che avevano teorizzato e si accingevano a cercare era stato già scoperto in modo inequivocabile (e incredibilmente fortuito) da Penzias e Wilson. Questa radiazione divenne la prova decisiva e più forte della nascita dell’Universo attraverso il Big Bang

Le misurazioni pionieristiche di Wilson e Penzias valsero ai due ingegneri il premio nobel per la fisica. La loro scoperta si rivelò essere una delle più importanti del secolo, al pari dell’espansione dell’Universo da parte di Hubble 35 anni prima. 

Il cielo è permeato da una radiazione elettromagnetica, uguale in ogni direzione, piccata alla lunghezza d’onda di circa 0,2 centimetri, che corrisponde alla parte dello spettro elettromagnetico centrata nelle microonde. Il profilo è perfettamente sovrapponibile a quello di un corpo nero con temperatura di 2,725 K.
Questa è la temperatura dell’Universo lontano da stelle, galassie e qualsiasi sorgente di calore.

La radiazione cosmica di fondo rappresenta l’eco del Big Bang, l’atto iniziale di formazione dell’Universo stesso. Essa è la prova che l’Universo ha avuto un’origine da un punto e si è poi espanso come confermato dall’osservazione del redshift cosmologico delle galassie.
La radiazione che osserviamo è giustificata in modo preciso da un modello che prevede la nascita dell’Universo attraverso il Big Bang e la successiva evoluzione seguendo le semplici e ben conosciute leggi della termodinamica, come se l’Universo stesso fosse un enorme contenitore di energia e gas in espansione. In perfetto accordo con i dati teorici, la radiazione cosmica di fondo è stata emessa dall’Universo quando aveva un’età compresa tra 300.000 e 400.000 anni, al tempo in cui la materia si disaccoppiò dalla radiazione. In altre parole, l’Universo, a quel tempo giovanissimo, divenne trasparente alla radiazione, che non interagì più con la materia e fu libera di scappare e vagare senza praticamente venirne più alterata. 

Al tempo del disaccoppiamento la radiazione aveva, a causa delle interazioni numerose con le particelle dell’Universo (in particolare gli elettroni), uno spettro di corpo nero perfetto alla temperatura dell’Universo nel momento appena antecedente il disaccoppiamento. Questa temperatura era di circa 4.000 K, con un’emissione piccata nel vicino infrarosso.
Perché la radiazione cosmica di fondo ora ci appare molto più fredda? Perché il picco dello spettro si è spostato da 950 nm a 0,2 cm? 
Semplice: l’espansione dell’Universo ha “redshiftato”, cioè spostato verso il rosso, anche questa radiazione e proprio in conseguenza all’espansione esso si è gradualmente raffreddato fino alla temperatura attuale. 

La radiazione cosmica di fondo rappresenta il dettaglio più giovane che possiamo osservare (attualmente) del nostro Universo.
Poiché guardando lontano nello spazio si guarda anche lontano nel tempo, non è possibile osservare a una distanza superiore a quella della radiazione cosmica di fondo, posta a circa 13,4 miliardi di anni luce.
L’Universo è sicuramente più grande, ma poiché la luce si propaga a velocità finita, noi non possiamo vedere oltre questo limite. Questo è il nostro orizzonte, limitato dall’età dell’Universo.

In questo stesso istante un osservatore posto a 13,5 miliardi di anni luce dalla Terra non vedrebbe il nostro pianeta, ma un’epoca che corrisponde al disaccoppiamento materia-radiazione. Egli osserverebbe esattamente quello che vediamo noi in questo momento nella direzione dello spazio dove dovrebbe trovarsi: la radiazione cosmica di fondo. 
La simultaneità nell’Universo è un concetto molto elastico; quello che per noi è adesso diventa un istante passato per ogni altro punto dell’Universo che stiamo osservando, maggiore quanto più lontano gettiamo lo sguardo.

Negli anni novanta del secolo scorso un satellite (COBE) fu lanciato dalla NASA per studiare in dettaglio forma e distribuzione della radiazione cosmica di fondo, alla scoperta di indizi che potessero gettare uno sguardo migliore sulle proprietà dell’Universo.
E’ naturale pensare, infatti, che se la radiazione che osserviamo era fino a quel momento accoppiata alla materia, interagendo continuamente con essa, e poi ne è uscita quasi completamente inalterata, allora deve conservare le proprietà e le caratteristiche della materia a quel tempo, deve contenere gli indizi per la futura evoluzione dell’Universo.
Possiamo infatti immaginare la radiazione cosmica di fondo come una specie di codice genetico dell’Universo (DNA): in essa è scritto tutto quello che riguarda l’evoluzione e il destino stesso, compresa la nascita di stelle e galassie.
Osservando e interpretando nel modo migliore questo codice genetico, possiamo avere un quadro di come si è evoluto l’Universo e di quale, probabilmente, sarà il suo destino.

Le immagini ricevute mostrarono un fondo cosmico presente e in perfetto accordo con quanto misurato da Terra fino a quel momento, con uno spettro tipico di un corpo nero, ma con delle leggerissime disuniformità spaziali, dette anisotropie: insomma, guardando più in dettaglio, la radiazione cosmica di fondo non era perfettamente omogenea come si era pensato e osservato fino a quel momento.


Differenze della temperatura della radiazione cosmica di fondo
Rimuovendo il disturbo causato dalla nostra galassia, anche essa emettitrice di microonde che possono disturbare l’emissione cosmica di fondo, e il contributo causato dal moto relativo a essa, la situazione apparve molto chiara. Benché a una temperatura di 2,725 K , erano evidenti piccolissime fluttuazioni di temperatura, dell’ordine di una parte su un milione: estremamente ridotte ma fondamentali per lo sviluppo dell’Universo così come lo conosciamo.
Queste piccolissime perturbazioni rappresentano i segni dell’evoluzione dell’Universo.
Crescendo nel tempo a causa della forza di gravità, le perturbazioni hanno dato origine alle galassie, alle stelle e a tutto quello che possiamo osservare. 

Se il fondo di radiazione, quindi l’Universo, non avesse avuto queste piccole increspature, non si sarebbe creata neanche una stella e non si sarebbe mai evoluto.
Una piccola perturbazione di una parte su un milione è invece sufficiente per trasformare l’Universo da un mare oscuro di particelle a un luogo pieno di galassie e stelle.
Coincidenza o parte di un disegno cosmico? I credenti vedranno la mano del creatore, gli atei lo vedranno solo come l’unico risultato che ha reso possibile la nostra stessa esistenza e il fatto che ora ci stiamo ponendo altre domande: se ci sono state altre combinazioni noi non lo sapremo mai, perché solo questa ci ha dato la vita.

lunedì 18 febbraio 2013

Domande e risposte: Quante lune ci sono nel Sistema Solare?



I satelliti naturali, più comunemente dette lune, sono molto più frequenti di quanto si possa credere, al punto che si fa prima a elencare i pianeti che non ne possiedono piuttosto che quelli che ne hanno almeno uno. 

Mercurio e Venere sono gli unici pianeti del Sistema Solare sprovvisti di satelliti naturali. La causa, probabilmente, è da imputare alla crescente forza di gravità del Sole mano a mano che vi si avvicina.
Solamente la Terra ha un unico satellite naturale, la Luna, peraltro piuttosto particolare e sotto certi punti di vista unico nel Sistema Solare.
Il ben più piccolo Marte, poco più della metà del nostro pianeta, ha due lune che somigliano molto a giganteschi sassi di qualche decina di chilometri di diametro.

Giove e Saturno guidano a mani basse questa speciale classifica. Sebbene più grande e massiccio, non è però Giove il capo del più folto esercito di satelliti naturali. Nonostante i calcoli ufficiali dicano 66 lune per il gigante e 62 per Saturno, le stime parlano chiaro: il pianeta con gli anelli potrebbe possedere oltre 200 satelliti naturali.
Urano e Nettuno, benché lontani da questi valori, si fanno comunque rispettare, con rispettivamente 27 e 13 satelliti naturali finora scoperti. 

Complessivamente, quindi, i satelliti naturali dei pianeti sinora noti sono 172, ma considerando l’ipotetica famiglia di Saturno e qualche piccola luna ancora non scoperta, soprattutto di Urano e Nettuno, potremmo superare agevolmente il muro dei 300.

Se vogliamo invece fare un calcolo globale, le cose si complicano. Si, perché i satelliti naturali non sono una prerogativa solamente dei pianeti, ma anche dei cosiddetti corpi minori.
Attorno a Plutone, ad esempio, il capo della classe dei pianeti nani, sono state scoperte ben 5 lune.
Anche del pianeta nano Haumea sono noti, al momento, due satelliti, mentre solo uno appartiene ad Eris. 

Molte lune hanno dimensioni decisamente piccole. Tra le 172 attualmente note, sono solamente 34 quelle ad avere diametri superiori a 100 km.
Attualmente la palma del satellite naturale più piccolo spetta alla luna dell’asteroide Ida, denominata Dactyl. Con un diametro di appena 1,5 chilometri, potrebbe ricordare da vicino la casa del Piccolo Principe.

venerdì 15 febbraio 2013

Meteorite in Russia, proviamo a chiarire un po' di cose

Ha fatto scalpore e subito il giro del mondo la notizia che la mattina del 15 Febbraio una tranquilla zona della Russia è stata investita da quella che giornali e telegiornali hanno definito pioggia di meteoriti, che avrebbe causato a causa dei cristalli (di cosa?) tra i 400 e i 500 feriti.

Un piccolo meteorite precipita in Russia
Subito in rete si sono riversate diverse testimonianze visive dell'evento che è risultato reale, spettacolare e molto raro.
Cosa è successo quindi in realtà?

Dall'analisi dei video e dei primi report provenienti da siti attendibili è emerso che sul far dell'alba un piccolo meteorite ha fatto ingresso in atmosfera con un basso angolo d'incidenza, ha percorso diverse centinaia di chimometri aumentando repentinamente di luminosità e si è poi dissolto in una serie di bagliori accecanti.
Subito una grande scia causata dalla vaporizzazione dei detriti e dalla ionizzazione dell'aria ha tracciato il percorso della grande meteora ed è rimasta visibile presumibilmente per almeno un'ora.



Quando tutto quello che restava dell'evento era questa spessa cortina di fumo, è stata udita una gigantesca esplosione che ha mandato in frantumi vetrate e finestre in un raggio di diverse decine di chilometri, seguita da altre di minore intensità. Sono queste ad aver causato la grande maggioranza dei feriti (se non tutti), a causa dei cristalli di vetro (non di meteorite!) che improvvisamente si sono riversati sui passanti e sulle facce di coloro che magari osservavano la grande scia da dietro la propria finestra.

Le grandi esplosioni che hanno mandato in frantumi i vetri delle abitazioni e in qualche caso, sembra, messo a dura prova l'integrità degli editifi, sono state causate dalle onde d'urto prodotte dalla disintegrazione della meteora a circa 10 chilometri di altezza. L'effetto è del tutto simile a quanto avviene con una grande esplosione: lo spostamento repentino d'aria può causare danni anche gravi a persone e cose.
Alcuni video, come questo, possono rendere bene l'idea di questo enorme boato a ciel sereno:



I danni quindi non sono stati causati (almeno così sembra) direttamente dall'impatto del meteorite con il suolo. La presunta pioggia di meteoriti denunciata da giornali e telegiornali può essere giustificata solamente con il fatto che l'ingresso in atmosfera dell'unico meteorite (un solo evento, non molteplici!) si sia concluso con la produzione di una serie di frammenti alcuni dei quali potrebbero esseere precipitati al suolo con una velocità, quindi violenza, nettamente minore del corpo iniziale e aver causato altri ristretti e limitati danni (perché se non ci cade in testa non ci fa niente).

C'è qualche collegamento con il piccolo asteroide DA14 che questa sera (15 Febbraio) sfiorerà il nostro pianeta passando a una distanza inferiore dei satelliti geostazionari adibiti alle comunicazioni (36 mila chilometri)? Il buon senso e soprattutto le prime analisi dicono proprio di no: questo è un evento indipendente, raro ma non rarissimo.
Si presume che il corpo celeste responsabile di tutta questa confusione e spettacolo nei cieli russi abbia avuto un diametro dell'ordine di un metro, davvero piccolo confrontato anche con le dimensioni di DA14, dell'ordine di quelle di un aereo di linea.

Chiamati superbolidi, questi piccoli asteroidi non sono abbastanza grandi da raggiungere la superficie con la devastante potenza dei più grandi, ma risultano spettacolari nel cielo e, come questo episodio, anche pericolosi per i danni indiretti che possono causare.

Proprio nel mio viaggio in Australia del Novembre 2012 ho assistito a un evento simile, seppur su scala leggermente inferiore: una grande meteora ha illuminato a giorno il paesaggio per qualche secondo, lasciando una scia simile a quella dell'evento russo, rimasta ben visibile per più di un'ora.

Per approdonfire e restare aggiornati, queste sono risorse attenbibili:
http://www.slate.com/blogs/bad_astronomy.html 
http://www.space.com/
http://www.universetoday.com/


mercoledì 13 febbraio 2013

Di cosa è fatta la materia? Di vuoto!



Questo post è estratto dal mio libro "Nella mente dell'Universo", disponibile in formato PDF ad alta risoluzione, e in versione cartacea
 

Un atomo è un’entità formata da un nucleo di dimensioni piccolissime, attorno a un milionesimo di miliardesimo di metro (10^-15 metri), composto da protoni e neutroni e uno o più elettroni (in numero pari ai protoni nel nucleo) che in qualche modo vi si trovano intorno, in posizioni simili a delle orbite ma mai definite (orbitali).
Gli elettroni esterni identificano i confini dell’atomo, sebbene non siano mai netti.
L’atomo più semplice è quello di idrogeno, formato da un nucleo composto da un protone e un solo elettrone che in qualche modo gli “orbita” intorno.
Un atomo di idrogeno ha un raggio tipico (raggio di Bohr) di 5,3x10^-11 metri, mentre le particelle che lo formano hanno dimensioni dell’ordine di 10^-15 metri.

Un atomo è per oltre il 99,99% vuoto!
Un momento, ragioniamo su questi due dati: il raggio di un atomo è circa 10.000 volte maggiore del raggio delle particelle che lo compongono; questo è qualcosa di incredibile! Per avere un paragone con numeri più familiari, possiamo immaginare le particelle dell’atomo grandi come una pallina da tennis; bene, la distanza alla quale l’elettrone orbita attorno al nucleo è pari a circa 250 metri! 

Un atomo è sostanzialmente vuoto, poiché oltre il 99,99% del volume non è occupato da alcuna particella. Tra il nucleo e gli elettroni c’è semplicemente un volume infinitamente grande e vuoto. Se quindi vi capita di chiedere a qualche fisico come è fatta la materia e in cambio ricevete la risposta “la materia è vuota”, non vi sta prendendo in giro, ma sta semplicemente analizzando la realtà: un bicchiere contenente una goccia d’acqua per voi è pieno o vuoto? Bene, per gli atomi vale lo stesso!
Il fatto che gli atomi siano per il 99,99% vuoti è davvero un bene per tutti gli abitanti dell’Universo. Le particelle subatomiche di cui sono composti sono infatti estremamente concentrate, ovvero possiedono densità elevatissime. 

La densità di un neutrone è di circa 10^14 grammi su centimetro cubo (centomila miliardi di grammi ogni centimetro cubo!)
In altre parole, se l’atomo fosse pieno per tutto il suo volume, un centimetro cubo di materia peserebbe, sulla Terra, circa 100 miliardi di kg!
L’Universo stesso non sarebbe esistito: se gli atomi sono praticamente vuoti, vuol dire che questa era la condizione migliore per sviluppare un Universo vivo e stabile per decine di miliardi di anni.
Sebbene il modello classico planetario sia facilmente visualizzabile, l’atomo non è un sistema solare in miniatura e gli elettroni non sono particelle ben definite che ruotano intorno al nucleo. 

La struttura di un atomo non si può visualizzare correttamente, perché totalmente diversa da qualsiasi situazione ed esperienza che noi uomini possiamo vivere e osservare (e il cervello non può immaginare qualcosa che non ha mai visto!).
Sebbene l’idea degli antichi greci fu concettualmente corretta, gli scienziati del diciannovesimo secolo hanno avuto forse un po’ troppa fretta nel definire atomo questa entità, che è solo l’inizio dell’infinitamente piccolo, la parte più grande che racchiude un mondo di particelle davvero complesso e che negli ultimi anni, grazie a imponenti acceleratori, si sta riuscendo finalmente a scoprire.

lunedì 11 febbraio 2013

Domande e risposte: Perché il Sole è così brillante?



Il Sole, come tutte le stelle, brilla di una luce estremamente intensa. Come molti altri suoi colleghi, questa immensa energia sarà disponibile per diversi miliardi di anni.
Ma da dove proviene?
In Natura l’energia non si crea dal nulla, ma si può solo trasformare. La luce che possiamo osservare del Sole, deve quindi provenire da qualche processo che attinge ad una quantità enorme di energia.
Per molto tempo la fonte di energia delle stelle è stata uno dei più grandi misteri dell’astronomia, mettendo alla prova la pazienza e la mente di generazioni di scienziati.

Nel diciannovesimo secolo, alcuni astronomi ipotizzarono che l’energia derivava direttamente dal processo di contrazione gravitazionale. Quando un gas si comprime si scalda ed emette luce, quindi perché le stelle non potrebbero emettere la stessa energia mano a mano che si comprimono?
Calcoli alla mano, altri astronomi dimostrarono che questa fonte di energia avrebbe potuto essere sufficiente per non più di qualche milione di anni, una decina al massimo.
Com’è possibile, allora, che ci siano stelle molto, molto più vecchie?
La risposta, quindi, è sbagliata; c’è qualche altro meccanismo che fa brillare le stelle e le mantiene in vita contro la loro stessa forza di gravità che tenderebbe a farle implodere.

L’energia prodotta, e successivamente emessa sottoforma di radiazione elettromagnetica, si origina dal processo di fusione nucleare, che si sviluppa nella zona centrale del Sole (non oltre un raggio del 10% rispetto al totale), relativamente facile da comprendere.
L’idrogeno, che è l’elemento principale, al centro si trova in forma ionizzata, ovvero privo del suo unico elettrone. L’atomo di idrogeno privato dell’elettrone si riduce ad una singola particella: il protone, di carica positiva.
A causa della forza elettromagnetica, due particelle della stessa carica si respingono in modo maggiore quanto minore è la loro distanza, proprio come succede anche per due calamite quando vengono avvicinate secondo due poli dello stesso segno.
Al centro del Sole, tuttavia, la temperatura è così elevata che gli urti tra protoni sono estremamente energetici. Basti pensare che la forza con cui si avvicinano due particelle di questo tipo è simile a quella che eserciterebbe una montagna se si trovasse sulle nostre spalle. Questa enorme forza alla quale tutti i protoni del nucleo sono sottoposti riesce a farli avvicinare gli uni agli altri fino alla distanza critica di un milionesimo di miliardesimo di metro!
Questa distanza è estremamente importante per il funzionamento stesso dell’Universo.
Quando due protoni si trovano entro questo raggio, la repulsione elettromagnetica cessa di colpo e cede il posto ad un nuovo tipo di interazione, chiamato forza forte.
La forza forte è attrattiva e ben 100 volte più intensa della repulsione elettromagnetica.
Le particelle, che fino a quel momento cercavano di allontanarsi in tutti i modi respingendosi con una forza mostruosa, ad un certo punto si fondono unite da una potentissima colla.
In realtà le cose sono un po’ più complesse, al punto da richiedere qualche nozione di meccanica quantistica, ma noi ci accontentiamo di sapere che se la temperatura è molto alta, le particelle possiedono così tanta energia che possono vincere la repulsione elettromagnetica ed essere poi fuse dalla forza forte. Quando questo accade, si forma una nuova specie atomica (un nuovo elemento). 

Ma com’è possibile che questo processo produca energia?
Se con una bilancia immaginaria pesassimo questo nuovo elemento e lo confrontassimo con il peso delle particelle di cui è composto quando si trovano libere, noteremmo una differenza piccola, ma fondamentale. Dalla fusione di due nuclei di idrogeno si forma un nucleo di elio che possiede una massa inferiore dello 0,7% rispetto alla somma delle masse delle particelle di cui è composto.
La massa mancante si è trasformata in energia, secondo la famosissima relazione di Einstein: E=mc^2. È questa energia, liberata sottoforma di raggi gamma, quella che consente a tutte le stelle dell’Universo di brillare, quindi di esistere. 

Il ciclo di reazioni più importante che permette al Sole e alle altre stelle di splendere per molto tempo è chiamato catena protone-protone.
Nella catena protone-protone vi sono coinvolti 4 nuclei di idrogeno che portano alla formazione di un nucleo di elio 4, formato da 2 protoni e 2 neutroni.
L’energia prodotta in questo modo è spaventosamente alta; basti pensare che un grammo di atomi di idrogeno fondendosi produce la stessa quantità di energia che si ricava bruciando 11 tonnellate(!) di carbone.
Nel Sole ogni secondo viene prodotta un’energia spaventosa, pari a 0,38 miliardi di miliardi di miliardi di Watt!
In un anno l’energia generata è quindi miliardi di volte la produzione dell’intero genere umano in tutta la sua storia.

mercoledì 6 febbraio 2013

C'è o c'era acqua su Marte?

Questo post è tratto dal mio libro "Sognando il Sistema Solare", disponibile in ebook Kindle, in PDF ad alta risoluzione e in versione cartacea con il nuovo titolo di "Conoscere, Capire, Esplorare il Sistema Solare

C'era acqua nel passato di Marte?

Il mistero più affascinante di Marte ruota attorno alla presenza o meno di acqua nel suo passato e nel presente.
Fiume su Marte?
I dati ricevuti dalle prime sonde giunte sul pianeta, tra cui le gloriose Viking, hanno sollevato un problema di cui ancora se ne discute animatamente a distanza di oltre 30 anni.
Le immagini provenienti dalla superficie e dall’orbita hanno fornito numerosi indizi sul fatto che il pianeta un tempo fosse estremamente diverso dall’arido deserto attuale.
Oltre alle peculiari proprietà dell’emisfero nord, che potrebbero essere spiegabili anche con un gigantesco impatto che avrebbe rimodellato la superficie, nel dettaglio il suolo marziano è percorso da quelli che sembrano resti di decine di fiumi e grandi laghi, come quello riportato nell’immagine a destra.
Se infatti confrontiamo queste immagini con le situazioni familiari e più conosciute della Terra, gli indizi potrebbero addirittura trasformarsi in prove evidenti. 

Un fiume che scorre per lungo tempo nel suo letto modella la superficie, leviga le pietre, scava il terreno, muove la sabbia, genera valli e canyon. Molte sono le formazioni di questo tipo scoperte dalle sonde in orbita.
Il fatto che attualmente non vi sia acqua in questi probabili antichi letti, alcuni dei quali davvero giganteschi, è ciò che impedisce agli scienziati di essere certi della loro origine. 

Perché così tanta incertezza?
Sostanzialmente perché la nostra analisi si basa solamente su una somiglianza visiva con le strutture geologiche che sulla Terra sono formate dallo scorrere dell’acqua. Siamo proprio sicuri, però, che non potrebbero esserci altri motivi, che attualmente ignoriamo, per cui su Marte si siano formate strutture simili senza dover per forza di cose considerare l’azione erosiva prodotta dal nostro familiare liquido trasparente?
La prudenza resta d’obbligo anche guardando un’immagine apparentemente eloquente come quella sopra, per un motivo molto semplice: le condizioni di pressione e temperatura sul suolo marziano attualmente impediscono all’acqua pura di esistere stabile allo stato liquido.

Presso i poli è congelata, alle basse latitudini può esserci solo sottoforma di vapore.
Ammettere che quelle strutture siano letti di antichi fiumi, significa quindi rendere implicito che un tempo l’atmosfera del pianeta rosso fosse profondamente diversa, tanto da consentire all’acqua di scorrere liberamente e in grandi quantità.
Uno scenario del genere solleva, proprio come gli imponenti venti marziani, molte altre domande: come si è modificata l’atmosfera? Perché è cambiata così tanto? E dove è finita tutta l’acqua?
Difficile ancora mettere insieme i pezzi di un puzzle davvero estremamente più complicato di quanto si potesse pensare, anche perché molte delle analisi necessarie per confermare o confutare la teoria devono essere fatte sul luogo.
Fino a questo momento sono stati trovati degli indizi, alcuni a dire la verità davvero forti.
Il rover Opportunity ha trovato rocce sedimentarie, che sulla Terra si formano solamente in presenza di acqua.

Ghiaccio d'acqua su Marte
La sonda Phoenix ha confermato che alle alte latitudini il terreno è pieno di ghiaccio d’acqua.
Lo strato di permafrost, così viene chiamato il suolo perennemente ghiacciato, potrebbe contenere una riserva grandissima di acqua, tale da ricoprire buona parte dell’emisfero nord del pianeta se diventasse liquida.
Le osservazioni delle sonde in orbita attorno al pianeta, in particolare quelle di Mars Odyssey, hanno mostrato che senza la protezione del campo magnetico, l’atmosfera del pianeta rosso si sta lentamente disperdendo nello spazio a causa dell’azione erosiva del vento solare.
Questa osservazione è fondamentale, perché se riuscissimo a campire il ritmo con cui l’atmosfera evapora e la sua eventuale stabilità nel tempo, potremmo dare forza alla teoria secondo cui l’antico inviluppo atmosferico del pianeta fosse molto diverso da quello attuale. Se l’atmosfera era più spessa e calda, le grandi quantità d’acqua che ora si trovano nel sottosuolo potevano formare laghi e oceani in superficie.


Acqua nel presente di Marte?
Le indagini condotte dalle sonde, come appena visto, non sono in grado di dirci ancora se nel passato di Marte ci fosse con certezza acqua liquida, ma possono sicuramente aiutarci a comprendere se nel presente questo importante liquido possa ancora scorrere.
Se fino a qualche decennio fa gli scienziati erano convinti che le condizioni di Marte impedissero categoricamente l’esistenza di acqua liquida, le osservazioni più dettagliate dell’intera superficie planetaria degli ultimi anni hanno in parte scalfito queste convinzioni, a dimostrare che non bisogna dare mai nulla per scontato nella scienza!
A cominciare dalla sonda Mars Globar Surveyor, la prima che dall’orbita aveva la strumentazione per riprese in alta risoluzione, sulla superficie del pianeta rosso si sono cominciati a osservare dei piccoli canali da scolo lungo le ripide pareti di crateri o di alcune scarpate.
In poco più di dieci anni il loro numero è salito ad alcune centinaia.
Gli scienziati inizialmente pensavano si trattasse di antichi canali da scolo simili ai grandi letti di fiumi precedentemente osservati sulla superficie, sicuri del fatto che l’acqua liquida non potesse scorrere su Marte. Ben presto, però, Mars Global Surveyor riprese delle immagini che spiazzarono i planetologi di tutto il mondo e riaccesero le speranze sulla possibile esistenza di acqua liquida.
Le immagini riprese a distanza di pochi anni mostravano sensibili cambiamenti nella forma e nel materiale contenuto nei canali. Questo era un chiaro indizio che il fenomeno alla base della loro creazione fosse ancora attivo. 

Cosa sono i gully?
Negli anni successivi le sonde dell’ultima generazione, tra cui l’europea Mars Express e l’americana Mars Reconneaissance Orbiter, hanno ripreso centinaia di altri canali, in inglese denominati gully.

Se alcuni gully sembrano attivi, potrebbero essere causati dallo scorrere di acqua che si trova imprigionata nel sottosuolo e che a volte trova una via d’uscita sulla superficie?
Di nuovo, se fossero stati osservati sulla Terra non avremmo avuto alcun dubbio. Ma è bene ricordarsi che stiamo osservando fenomeni su un altro pianeta sensibilmente diverso dal nostro, per cui lasciarsi trasportare da una facile somiglianza potrebbe essere il modo migliore per cadere in inganno.
C’è poi un problema che non possiamo di certo trascurare: l’acqua liquida sulla superficie di Marte avrebbe vita estremamente breve. Se potessimo aprire una bottiglia sul suolo marziano, questa esploderebbe violentemente perché il liquido inizierebbe a bollire in modo estremamente vigoroso, evaporando completamente in pochi secondi. 

La situazione è simile a quando si getta acqua su una padella rovente usata per la frittura.
Se dovessimo trovarci in prossimità delle regioni polari, invece, la bottiglia congelerebbe quasi istantaneamente.
Se il liquido che crea i gully fosse acqua pura, non potrebbe mai percorrere le centinaia di metri di lunghezza dei canali alle latitudini cui sono stati osservati.
Ma allora, di quale liquido potrebbe trattarsi? E siamo proprio sicuri che debba trattarsi di liquido?
Nel 2009 gli scienziati dell’università dell’Arkansans hanno condotto una serie di esperimenti in laboratorio per comprendere se la sostanza che alimenta i gully possa essere composta da una miscela di acqua e sali.

Dopo molti tentativi è stata trovata la soluzione, semplice quanto efficace: il liquido misterioso potrebbe essere una specie di salamoia.
I sali disciolti nell’acqua ne alterano sensibilmente il punto di solidificazione; con la giusta concentrazione possono permetterle di esistere liquida anche nelle particolari condizioni marziane, sia pur per brevi periodi di tempo.
La salamoia non è stata generata con il classico sale da cucina ma con uno la cui presenza è stata rilevata in abbondanza sulla superficie di Marte: il solfato di ferro.
Quando l’acqua è mischiata alla giusta quantità di solfato di ferro può solidificare a ben -68°C sulla superficie di Marte, una temperatura compatibile con quelle registrate durante il giorno nelle zone interessate dal fenomeno.
Questo proposto, però, è solo un modello che cerca di replicare le osservazioni sulla distribuzione dei gully e sulle proprietà dell’atmosfera marziana, ma è ancora lunghi dall’essere provato. Esso, in effetti, parte dal principio secondo cui i canali siano generati necessariamente da un liquido. Se così fosse, non può che trattarsi di una soluzione di acqua e sali.
Una possibile spiegazione per i gully
 
Una dettagliata analisi delle immagini riprese dalle più recenti sonde automatiche in orbita attorno al pianeta rosso, ha però seriamente messo in dubbio questo modello.
Ci sono molte domande alle quali non si trova una risposta convincente: perché l’acqua dovrebbe scorrere alle medie e alte latitudini, laddove si concentra la grande maggioranza dei gully, e non nelle più temperate zone equatoriali?

Com’è possibile che l’attività dei canali si manifesti solamente durante o al termine della stagione invernale, quando la temperatura è più bassa?
La forma dei nuovi canali è compatibile con lo scorrere di un liquido nelle condizioni marziane?

Recenti simulazioni al computer hanno dimostrato, purtroppo, che i gully, almeno quelli recenti e ad alte latitudini, sono probabilmente generati dal rotolamento di detriti in condizioni asciutte. La teoria attualmente più accreditata prevede un ruolo centrale del ghiaccio secco. Durante gli inverni si deposita in discrete quantità al suolo. In prossimità di pareti ripide può generare valanghe che trascinano a valle i detriti e creano i gully. È inoltre plausibile che sul finire dell’inverno il ghiaccio accumulato cominci a sublimare in conseguenza dell’aumento delle temperature, generando sbuffi di gas che producono piccoli smottamenti.
Certamente un duro colpo per tutti coloro che speravano nell’esistenza di acqua liquida sul pianeta rosso.
Acqua recente su Marte?
Non tutto comunque è perduto. Alcune immagini acquisite a latitudini minori mostrano un’altra famiglia di gully, la cui forma questa volta è compatibile con lo scorrere di acqua liquida in tempi geologicamente recenti. E questo, purtroppo, significa che l’acqua che ha generato questa seconda classe di canali sgorgava probabilmente circa un milione di anni fa.
È un po’ frustrante e sconfortante pensare che basterebbe un’unica spedizione umana per risolvere questo e tanti altri misteri legati al pianeta rosso. Un astronauta che dovesse giungere nei pressi di un gully potrebbe raccogliere il terreno e analizzarlo, scoprendo in questo modo l’età e l’origine di questi misteriosi dettagli.
Tutto questo, però, al momento non è nient’altro che un sogno irrealizzabile.
Dovremo continuare ad affidarci ai piccoli robot automatici per cercare di completare l’intricato puzzle sul pianeta più simile alla Terra che attualmente conosciamo in tutto l’Universo.